Sembra davvero che Margaret Thatcher non ci voglia lasciare più...
Nelle elezioni generali del Regno Unito del dicembre 2019 il partito dei Tories di Boris Johnson ha trionfato inesorabilmente.
Nelle ultime elezioni regionali dell’Emilia Romagna il candidato del “movimento 3V vaccini vogliamo la verità” ha preso lo 0,52 % dei voti superando i tre candidati dell’estrema sinistra presenti nelle liste elettorali.
Al di là delle valutazioni serie e delle ironie condivise nel web sulla prestazione dell’estrema sinistra in Emilia (Salvatore Prinzi di Potere al Popolo ha scritto un post interessante e simpatico sull’argomento) sorgono spontanee alcune riflessioni intorno al futuro dei partiti e dei movimenti a venire.
Prima domanda d’obbligo: al momento le elezioni servono ancora? L’ottica elettorale, lo sforzo e le energie profuse per partecipare portano davvero qualcosa?
Nel libro uscito da poco “Il nostro desiderio è senza nome- Scritti politici”, raccolta di post e articoli del blog k-punk di Mark Fisher, vi è un capitolo dedicato alle elezioni intitolato “Non votate, non incoraggiateli”. Mark scrive che c’è stata un’epoca in cui le elezioni sembravano significare qualcosa. Si ricorda il senso di spaesamento provato il giorno della sconfitta della sinistra radicale di Michael Foot di fronte alle forze d’assalto del Kapitale capitanate dalla Thatcher. Ma poi si domanda: possiamo votare ancora Tony Blair e tutti i nuovi politici se essi sono dei mentitori professionisti, possiamo ancora continuare a votare il meno peggio?
Seconda domanda: mettiamo insieme i migliori leader o soggetti di quello che rimane della sinistra, uniamo i movimenti per l’ambiente, per la casa, i movimenti femministi e le associazioni che operano direttamente nei quartieri in maniera partecipata e concreta, filtriamo al meglio università e sanità per sviluppare progetti sociali e politici a breve termine. Bene perché sarebbe un bene: ma quale sarebbe il risultato elettorale nel 2020? Scarso nella migliore delle ipotesi.
Bisogna comprendere che la società industriale del trentennio d’oro ha finito il suo corso da tempo e il lavoro fisso, l’azienda dove si entra e si va in pensione, il partito dove si discute di politica o il sindacato che ti protegge durante le crisi temporanee (salvo qualche eccezione) si sono estinti. Siamo oltre la società del rischio, siamo oltre il no future del punk, siamo ai margini di una grande trasformazione della vita, dello spazio e del tempo.
Siamo anche Società dello spettacolo oltre le peggiori previsioni di Debord, dove tutto deve divenire show, fake news, politica da guardare, sognare, odiare. I leader politici sono attori interscambiabili lanciati da campagne pubblicitarie e da algoritmi programmati: da Renzi a Salvini, o sardine varie, ci troviamo a parlare di quello che viene illuminato e mostrato ininterrottamente da tv, giornali e social. Siamo anche, e da molto tempo ormai, società del consumo dove tutto è merce, prodotto, scarto, rifiuto, tutto da vendere, donne, uomini, corpi, sport, sogni e futuro.
Siamo mercato finanziario senza soste (non complotto delle 13 famiglie che comandano da tempo il mondo) dove ormai società azionarie, mercati emergenti, fondi, Etf e obbligazioni hanno una capacità enorme di spostare le regole e i tempi dell’economia o di finanziare una campagna pubblicitaria di un politico che nessun potere statale ha la forza di fermare, nonostante la propaganda sovranista della destra (e di certa sinistra).
Detto questo (e in una società complessa come la nostra temi e piani sono davvero molteplici) non possiamo dimenticare il ruolo della tecnologia digitale che attualmente condiziona e crea segni, sogni e senso. In tutto questo processo di globalizzazione e di tecnologie invasive siamo oltre il no logo di Naomi Klein dove il brand era una tendenza, un modo di vivere, un identificarsi in un gruppo magari dentro un paio di scarpe, seduti in un McDonalds o bevendo Coca Cola anche se fatto in maniera planetaria e includente (No Nike no party). Siamo anche oltre il luogo non luogo di M. Augè dove supermercati, autostrade, aeroporti diventano spazi senza relazioni e senza emozioni. Adesso come non mai Internet, i suoi social e le sue applicazioni rappresentano luoghi virtuali, fisici, emotivi e relazionali. Forse, purtroppo, Google, Amazon, Facebook e Instagram non condizionano solo il terreno culturale e sociale dove produrre immaginari e orizzonti, ma sono i nostri sogni, il nostro spazio e il nostro tempo.
Senza considerare la tecnologia dei robot, droni e stampanti 3D che ci daranno la mazzata finale di fronte alla quale l’uomo non sarà più “antiquato” (G. Anders) ma si sarà definitivamente trasformato.
Che cosa rimane allora?
Rimane che siamo passati dal serio e politico “Che fare” di Lenin” a D.Wallace Forster che, nelle sue considerazioni infinite, di fronte allo strapotere di consumismo, tv, video giochi e video music della società americana, disse “beh e allora che facciamo?”
Rimangono sempre da ripensare la povertà e la sofferenza di intere popolazioni di ogni parte del mondo e rimane da progettare il futuro della Terra e delle nuove generazioni a venire. Rimangono da ricercare nuovi luoghi, tempi e linguaggi d’azione e di resistenza.
Rimane da resistere perché “Ogni atto di resistenza non è un’opera d’arte, anche se in qualche modo lo è. Ogni opera d’arte non è un atto di resistenza e tuttavia, in qualche modo, lo è (…) l’atto di resistenza, mi sembra, ha queste due facce: solo lui resiste alla morte , sia sotto forma di opera d’arte, sia sotto forma di lotta degli uomini.” (Deleuze).
Nonostante Margaret.
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