Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

17/11/2016

Yemen - L'ultimo "no" all'amministrazione Obama

Gira voce, tra le stanze della diplomazia mediorientale, che la guerra in Yemen sia agli sgoccioli. Voci, visto le reazioni che il governo in esilio ha avuto all’annuncio di un accordo di cessate il fuoco appena siglato. A renderlo noto era stato il segretario di Stato Usa Kerry ieri: a partire dal 17 novembre, domani, una cessazione delle ostilità temporanea sarebbe entrata in vigore tra ribelli Houthi e coalizione a guida saudita per permettere il via al dialogo per la creazione di un governo di unità nazionale.
 
Poco dopo però il ministro degli Esteri yemenita, al-Mekhlafi, ha fatto sapere che il suo governo – figlioccio e marionetta di Riyadh – non è interessato né alla tregua né tantomeno al negoziato con gli Houthi. Mekhlafi ha accusato la Casa Bianca di interferenza. Un gioco infinito che va avanti ormai dal marzo 2015: ogni accordo siglato, dall’Onu o da altri attori regionali e internazionali, viene smentito o stracciato poco dopo da una delle parti.

Eppure il governo del presidente Hadi, esiliato all’estero seppure finga di avere la propria capitale provvisoria nella città costiera meridionale di Aden, non ha alcun potere effettivo. Incapace di riprendersi lo Yemen, relegato nel sud e il centro del paese, è costretto a piegarsi alle volontà saudite, finanziatori della guerra. È dunque possibile che la presa di posizione sia mera strategia politica, se è vero che Riyadh concorda con Washington sulla necessità di un cessate il fuoco.

Sul tavolo un documento preparato dagli Stati Uniti nel quale si individua una possibile road map, ancora piuttosto fumosa: armi in silenzio da parte di entrambi i fronti e dialogo per giungere ad un governo di unità entro l’anno sulla base del piano dell’Onu (ritiro degli Houthi dalle zone occupate e abbandono delle armi e loro partecipazione attiva al nuovo esecutivo).

L’amministrazione Obama si gioca parecchio: a due mesi dalla fine del secondo mandato, il presidente vorrebbe chiudere con un risultato positivo in un campo di battaglia che ha volutamente infiammato con finanziamenti miliardari ai Saud e l’appoggio incondizionato alla petromonarchia, sotto forma di assistenza logistica e di intelligence. Una piccola vittoria la vorrebbe segnare anche il segretario Kerry che ha trascorso gli ultimi anni a volare da un paese mediorientale all’altro senza riuscire ad archiviare praticamente nulla. A pesare è anche l’imbarazzo internazionale provocato dai palesi crimini di guerra compiuti dall’amico saudita: negli ultimi mesi l’amministrazione Obama ha ricordato di non aver firmato un assegno in bianco a Riyadh e paventato l’apertura di inchieste, seppur improbabili.

Per ora nessun commento, se non quello del governo yemenita. In Yemen le speranze sono ridotte al lumicino: la popolazione è drammaticamente consapevole di quello che le potenze regionali si giocano nel loro paese, a partire dall’Arabia Saudita che, in difficoltà in Siria, ai ferri corti con l’alleato Usa e indebolita dal calo del prezzo del petrolio, ha bisogno di segnare una vittoria indiscutibile. Ovvero fare di nuovo dello Yemen quello che era prima, il cortile di casa, un cortile strategico visto che è il punto di passaggio delle petroliere dirette verso Suez e l’Europa.

La guerra è ogni giorno più brutale. Oltre 10mila i morti, 35mila i feriti gravi, tre milioni gli sfollati e 21 milioni di persone ridotte alla fame e bisognose di aiuti immediati. Ma gli aiuti non arrivano, a causa delle difficoltà che le organizzazioni internazionali incontrano per il blocco aereo imposto da Riyadh e la scarsità grave di carburante per distribuirli. Una catastrofe umanitaria che si abbina alla distruzione fisica del paese: i raid della coalizione a guida saudita hanno distrutto con precisione chirurgica ospedali, scuole, strade e infrastrutture, fabbriche, mercati, siti archeologici di bellezza inestimabile.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento