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04/04/2017

La strage di Pietroburgo e il contrasto politico al terrorismo

La strage di San Pietroburgo non aggiunge nulla di nuovo a quel che sapevamo del modus operandi del terrorismo Jihadista: tutto come da copione dei casi di Madrid, Londra eccetera. Il che rende ancora più strana la strage londinese che ha “sprecato” (consentitemi l’espressione) uno scenario come Westminster per un attentato a così basso potenziale terroristico, mentre da altra parte il terrorismo jihadista esprime una aggressività ben maggiore. Tutto può essere, ma l’attentato londinese sembra più opera di un personaggio isolato (o, al massimo, collegato a pochi complici) e non in contatto con l’Isis o simili, mentre qui, nel caso russo, siamo perfettamente nell’ambito della strage jihadista. Comunque sia, questa strage segna il ritorno del terrorismo radicale islamico in grande stile, dopo circa un anno di relativo calo del fenomeno.

Come è fisiologico, anche in questo caso non tutto è chiaro: la polizia parla di ordigno rudimentale, ma questo non pare, dato che è stato fatto esplodere a distanza, ha avuto un potenziale non proprio basso e per di più è stato compiuto in un paese dove entrare non è semplicissimo, dove i controlli di polizia sono stringenti ed i servizi segreti hanno un notevole livello di efficienza.

Anzi proprio questo qualche dubbio lo fa nascere: in rete c’è la foto del presunto attentatore, chiaramente di origine centro asiatica, con il suo bravo berretto che lo identifica come tale, barba folta senza baffi (che fa pensare ad un salafita) e pastrano lungo chiuso. Manca solo che porti un cartello: “Porto bombe”. Come abbia fatto a passare inosservato un personaggio così in una città della Russia settentrionale (altra cosa sarebbe stata se fosse accaduta a Saratov oppure Orenburg dove il tipo è assai più comune) e senza un controllo di polizia?

Per di più in una giornata resa particolare dalla presenza in città del Presidente per l’incontro con un altro Capo di Stato. Altra stranezza è la rivendicazione dell’Isis che tarda a venire.

Certo: cose che possono accadere (il che, peraltro, dimostra che frontiere chiuse, rete di controlli di polizia, servizi segreti occhiuti possono rendere più difficile un’azione terroristica ma non impedirla in assoluto e, se uno vuol fare una strage, la fa) ed un certo tasso di stranezze e cose non spiegate è fisiologico nei casi di terrorismo.

Tuttavia, siamo sicuri al 100% che si tratti di un attentato jihadista? Certo, quella del radicalismo islamico resta la pista più seria e probabile, ma non è detto che sia l’unica da prendere in considerazione: a trarre giovamento dall’episodio saranno in diversi, da quei settori di intelligence americana che non sono in linea con il Presidente fautore della distensione con Mosca, agli stessi servizi russi che traggono giovamento nella repressione del dissenso interno ed in un momento non proprio tranquillo. O forse oppositori di Putin nella nomenklatura. Ormai siamo in un mondo in cui, più che della ricerca degli stragisti, conta occuparsi delle conseguenze politiche di un gesto di questo tipo, che possono coinvolgere anche soggetti molto distanti dall’area di probabile provenienza del colpo. Per il resto, qualunque attentato ha già un colpevole bello pronto: lo jihadista della porta accanto e questo invoglia anche altri a mettersi sulla scia.

Quello che balza agli occhi è quanto sia pericoloso il perdurare di questa situazione. Ormai ci stiamo abituando (da un quindicennio) alla strage periodica degli jihadista: un po’ di indignazione, lutto, solite storie di vita delle vittime, deprecazione dei maledetti islamici e poi tutto torna come prima, in attesa della prossima strage, in quella che ormai sembra una nuova “normalità”.

Non è così: questa cronicizzazione del terrorismo porta con sé ulteriori degenerazioni e pericoli molto peggiori. E mi pare che sia il caso di interrogarci sulla reale efficacia del contrasto allo jihadismo operato in questi anni: se dopo 16 anni dalle due Torri siamo ancora a questo punto, anche se non sono mancati colpi molto duri al nemico, come la morte di Bin Ladin, qualcosa non ha funzionato.

La verità, insisto sino alla noia su questo punto, è che è mancato il contrasto politico al radicalismo islamico. La guerra con il terrorismo non si vince solo sul piano del contrasto militare e di polizia, anche se entrambe le cose sono necessarie.

Ad esempio, qualcuno vuole spiegarci come fa l’Isis, dopo tre anni, a fornirsi di armi e munizioni che non si capisce per quali strade passino? E cosa sappiamo delle reti europee della jihad? Mai si sono spese tante risorse di intelligence (sia di uomini che di denaro, apparecchiature ecc.) per combattere un fenomeno terroristico e mai i risultati sono stati così deludenti, Qualcosa vorrà dire.

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