Gira voce, tra le stanze della diplomazia mediorientale, che la
guerra in Yemen sia agli sgoccioli. Voci, visto le reazioni che il
governo in esilio ha avuto all’annuncio di un accordo di cessate il
fuoco appena siglato. A renderlo noto era stato il segretario di Stato
Usa Kerry ieri: a partire dal 17 novembre, domani, una
cessazione delle ostilità temporanea sarebbe entrata in vigore tra
ribelli Houthi e coalizione a guida saudita per permettere il via al
dialogo per la creazione di un governo di unità nazionale.
Poco dopo però il ministro degli Esteri yemenita,
al-Mekhlafi, ha fatto sapere che il suo governo – figlioccio e
marionetta di Riyadh – non è interessato né alla tregua né tantomeno al
negoziato con gli Houthi. Mekhlafi ha accusato la Casa Bianca
di interferenza. Un gioco infinito che va avanti ormai dal marzo 2015:
ogni accordo siglato, dall’Onu o da altri attori regionali e
internazionali, viene smentito o stracciato poco dopo da una delle
parti.
Eppure il governo del presidente Hadi, esiliato all’estero seppure
finga di avere la propria capitale provvisoria nella città costiera
meridionale di Aden, non ha alcun potere effettivo. Incapace di
riprendersi lo Yemen, relegato nel sud e il centro del paese, è
costretto a piegarsi alle volontà saudite, finanziatori della guerra. È
dunque possibile che la presa di posizione sia mera strategia politica, se è vero che Riyadh concorda con Washington sulla necessità di un cessate il fuoco.
Sul tavolo un documento preparato dagli Stati Uniti nel quale si
individua una possibile road map, ancora piuttosto fumosa: armi in
silenzio da parte di entrambi i fronti e dialogo per giungere ad un
governo di unità entro l’anno sulla base del piano dell’Onu (ritiro
degli Houthi dalle zone occupate e abbandono delle armi e loro
partecipazione attiva al nuovo esecutivo).
L’amministrazione Obama si gioca parecchio: a due mesi dalla
fine del secondo mandato, il presidente vorrebbe chiudere con un
risultato positivo in un campo di battaglia che ha volutamente
infiammato con finanziamenti miliardari ai Saud e l’appoggio
incondizionato alla petromonarchia, sotto forma di assistenza
logistica e di intelligence. Una piccola vittoria la vorrebbe segnare
anche il segretario Kerry che ha trascorso gli ultimi anni a volare da
un paese mediorientale all’altro senza riuscire ad archiviare
praticamente nulla. A pesare è anche l’imbarazzo internazionale
provocato dai palesi crimini di guerra compiuti dall’amico saudita:
negli ultimi mesi l’amministrazione Obama ha ricordato di non aver
firmato un assegno in bianco a Riyadh e paventato l’apertura di
inchieste, seppur improbabili.
Per ora nessun commento, se non quello del governo yemenita. In
Yemen le speranze sono ridotte al lumicino: la popolazione è
drammaticamente consapevole di quello che le potenze regionali si
giocano nel loro paese, a partire dall’Arabia Saudita che, in difficoltà
in Siria, ai ferri corti con l’alleato Usa e indebolita dal calo del
prezzo del petrolio, ha bisogno di segnare una vittoria indiscutibile.
Ovvero fare di nuovo dello Yemen quello che era prima, il cortile di
casa, un cortile strategico visto che è il punto di passaggio delle
petroliere dirette verso Suez e l’Europa.
La guerra è ogni giorno più brutale. Oltre 10mila i morti, 35mila i
feriti gravi, tre milioni gli sfollati e 21 milioni di persone ridotte
alla fame e bisognose di aiuti immediati. Ma gli aiuti non arrivano, a
causa delle difficoltà che le organizzazioni internazionali incontrano
per il blocco aereo imposto da Riyadh e la scarsità grave di carburante
per distribuirli. Una catastrofe umanitaria che si abbina alla
distruzione fisica del paese: i raid della coalizione a guida saudita
hanno distrutto con precisione chirurgica ospedali, scuole, strade e
infrastrutture, fabbriche, mercati, siti archeologici di bellezza inestimabile.
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