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12/07/2022

Lo scandalo Uber. Come opera il capitale multinazionale, nei leaks resi noti

Il Guardian ha pubblicato per primo un’inchiesta basata su 124.000 file interni all’azienda. Ne viene fuori un manuale del killer, tra corruzione dei governi (alcuni “collaborano” spontaneamente...), manipolazione delle leggi e disegno di un nuovo quadro legislativo sulle proprie esigenze, incitazione alla violenza tramite media “disponibili”, ecc.

Tutto per distruggere a livello planetario l’antico settore dei taxi (con sistemi regolativi diversi da paese a paese, con soluzioni da “piccola borghesia” in alcuni o da “lavoro dipendente regolare” in altri) ed imporre il proprio monopolio fondato su autisti “volontari”, con macchina propria, pagati una mancia, senza alcun contratto né benefit, usa-e-getta, insomma.

E non c’è motivo di ritenere che le altre grandi multinazionali, di qualsiasi settore (e soprattutto quello finanziario) si muovano in maniera differente...

Non mancano i grandi nomi, tra gli “amici” di Uber – Biden, Macron e Netanyahu sono ancora in pista, l’ex premier inglese Osborne è intanto finito fuori – a dimostrazione di come l’attuale “classe politica mondiale”, ma soprattutto quella occidentale e neoliberista, sia oggi niente più che una “struttura di servizio” a disposizione del business. Dove, è ovvio, chi è più grosso, più ricco e più forte ottiene più degli altri, capitalistucci della porta accanto...

L’articolo è stato tradotto e qua e là accompagnato da nostre osservazioni, quando ci sembrato aiutassero a sintetizzare il ragionamento.

Buona lettura.

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Un’enorme quantità di file riservati ha rivelato la storia di come il gigante tecnologico Uber abbia violato le leggi, ingannato la polizia, sfruttato la violenza contro gli autisti e fatto pressioni segrete sui governi durante la sua aggressiva espansione globale.

La fuga di notizie senza precedenti al Guardian di oltre 124.000 documenti – noti come Uber files – mette a nudo le pratiche eticamente discutibili che hanno alimentato la trasformazione dell’azienda in una delle più famose esportazioni della Silicon Valley.

La fuga di notizie copre un periodo di cinque anni in cui Uber era gestita dal suo cofondatore Travis Kalanick, che ha cercato di imporre il servizio di taxi-hailing nelle città di tutto il mondo, anche se ciò significava violare le leggi e i regolamenti sui taxi.

Durante la feroce reazione globale, i dati mostrano come Uber abbia tentato di rafforzare il proprio sostegno corteggiando discretamente primi ministri, presidenti, miliardari e oligarchi dei media.

I messaggi trapelati suggeriscono che i dirigenti di Uber non si facevano illusioni sulla violazione della legge da parte dell’azienda, con un dirigente che scherzava sul fatto che erano diventati “pirati” e un altro che ammetteva: “Siamo solo fottutamente illegali”.

La raccolta di file, che va dal 2013 al 2017, comprende più di 83.000 e-mail, messaggi iMessage e WhatsApp, tra cui comunicazioni spesso “franche” e senza peli sulla lingua tra Kalanick e il suo team di dirigenti.

In uno scambio, Kalanick ha respinto le preoccupazioni di altri dirigenti sul fatto che l’invio di autisti Uber a una protesta in Francia li avrebbe esposti al rischio di violenza da parte di oppositori arrabbiati del settore dei taxi. “Penso che ne valga la pena”, ha risposto. “La violenza garantisce il successo”.

In una dichiarazione, il portavoce di Kalanick ha affermato che “non ha mai suggerito che Uber debba trarre vantaggio dalla violenza a scapito della sicurezza dei conducenti” e che qualsiasi ipotesi di coinvolgimento in tale attività sarebbe completamente falsa.

La fuga di notizie contiene però anche testi tra Kalanick ed Emmanuel Macron, che ha segretamente aiutato l’azienda in Francia quando era ministro dell’Economia, consentendo a Uber un accesso frequente e diretto a lui e al suo staff.

Macron, il presidente francese, sembra aver fatto di tutto per aiutare Uber, dicendo persino all’azienda di aver mediato un “accordo” segreto con i suoi oppositori nel gabinetto francese.

In privato, i dirigenti di Uber hanno espresso un disprezzo appena dissimulato per altri funzionari eletti che si sono dimostrati meno ricettivi nei confronti del modello commerciale dell’azienda.

Dopo che il cancelliere tedesco Olaf Scholz, all’epoca sindaco di Amburgo, si era opposto ai lobbisti di Uber e aveva insistito sul pagamento di un salario minimo agli autisti, un dirigente ha scritto ai colleghi che era “un vero comico”.

Quando l’allora vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, all’epoca sostenitore di Uber, arrivò in ritardo a un incontro con l’azienda al World Economic Forum di Davos, Kalanick inviò un messaggio a un collega: “Ho chiesto ai miei collaboratori di fargli sapere che ogni minuto di ritardo è un minuto in meno che avrà con me”.

Dopo aver incontrato Kalanick, sembra che Biden abbia modificato il suo discorso preparato a Davos per riferirsi a un amministratore delegato la cui azienda avrebbe dato a milioni di lavoratori “la libertà di lavorare tutte le ore che desiderano, gestendo la propria vita come desiderano”.

Il Guardian ha condotto un’indagine globale sui file di Uber trapelati, condividendo i dati con le organizzazioni dei media di tutto il mondo attraverso il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ). Più di 180 giornalisti di 40 media, tra cui Le Monde, Washington Post e BBC, pubblicheranno nei prossimi giorni una serie di rapporti investigativi sul gigante tecnologico.

In una dichiarazione di risposta alla fuga di notizie, Uber ha ammesso “errori e passi falsi”, ma ha affermato di “essere cambiata” dal 2017, sotto la guida del suo attuale amministratore delegato, Dara Khosrowshahi.

“Non abbiamo trovato e non troveremo scuse per comportamenti passati che non sono chiaramente in linea con i nostri valori attuali”, ha dichiarato. “Chiediamo invece al pubblico di giudicarci in base a ciò che abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e a ciò che faremo negli anni a venire”.

Il portavoce di Kalanick ha dichiarato che le iniziative di espansione di Uber sono state “guidate da oltre un centinaio di leader in decine di Paesi in tutto il mondo e sempre sotto la diretta supervisione e con la piena approvazione dei solidi gruppi legali, politici e di conformità di Uber”.

Abbracciare il caos

I documenti trapelati svelano i metodi utilizzati da Uber per gettare le basi del suo impero. Una delle più grandi piattaforme di lavoro al mondo, Uber è oggi un’azienda da 43 miliardi di dollari (36 miliardi di sterline) che effettua circa 19 milioni di corse al giorno.

I file resi noti coprono le operazioni di Uber in 40 Paesi durante il periodo in cui l’azienda è diventata un colosso globale, introducendo il suo servizio di taxi-hailing in molte delle città in cui opera ancora oggi.

Da Mosca a Johannesburg, grazie a finanziamenti di venture capital senza precedenti, Uber ha sovvenzionato pesantemente le corse, seducendo conducenti e passeggeri con incentivi e modelli di prezzo che non sarebbero stati sostenibili, ma che distruggevano il preesistente servizio di taxi, creando così un “mercato” su misura per il gigante.

Uber ha scalzato i mercati consolidati di taxi e ha esercitato pressioni sui governi affinché riscrivessero le leggi per contribuire a spianare la strada a un modello di lavoro basato sulle app e sulla gig economy che da allora è proliferato in tutto il mondo.

Nel tentativo di placare la feroce reazione contro l’azienda e di ottenere modifiche alle leggi sui taxi e sul lavoro, Uber ha pianificato una spesa straordinaria di 90 milioni di dollari nel 2016 in attività di lobbying e relazioni pubbliche, come risulta da un documento.

La sua strategia prevedeva spesso di passare sopra le teste dei sindaci delle città e delle autorità dei trasporti e di arrivare direttamente alla sede del potere centrale, “comprando” i ministri.

Oltre a incontrare Biden a Davos, i dirigenti di Uber hanno incontrato faccia a faccia Macron, il primo ministro irlandese Enda Kenny, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e George Osborne, all’epoca cancelliere del Regno Unito. Una nota dell’incontro descrive Osborne come un “forte sostenitore”.

In una dichiarazione, Osborne ha affermato che all’epoca la politica del governo era quella di incontrare le aziende tecnologiche globali per “convincerle a investire in Gran Bretagna e a creare posti di lavoro qui”. Com’è evidente, dopo che è accaduto, il “modello Uber” distrugge posti di lavoro stabili con retribuzioni decenti e li sostituisce con l’assoluta precarietà e “compensi” da fame.

Mentre la riunione di Davos con Osborne è stata dichiarata pubblicamente, i file rivelano che almeno sei ministri del governo britannico hanno avuto incontri con Uber che non sono stati resi noti. Non è chiaro se gli incontri avrebbero dovuto essere dichiarati, il che rivela una certa confusione sulle modalità di applicazione delle norme britanniche in materia di lobbying (c’è anche un’attività legale, per quanto egualmente truffaldina).

Di fronte all’opposizione di associazioni e forze politiche, Uber ha cercato di volgerla a proprio vantaggio, sfruttandola per alimentare l’idea che la sua tecnologia stesse sconvolgendo sistemi di trasporto antiquati e sollecitando i governi a riformare le loro leggi. È la favole bastarda del capitale che agisce “per il nostro bene”.

Al momento del lancio di Uber in India, il massimo dirigente di Kalanick in Asia ha esortato i manager a concentrarsi sulla crescita, anche quando “il fuoco inizia a bruciare”. “Sappiate che questa è una parte normale dell’attività di Uber”, ha detto. “Accogliete il caos. Significa che state facendo qualcosa di significativo”. La devastazione sociale, e persino un alto grado di conflitto, sono qui ampiamente messi nel conto.

Kalanick è sembrato mettere in pratica quest’etica nel gennaio 2016, quando i tentativi di Uber di sconvolgere i mercati europei hanno portato a proteste furiose in Belgio, Spagna, Italia e Francia da parte dei tassisti che temevano per la loro sopravvivenza.

In mezzo agli scioperi dei taxi e ai disordini di Parigi, Kalanick ha ordinato ai dirigenti francesi di reagire incoraggiando gli autisti di Uber a organizzare una contro-protesta con una disobbedienza civile di massa. È lo schema usato dalla Fiat nel 1980, con la “marcia dei quarantamila” (secondo i giornali padronali, in realtà erano molti di meno).

Avvertito che così facendo avrebbe rischiato di mettere gli autisti di Uber a rischio di attacchi da parte di “teppisti di estrema destra” che si erano infiltrati nelle proteste dei taxi e stavano “cercando la rissa”, Kalanick ha esortato il suo team ad andare avanti comunque. “Penso che ne valga la pena”, ha detto. “La violenza garantisce il successo. E a questi ragazzi bisogna resistere, no? È chiaro che bisogna pensare al luogo e al momento giusto”.

La decisione di inviare gli autisti di Uber in proteste potenzialmente incontrollabili, nonostante i rischi, era coerente con quella che un ex dirigente di alto livello ha dichiarato al Guardian essere una strategia: “armare” gli autisti e sfruttare la violenza contro di loro per “mantenere accesa la polemica”. Come si vede, in questo schema il capitale non “trama nell’ombra”, come amano pensare i complottisti di tutto il mondo, ma agisce muovendo esso stesso i riflettori; solo puntandoli dove gli fa più comodo.

Si trattava di un manuale operativo che, secondo le e-mail trapelate, è stato ripetuto in Italia, Belgio, Spagna, Svizzera e Paesi Bassi.

Quando, nel marzo 2015, uomini mascherati, che si dice fossero tassisti arrabbiati, si sono scagliati contro gli autisti di Uber con tirapugni e martelli ad Amsterdam, i dipendenti di Uber hanno cercato di sfruttare la situazione a loro vantaggio per ottenere concessioni dal governo olandese.

Le vittime degli autisti sono state incoraggiate a sporgere denuncia alla polizia, che è stata condivisa con De Telegraaf, il principale quotidiano olandese.

Uno dei dirigenti della società ha scritto: “Domani saranno pubblicati senza la nostra impronta in prima pagina”. “Manteniamo la narrazione della violenza per alcuni giorni, prima di offrire la soluzione”.

Il portavoce di Kalanick ha messo in dubbio l’autenticità di alcuni documenti. Ha dichiarato che Kalanick “non ha mai suggerito che Uber debba trarre vantaggio dalla violenza a scapito della sicurezza dei conducenti” e che qualsiasi ipotesi di coinvolgimento in tali attività sarebbe “completamente falsa”. Ovviamente, nessuno poteva aspettarsi una confessione, visto il numero di reati penali perseguibili in decine di paesi dell’intero pianeta...

Il portavoce di Uber ha anche riconosciuto gli errori commessi in passato nel trattamento degli autisti da parte dell’azienda, ma ha affermato che nessuno, incluso Kalanick, desiderava la violenza contro gli autisti di Uber. “Ci sono molte cose che il nostro ex CEO ha detto quasi un decennio fa e che oggi non avremmo certamente tollerato”, ha dichiarato. “Ma una cosa che sappiamo e di cui siamo convinti è che nessuno in Uber è mai stato contento della violenza contro un autista”.

Il “kill switch”

Gli autisti di Uber sono stati a volte oggetto di feroci aggressioni e talvolta di omicidi da parte di tassisti furiosi. In alcuni Paesi, l’app di taxi-hailing si è trovata a combattere contro flotte di taxi radicate e monopolistiche, che intrattengono rapporti privilegiati con le autorità cittadine (il “corporativismo piccolo-borghese”, diremmo noi).

Uber ha spesso definito i suoi avversari nei mercati regolamentati dei taxi come un “cartello” (descrivendo se stessa come un “filantropo che porta posti di lavoro”).

Tuttavia, in privato, i dirigenti e i dipendenti di Uber sembrano avere pochi dubbi sulla natura disonesta e illegale delle proprie operazioni.

Nelle e-mail interne, il personale ha fatto spesso riferimento allo “status non legale” di Uber, o ad altre forme di non conformità attiva alle normative, in Paesi come Turchia, Sudafrica, Spagna, Repubblica Ceca, Svezia, Francia, Germania e Russia.

Un dirigente ha scritto in un’e-mail: “Non siamo legali in molti Paesi, dovremmo evitare di fare dichiarazioni antagoniste”. Commentando le tattiche che l’azienda era pronta a mettere in atto per “evitare l’applicazione della legge”, un altro dirigente ha scritto: “Siamo ufficialmente diventati dei pirati” (del resto buona parte della borghesia europea, nei diversi Stati, è nata proprio con la “patente da corsaro” attribuita dai sovrani perché distruggessero il traffico navale dei “concorrenti”).

Nairi Hourdajian, responsabile delle comunicazioni globali di Uber, l’ha detto ancora più schiettamente in un messaggio a un collega nel 2014, tra i tentativi di far chiudere l’azienda in Thailandia e in India: “A volte abbiamo problemi perché, beh, siamo semplicemente illegali, cazzo”. Contattato dal Guardian, Hourdajian ha rifiutato di commentare.

Il portavoce di Kalanick ha accusato i giornalisti di “insistere sulla loro falsa agenda” secondo cui avrebbe “mantenuto una condotta illegale o impropria”.

Il portavoce di Uber ha affermato che, quando ha iniziato la propria attività, “le norme sul ridesharing non esistevano in nessuna parte del mondo” e le leggi sui trasporti erano ormai obsolete per l’era degli smartphone.

In tutto il mondo, la polizia, i funzionari dei trasporti e le agenzie di regolamentazione hanno tentato di limitare Uber. In alcune città, i funzionari hanno scaricato l’app e hanno chiesto passaggi per poter reprimere i viaggi in taxi senza licenza, multando i conducenti di Uber e sequestrando le loro auto. Gli uffici di Uber in decine di Paesi sono stati ripetutamente perquisiti dalle autorità.

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