Siamo nel bel mezzo di un rinnovato
dibattito sulle pensioni. Complice l’imminente fine della
“sperimentazione” di quota 100 (che, ricordiamo, era prevista per il
triennio 2019-2021) e del manifestarsi del cosiddetto “scalone”,
si torna a parlare di come riformare il sistema pensionistico. Nelle
settimane scorse, sulle pagine de “Il Foglio” si è sviluppato un
dibattito circa la previdenza complementare. La discussione trae origine da due recenti proposte: da un lato, quella avanzata
dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di istituire un fondo
pensione complementare gestito dall’Inps, volontario e a
capitalizzazione; dall’altro, quella rilanciata
da Massimo Mucchetti, giornalista ed ex senatore del PD, di istituire
un fondo pensione complementare pubblico, sempre a contribuzione
volontaria e gestito dall’Inps, ma a ripartizione.
Come si vedrà, nessuna di queste proposte
è rivoluzionaria. I problemi del sistema pensionistico italiano, che
difficilmente possono essere risolti con forme di previdenza
complementare, sono ben più profondi e ben diversi da
quelli normalmente indicati dai “tecnici”, che suggeriscono riforme
sempre più draconiane. Senza politiche finalizzate alla piena
occupazione e ad un aumento significativo dei salari sul mercato del
lavoro, il problema del nostro sistema pensionistico è destinato ad
acuirsi di fronte al progressivo invecchiamento demografico. Il
dibattito menzionato, tuttavia, è interessante perché ci permette di
evidenziare gli interessi che si muovono intorno alla ghiotta torta del
risparmio dei lavoratori. Ma andiamo, come al solito, con ordine.
La previdenza complementare (o
“previdenza di secondo pilastro”) è stata introdotta in Italia con il
decreto legislativo 124 del 1993. Lo scopo di questa forma di risparmio
previdenziale è quello di integrare la previdenza
obbligatoria (o “previdenza di primo pilastro”), finanziata attraverso i
contributi che il lavoratore e il datore di lavoro sono tenuti, per
legge, a versare. In altri termini, i lavoratori possono decidere su base volontaria
di versare una parte dei propri risparmi – nonché il proprio TFR
(trattamento di fine rapporto, ossia la liquidazione) – in determinati
fondi, con lo scopo di ottenere una prestazione pensionistica aggiuntiva
rispetto a quella obbligatoria al momento del pensionamento. Si tratta,
in sostanza, di una forma di detenzione del risparmio alternativa a
quella che può essere rappresentata dall’acquisto di titoli di Stato,
azioni, obbligazioni (e così via...), tramite intermediari finanziari o in
autonomia.
A differenza, però, di queste forme di
detenzione del risparmio, per la previdenza complementare sono previste
alcune disposizioni specifiche: agevolazioni fiscali volte a
incentivarne l’utilizzo; un’apposita autorità di controllo, la COVIP
(Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione); forme di silenzio-assenso
per quanto riguarda il conferimento del TFR in fondi pensione. In
particolare, se il lavoratore non decide cosa fare del suo TFR, in
alcuni casi esso è automaticamente trasferito nel fondo pensione
previsto dai contratti collettivi applicabili o dalla legge.
Esistono quattro diversi tipi di fondi
pensione: i fondi pensione negoziali (istituiti dalle parti sociali,
sindacati e datori di lavoro, nell’ambito della contrattazione
collettiva), i fondi pensione aperti (gestiti da banche, assicurazioni e
altri operatori finanziari), i piani individuali pensionistici e i
fondi pensione preesistenti al 15 novembre 1992. La materia è regolata
dal decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 e prevede un sistema di
contribuzione volontaria e a capitalizzazione, mentre la previdenza di
primo pilastro è obbligatoria e a ripartizione. Ricordiamo in breve il
significato di questi termini, che ci dicono con quale tipo di
finanziamento è alimentata una determinata forma pensionistica. Un
sistema a ripartizione è caratterizzato dal fatto che i contributi dei lavoratori di oggi vanno a finanziare le pensioni dei lavoratori di ieri (i pensionati di oggi). In un sistema a capitalizzazione, invece, ciascun lavoratore, ci si consenta l’estrema semplificazione, contribuisce alla propria pensione,
andando ad accantonare i contributi in un fondo, sul quale si
accumuleranno interessi e dividendi a seconda del rendimento della forma
di investimento prevista dal fondo pensione al quale si aderisce. Il
sistema a ripartizione, quindi, è basato su un esplicito patto di solidarietà intergenerazionale; il sistema a capitalizzazione invece su un atto di risparmio e accumulazione individuale di risorse.
Eccoci, adesso, alle proposte su cui si è
scatenato il dibattito. Sia la proposta di Tridico sia quella di
Mucchetti partono dalla constatazione che il sistema di previdenza
complementare introdotto nel 1993 non ha dato i risultati sperati. Se
l’obiettivo era quello, duplice, di favorire la partecipazione dei
lavoratori a forme di risparmio pensionistico e incrementare la
disponibilità di risparmi che andassero a finanziare il debito pubblico
italiano e le imprese che effettuano investimenti in Italia, esso è ampiamente fallito.
I dati snocciolati dalla COVIP nella sua relazione annuale per l’anno 2018 parlano chiaro. Il numero di adesioni risulta molto limitato:
a fine 2018 gli iscritti a forme di previdenza complementare sono circa
7,6 milioni di soggetti, meno di un terzo della forza lavoro; ad
aggravare il quadro, i lavoratori effettivamente versanti sono stati
meno di 6 milioni (meno del 23 per cento della forza lavoro). Alcune
categorie di lavoratori fanno particolarmente fatica ad alimentare la
propria posizione pensionistica integrativa. Giovani, lavoratori
meridionali, autonomi e donne sembrano particolarmente penalizzati, a causa di condizioni di lavoro peggiori e retribuzioni sensibilmente più basse.
E come stupirsi? Con stipendi da fame e grande discontinuità di
retribuzione, figuriamoci se possono mettere da parte qualcosa per la
pensione. Deludente è anche il contributo delle forme pensionistiche
complementari agli investimenti produttivi e al finanziamento della
spesa pubblica in Italia. Nel 2018 solo il 27,7% della massa patrimoniale
dei fondi pensione è stato infatti rivolto a investimenti nazionali,
mentre i titoli di Stato italiani fanno registrare investimenti pari a
poco più di un quinto del totale del patrimonio dei fondi.
Mucchetti propone, “per irrobustire le
entrate dello Stato ... senza imporre nulla ai contribuenti” e per
favorire gli investimenti in Italia, la creazione di un fondo di
previdenza complementare pubblico a ripartizione. Tridico, invece, pensa
a un fondo a capitalizzazione. Al di là delle differenze tra i due
fondi, è particolarmente interessante soffermarsi sulle obiezioni che
tali proposte hanno sollevato.
Contro la proposta di Mucchetti si è scagliato
Giuliano Cazzola, strenuo difensore della riforma Fornero, ex deputato,
con un passato nel PSI, nel Popolo della Libertà, nel Nuovo Centro
Destra e in Scelta Civica (il partito di Mario Monti). Oggi aderisce a
+Europa. Basterebbe questo nutrito curriculum a qualificare
qualsiasi suo intervento sulle pensioni come “la voce dell’austerità”,
eco delle lacrime di coccodrillo della Fornero, ma prendiamoci la briga
di leggere alcuni passaggi del suo intervento. Scrive Cazzola che la
proposta Mucchetti è figlia di una cultura statalista e risulterebbe in
una “catena di Sant’Antonio”. Nel sistema a ripartizione proposto da
Mucchetti, argomenta Cazzola, i contributi non finirebbero “in una
posizione individuale, fatta di risorse reali e gestita a
capitalizzazione”, ma andrebbero a pagare i trattamenti in essere,
“mentre la pensione più elevata, domani, sarebbe finanziata dai
contributi versati, appunto, dai lavoratori di domani”. In altri
termini, la proposta di Mucchetti finirebbe per chiedere ai giovani di
sopportare un onere insostenibile: “il patto che lo Stato impone tra le
generazioni diventerebbe ancora più leonino per quelle future”.
Alla proposta Tridico, invece, ha risposto
Elsa Fornero in persona, che ha definito il fondo complementare
dell’Inps “un altro passo sulla via del declino”. La Fornero scrive che,
laddove il fondo “non debba offrire particolari agevolazioni fiscali o
garanzie di rendimento – che ricadrebbero ... sulla fiscalità generale,
ponendo un problema di disparità di trattamento rispetto ai lavoratori
iscritti agli altri fondi ... – il loro vantaggio potrebbe derivare dai
più bassi costi di amministrazione, e perciò da un maggiore rendimento
netto”. Ma sarebbe utile tutto ciò? Poco, scrive la Fornero. Meglio
sarebbe una “campagna di formazione/informazione” per spiegare agli
italiani come gestire i propri risparmi, accompagnata da interventi sui
costi per rendere più appetibili i fondi pensione. Ma la proposta
Tridico, secondo Elsa Fornero, fa peggio. La finanza pubblica, scrive, è
sempre affamata di risorse “per l’incapacità di ridurre la spesa”.
L’idea di utilizzare il canale della previdenza complementare per
aumentare le risorse dello Stato per investimenti è pericolosa, in
quanto non c’è nessuna garanzia che il pubblico sia più efficiente del
privato nell’indirizzare le risorse. Inoltre, scrive sempre la Fornero,
ai rischi sul lavoro si aggiungerebbero i rischi sul risparmio, a causa
di investimenti che, essendo gestiti dal pubblico, finirebbero per
essere destinati a finanziare progetti di dubbia utilità, alla mercé di
interessi localistici.
Lasciando perdere le dichiarazioni di
principio sulla “cultura statalista” e sull’inefficienza del pubblico,
concentriamoci su alcuni passaggi di queste obiezioni. La Fornero, dopo i danni procurati ai lavoratori quando era al Governo con Monti,
continua a cercare di evangelizzare il dibattito con i suoi richiami
alla responsabilità fiscale. Se la finanza pubblica è sempre affamata di
risorse non è “per l’incapacità di ridurre la spesa”, come dice la
Fornero. Tale incapacità non c’è affatto, come abbiamo visto negli ultimi anni.
La finanza pubblica richiede risorse perché proprio queste riduzioni di
spesa hanno fatto avvitare su se stessa l’economia italiana, riducendo i
tassi di crescita e, dunque, la base imponibile, facendo aumentare ulteriormente il rapporto debito/PIL.
E se, come scrive Mucchetti, è vero che pensioni più alte domani
dovranno essere pagate da contributi più alti dei lavoratori (di oggi e
di domani) è perché le regole di bilancio europee, di cui lui è un
accanito difensore, impongono il perseguimento del pareggio di bilancio e
il cosiddetto “pareggio attuariale” dei conti dell’Inps e delle altre
casse di previdenza. Il pareggio attuariale (ovvero la situazione in
cui, in prospettiva, entrate e uscite del sistema pensionistico si
bilanciano) è stato perseguito attraverso riforme volte ad aumentare
l’età pensionabile, agganciare quest’ultima all’aspettativa di vita,
estendere il sistema contributivo a discapito di quello retributivo. È
proprio a causa di queste riforme e del feticcio dei bilanci in
equilibrio che si crea un artificioso scontro generazionale tra pensionati e lavoratori.
Ed è sempre a causa di queste riforme e ai vincoli di bilancio, che
hanno ridotto drammaticamente gli importi delle future pensioni, che si è
sostanzialmente costretti a inventarsi stratagemmi di ogni tipo per
cercare di incrementare le pensioni senza influire sui contributi dei
lavoratori e sulle finanze pubbliche.
Come se non bastasse, il sottotesto
evidente di questo dibattito riguarda lo spazio a disposizione del
mercato: le proposte di creazione di un fondo pubblico andrebbero a
ridurre ulteriormente il numero di soggetti che versano parte del
proprio stipendio ai diversi fondi complementari (negoziali, aperti,
individuali), intaccando così gli utili dei soggetti privati coinvolti.
In altre parole, le proposte discusse mettono in discussione – seppur
timidamente – la priorità attribuita alla logica del profitto di fronte
all’interesse generale.
Nulla di nuovo, insomma, sul fronte occidentale. Come da tradizione, i guardiani dell’austerità mettono i lavoratori gli uni contro gli altri, dipingendo le sacrosante rivendicazioni di una vita più dignitosa, di lavoro non precario e pensioni adeguate, come il perseguimento di interessi particolari a danno del benessere generale.
È vero l’opposto: quelli che difendono interessi particolari sono loro.
Approfittiamo, dunque, di questo dibattito sul sistema pensionistico
per ribadire quanto detto altre volte: l’austerità e le riforme
neoliberiste del mercato del lavoro e del sistema pensionistico hanno un
solo obiettivo, quello di arricchire i padroni e gli speculatori
finanziari, dividendo i lavoratori. Davanti a questi continui attacchi,
abbiamo il dovere di restare uniti e respingere con sempre maggiore
forza le mire del capitale – quello, sì, mai sazio di profitti – e dei
suoi interessati apostoli.
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