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02/05/2017

Primarie Pd: Renzi ha vinto, ma è una buona notizia per il Pd?

Circa 2 milioni al voto e 71% per Renzi: indubbiamente un successo, ma un successo relativo che chiede di essere visto controluce.

In primo luogo i partecipanti: il doppio dei pochi temuti (meno di 1 milione) ma, pur sempre 800.000 in meno della volta precedente che, pure, era stata la più bassa dal 2007 in poi. Da allora il numero dei votanti alle primarie è andato costantemente scendendo ed ormai è a poco più della metà di quei tre milioni e mezzo.

Questo è indice di un sempre minore interesse degli elettori per questo tipo di partecipazione che prometteva molto più di quanto non abbia mantenuto in materia di selezione della classe dirigente. E questo calo costante in parte spiega la flessione odierna che è la più consistente della serie e che non può essere spiegato solo con la scissione, ma anche con la caduta di consensi del Pd nell’elettorato. E si badi che già 4 anni fa il Pd veniva dalla “non vittoria” di pochi mesi prima, e che i sondaggi attuali segnalano una flessione del Pd che va oltre i consensi presi dal Mdp. Non è solo l’elettorato di sinistra del Pd che sta smottando ma anche una fascia di quello moderato che si sta guardando intorno alla ricerca di qualcos altro.

Ma, probabilmente, hanno anche inciso altri dati contingenti come la vittoria scontata di Renzi che non ha invogliato ad andare a votare. E qui entriamo nel merito della vittoria previstissima di Renzi per l’inconsistenza dei suoi concorrenti: Orlando era quasi sconosciuto ai più, aveva dietro di se una convinta militanza renziana (e il giullare non ha avuto alcuna difficoltà nel rinfacciargli di aver votato tutto insieme a lui e non aver mai manifestato alcun dissenso, neppure sulla riforma costituzionale) ed è stato di un piattume totale, direi grigio di Londra, per tutto il congresso. Il risultato ha riprodotto ed accentuato quello di un mese fa sulle mozioni, dove votavano i soli iscritti.

Emiliano, al contrario, è stato un po’ troppo effervescente, con uscite a volte incongrue, ed aveva una base di partenza troppo ristretta (la sola Puglia e regioni circonvicine) e il “vai e vieni” con la scissione non gli ha giovato.

Dunque, la concorrenza non era al livello della sfida. Ma basta a dire che Renzi ha vinto? Certo è arrivato primo con una percentuale un po’ più alta di 4 anni fa, ma di mezzo, c’è stata una scissione e l’uscita di molti militanti, il Pd di oggi corrisponde alla sola corrente renziana di questi anni che si è divisa in tre. Dunque un 70% ma su una base di partenza più ridotta e con qualche segnale interessante come il calo dei votanti al Nord (ed il tracollo nelle regioni rosse) compensato in parte dall’aumento nelle regioni meridionali.

All’inizio del confronto avevo fatto una previsione sbagliata, ipotizzando che Renzi potesse arrivare sotto il 50%, con Orlando oltre il 35% ed Emiliano il 15%. Quella previsione si basava sull’ipotesi che Franceschini ed i piemontesi si smarcassero da Renzi e che Orlando raccogliesse quasi del tutto il gruppo dei giovani turchi.

Quanto a Emiliano, sembrava profilarsi una convergenza con De Luca. Invece tutti questi pezzi sono restati con Renzi, preferendo non scommettere su un ricambio così poco convincente. Dunque, quello di Renzi è stato sostanzialmente un successo dovuto all’apparato che lo ha retto, mentre Orlando ha incassato la fiducia di diversi notabili (Violante, Finocchiaro, Zingaretti...) ma ha inciso pochissimo nell’apparato, salvo qualche zona molto circoscritta (non è arrivato primo neanche nella sua Liguria) e, per il resto ha raccolto di più nell’elettorato di opinione, che, però, è in calo. Emiliano è stato sorretto dall’apparato pugliese e per il resto da isole di consenso qua è là in Calabria, Sicilia, Lucania.

Dunque, Renzi deve la vittoria largamente ai “boiardi” del partito a differenza di quattro anni fa, quando stravinse soprattutto grazie al boom del primo turno, quando arrivò primo soprattutto grazie al voto d’opinione che poi fu alla base del suo successo alle europee di pochi mesi dopo. Quel feeling è andato scemando e si è rotto dopo il 4 dicembre.

Cosa accadrà dopo questo voto e che faranno le altre componenti del partito? Su Emiliano ed i suoi non mi pronuncio: l’uomo è troppo imprevedibile, per cui può darsi che resti nel partito se gli si riconoscerà il ruolo di vicerè per il sud, oppure scavandosi una nicchia (o una trincea). Ma può anche darsi che ne esca. In questo caso, però, non credo si diriga verso Mdp o Si o Rifondazione, quanto piuttoso una “Lega Sud” in compagnia di De Magistris.

Diverso il discorso su Orlando: ci sono stati diversi suoi sostenitori, come il consigliere regionale lombardo Rosati, che, sin dall’inizio, hanno dichiarato di non aderire alla scissione e restare nel partito nella speranza di rovesciare Renzi ma che avrebbero riconsiderato la loro decisione se avesse nuovamente vinto il fiorentino.

Ora che la sconfitta è arrivata, è plausibile che questi (o almeno una parte di loro) “si allontanino alla spicciolata” ed è altrettanto probabile che ad essi si associno altri delusi della battaglia. Qui c’è da capire cosa farà Orlando che può decidere di restare, ripetendo la traiettoria di Bersani che è arrivato quasi senza truppe allo scontro finale, perché i suoi uscivano uno alla volta, o se troverà il coraggio di una nuova scissione. Di fatto c’è che Renzi avrà molti meno seggi da distribuire in occasione delle politiche (realisticamente 200 fra camera e Senato, contro i quasi 350 complessivi attuali) dove deve soddisfare molti appetiti di quelli che lo hanno sostenuto (a cominciare da De Luca che vuole piazzare il figlio). Il che significa che ci sarà assai poco spazio per gli orlandiani che dovranno accontentarsi di qualche riconferma. Anche questo potrebbe consigliare una uscita in gruppo dal partito.

Ma, che ci sia una nuova scissione o tutto si riduca ad abbandoni individuali (prevedibilmente non pochi) va da sé che la tendenza, almeno per ora, è quella ad un ulteriore indebolimento del Pd ed uno stillicidio prolungato potrebbe rivelarsi più dannoso di un taglio secco.

Ma i guai più grossi per Renzi verranno, con ogni probabilità, dal correntone che lo ha retto. Abbiamo detto che oggi il suo rapporto di forze con i boiardi è molto inferiore a quello degli inizi ed in queste condizioni diventa difficile fare le liste da solo: bisogna pur sempre passare per la direzione dove i vari Fassino, Franceschini, Zanda, De Luca, Orfini eccetera, hanno un forte peso e ciascuno ha il suo codazzo di seguaci da garantire. Per di più Renzi ha bisogno di loro per vincere la battaglia con i “ministeriali” (Gentiloni, Padoan, eccetera) che non ne vogliono sapere di elezioni in autunno. Non sarà facile reggere questo delicato equilibrio e rilanciare il partito in un momento complicato come questo.

Quando un partito incassa una sconfitta storica come quella del 4 dicembre e non è in grado di trovare un nuovo gruppo dirigente o anche solo un nuovo leader, vuol dire che è un partito avviato ad un inesorabile declino, che non è detto duri poco o non possa avere sussulti, ma che resta sul viale del tramonto.

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