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04/04/2017

Stakanovismo e controriforme nel capitalismo neoliberista

Il potere di condizionamento dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo.

In una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una “nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute. Ci si potrebbe chiedere – se fosse cosa seria – se la ricerca medica stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute – se fosse vero – saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie, se mai ne avesse.

E’ notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il quale si è distinto per il tentativo – ad oggi fallito – di sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti, intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione, richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del governo Berlusconi.

Si tratta, secondo Boeri, secondo la classe dirigente e i giornalisti venditori al dettaglio dell’ideologia neoliberista e repressiva, di semplice ristabilimento di un principio di equità (naturalmente non viene neppure considerata la possibilità di uniformare per tutti la durata delle fasce di controllo alle quattro ore attuali dei dipendenti privati e neppure di stabilire un livello intermedio tra le quattro e le sette ore). Eppure, specularmente, nessuno di loro ha giudicato iniquo il cambiamento effettuato da Brunetta, allorché introduceva l’aumento della fascia oraria di reperibilità esclusivamente per il pubblico impiego: è stata considerata, anzi – quella di Brunetta – una misura “più che sacrosanta!”.

Al principio di equità si è ispirata anche la controriforma delle pensioni Fornero del governo Monti: essa ha innalzato di tanti anni l’età pensionabile (che secondo le stime supererà i 70 anni per i quarantacinquenni di oggi), soprattutto per le donne, le quali prima avevano una pensione anticipata rispetto agli uomini e ora sono state equiparate agli uomini, semplicemente innalzando l’età delle donne a quella degli uomini (con un aumento di ben dieci anni!). Non volevamo la “parità tra sessi”?
In generale, il metodo utilizzato per consentire l’introduzione delle controriforme (sfacciatamente chiamate “riforme”), che – “improcrastinabili” in quanto “ce le chiedono i mercati” – si susseguono ormai inesorabilmente da una trentina di anni (insieme al disfacimento dell’URSS e dei partiti comunisti), si svolge in due tempi: prima cambiamento in peius delle regole da applicare ad una specifica categoria di lavoratori e, dopo solo qualche anno, “solamente per pura equità”, adeguamento anche a tutti i rimanenti.

Principio di “equità”... non “uguaglianza”: quest’ultima “parola” è scomparsa come istanza sociale, considerata ormai un residuo anacronistico di ideali illuministici tramontati o del comunitarismo delle prime comunità cristiane fagocitate dalla Chiesa del potere temporale o del pensiero marxista sconfitto dal pragmatismo del mercato. “Uguaglianza”, un categoria quest’ultima legata ad un “pensiero forte”, ad un umanesimo della ragione, soppiantato, in varie fasi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, dalle correnti di pensiero irrazionaliste: Shopenhauer, Nietzsche, passando per il vitalismo di Bergson, per le teorie della razza che hanno portato al nazifascismo, per l’attualismo di Gentile, per l’esistenzialismo di Heidegger fino al pensiero debole e al post-modernismo. Si tratta di filosofie sviluppatesi nel clima culturale post 1848, segnate dal cambio di paradigma da parte della borghesia dirigente che, da classe emancipatrice e rivoluzionaria (si pensi alla Rivoluzione francese), si ritrova costretta ad arretrare e ad allearsi strategicamente con l’aristocrazia per contrastare il movimento operaio prorompente (si pensi, alla Comune di Parigi): siamo nella fase del colonialismo che precede la Prima Guerra Mondiale. La rinuncia all’umanesimo della ragione finisce per riproporre, insieme all’abbandono delle nozioni di “bene” e di “vero”, anche quel pragmatismo e quella “teoria del fare”, avulsi dal pensiero razionale e da una discussione sui fini, funzionali in ultima analisi all’irreggimentazione acritica nella società dei consumi e all’addomesticamento del lavoratore sfruttato nel mercato capitalistico.

Un altro meccanismo ideologico, promosso mediante i mezzi di informazione di massa e riprodotti nelle “chiacchiere da bar”, consiste nello screditare una categoria di lavoratori per poi poter attuare la controriforma a danno di essi. I più attaccati sono stati i lavoratori del pubblico impiego, i quali sarebbero privilegiati, scansafatiche, superprotetti, raccomandati, corrotti, falsi invalidi, finti malati, utilizzatori di permessi della legge 104 “per i propri porci comodi”: essi, insomma, “vivono sulle spalle della collettività”. Questo atteggiamento ha gioco facile perché i cittadini finiscono per scaricare su di loro la rabbia per le gravi carenze dei servizi pubblici, senza considerare che tali carenze sono in realtà da imputarsi da una parte alla corruzione e al sistema clientelare della dirigenza, dall’altra alle sempre minori risorse investite su di essi – risorse distolte dallo stato sociale in quanto (in assenza di conflittualità) da riservarsi per ridurre le imposte sulle imprese e attrarre i capitali e soprattutto per “rassicurare” i creditori del debito pubblico (mediante il “rigore” dei conti pubblici), come “ci chiede” l’Unione Europea –. Oggi l’unico vero obiettivo della politica economica italiana è infatti quello di evitare che gli attuali settanta miliardi di euro di interessi annui pagati non debbano essere ulteriormente incrementati in relazione all’aumento dei tassi di interesse (legati, quest’ultimi, appunto, alla “fiducia” dei mercati), rendendo alla fine l’immenso debito pubblico nazionale inesigibile.

La tattica sempre valida per introdurre le controriforme è quella del divide et impera: si mettono in competizione, uno contro l’altro, lavoratori del pubblico impiego e del privato, lavoratori e disoccupati, pensionati e giovani lavoratori, liberi professionisti e dipendenti, immigrati e non, persino impiegati e operai all’interno di una stessa azienda industriale, ma anche Italiani e Francesi, Europei e Cinesi e via su questa strada. Queste sarebbero, nell’ideologia neoliberista e post-moderna, le reali contrapposizioni sociali, mentre è considerato “superato” o, paradossalmente, “ideologico” parlare di opposizione tra lavoratori e capitalisti (o come si diceva con chiarezza, “operai e padroni”). Addirittura, hanno cercato (e lo ha fatto anche lo stesso Boeri) di mettere in opposizione i pensionati persino con chi ancora non è nato, allorché è stato affermato che “non ci si può più permettere di far vivere i pensionati sulle spalle delle future generazioni”. Purtroppo non è dato sapere come la pensano effettivamente in proposito quei figli o nipoti (in nome dei quali i pensionati dovrebbero sacrificarsi) con salari da fame o disoccupati che vengono sostenuti economicamente dalle pur modeste pensioni dei genitori o dei nonni... ma questo “non deve interessare” in quanto “chi non lavora è una sanguisuga”, anzi, “che ci sta a fare un bamboccione ancora a casa con mamma e papà”? I legami famigliari infatti contrastano la piena libertà del mercato del lavoro, sostenendo i disoccupati, i quali in tal modo non sono ancora costretti ad accettare ad ogni costo qualsiasi salario e qualsiasi condizione lavorativa per sopravvivere.

Come sono lungimiranti i nostri governanti! Si preoccupano delle future generazioni, le stesse che tuttavia erediteranno un ecosistema devastato, a causa dell’impossibilità, all’interno del sistema capitalistico, malgrado grandiosi summit mondiali – in realtà inconsistenti “messe in scena” – di prendere veri provvedimenti di preservazione delle risorse naturali. Questi, d’altra parte, impatterebbero con la massimizzazione dei profitti. I sistemi di produzione in un’economia capitalistica si basano sulla crescita irrazionale dei consumi e sullo spreco, precisamente sul primato del valore di scambio sul valore d’uso, scaricando i costi esterni sulla biosfera ed indistintamente su tutta l’umanità.

Pensioni da fame e sanità pubblica in forte ridimensionamento (insieme forse anche ad altri fattori come la distruzione del tessuto sociale e il traffico, lo stress da lavoro e la disoccupazione) hanno già comportato, come è noto dai dati ISTAT, per la prima volta nel dopoguerra, un abbassamento dell’aspettativa di vita per gli Italiani. Ciò non può aver meravigliato i nostri governanti, i quali lo avevano previsto già da tempo. Infatti nella riforma pensionistica della Fornero del governo Monti la normativa ha previsto sin dall’inizio che il legame tra aspettativa di vita su base ISTAT ed età pensionabile fosse tale solo nella direzione dell’aumento e non fosse reversibile nel caso di riduzione dell’aspettativa di vita. I giornalisti però, come al solito, si sono sempre ben guardati dall’informare adeguatamente il pubblico in merito a tale asimmetria.

Le controriforme del lavoro (Job Act di Renzi – in inglese dà un’idea di essere più moderno! –) facilitano i licenziamenti, portando i salari a livello di sopravvivenza sotto il ricatto della disoccupazione. Quest’ultima è infatti funzionale ai profitti del capitale, tant’è che nulla si fa in concreto per combatterla. Basti dire che il governo Monti (per aumentare la disoccupazione, intimidire i lavoratori, ridurre la spesa pubblica e rassicurare i creditori) ha incrementato gli anni di vita di lavoro non solo, come detto, aumentando di tanti anni l’età pensionabile, ma anche eliminando sia l’istituto della Mobilità per i licenziamenti collettivi (tre anni di sussidio e quattro nelle zone ex Cassa del Mezzogiorno) sia la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria a seguito di licenziamenti collettivi (altri quattro anni). Tutto ciò, senza considerare la disoccupazione conseguente all’aumento della produttività per l’introduzione della robotica nelle fabbriche, dell’automazione e dell’informatizzazione.

Pure un bambino capisce che basterebbe ridurre adeguatamente l’orario di lavoro a tutti per riassorbire la disoccupazione – ma ciò contrasterebbe la politica di riduzione dei salari –. Eppure, paradossalmente, si arriva a dire che contro la disoccupazione dobbiamo lavorare di più, non assentarci mai (neppure se si è malati – ma i virus e i batteri poi non si diffonderanno? –), ridurre le ferie, abolire giorni festivi, comunque “mai ammalarsi!”. Dunque si vorrebbe aumentare la durata della reperibilità per dissuadere i lavoratori dall’assentarsi per malattia, mettendo i lavoratori ammalati agli arresti domiciliari, impedendo loro persino di andare in farmacia o di comprare il latte o la frutta (si sente dire, nel “chiacchiericcio” di più o meno consapevoli portavoce della cinica ideologia neoliberista, a giustificazione di ciò, che “se uno sta male e non può lavorare non può nemmeno andare al supermercato”: ma questo altro non è che la logica dell’uomo ridotto a mero strumento di valorizzazione del capitale).

Con la crescita dei profitti da una parte e la riduzione di salari e pensioni, disoccupazione e contrazione dello stato sociale dall’altra, non ci si può meravigliare se la polarizzazione della ricchezza si accentui sempre più, in maniera gigantesca. Ma è grottesco che per spiegare il disinvestimento sugli ospedali o sui mezzi di trasporto pubblico o la “stretta” sulle pensioni si sente sempre ripetere la frase “non ci sono i soldi”, quando non occorrerebbe un trattato di economia per vedere che i soldi in realtà ci sono (basti osservare sempre più yacht di stazza gigantesca nei porti turistici o lussuosi SUV che occupano tre posti macchina – a Roma tutto il marciapiede più mezza carreggiata –).

L’ideologia dominante e la sconfitta dei tentativi del socialismo ci offuscano la vista, ed il capitalismo, senza più contropoteri, può esplicare appieno il proprio percorso di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e di distruzione della natura per il vantaggio materiale di pochi. L’ideologia attuale, risultato dell’egemonia della cultura del mercato capitalistico, è destoricizzante e afferma l’eternità del sistema capitalistico. Tuttavia sappiamo che la storia non è finita, se, come speriamo, l’ecosistema nel frattempo non sarà così danneggiato da non consentire nel futuro uno sviluppo materiale dell’uomo. La storia non è finita in quanto una parte sempre maggiore di uomini si vorrà prima o poi opporre a questo sistema ingiusto ed irrazionale e vorrà e saprà organizzarsi per costruire un modo di produzione non capitalistico. Rischiamo, quando e se questo avverrà, che la nostra epoca e la nostra generazione, a partire dalla fine degli anni settanta, sarà descritta come una delle pagine più squallide e ottuse della storia moderna. Quindi, se non altro per dignità, per non doversi vergognare della nostra miseria morale e spirituale, in attesa ed in preparazione di una trasformazione, dobbiamo iniziare a smontare, pezzo dopo pezzo, le affermazioni ideologiche del nostro tempo, rifiutandone il contenuto falso e fuorviante, per affermare gli ideali di giustizia, uguaglianza, solidarietà ed emancipazione: consapevoli che la realizzazione di tali istanze, mai del tutto sopite, che hanno accompagnato i momenti più alti dell’idealità umana, non è compatibile con una società di classi sociali, sui cui invece poggia il processo di accumulazione capitalistico.

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