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07/07/2022

Politica senza popolo, l’ora della resa dei conti

Le fibrillazioni ricorrenti all’interno delle cosiddette formazioni politiche a sostegno del governo Draghi hanno inevitabilmente qualcosa di comico. Un dato che non deriva soltanto dalla scarsa autorevolezza dei presunti “leader” – mai così bassa da almeno 30 anni – ma soprattutto dall’evidente inutilità del loro arrabattarsi per ritagliarsi un ruolo da “protagonisti”.

È atteso per oggi, ad esempio, l’incontro fra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e Giuseppe Conte. Il leader del M5S chiederà al consiglio nazionale un mandato pieno a discutere con l’ex presidente della Banca centrale europea. Ma per pretendere cosa?

Ci si arriva sulla base delle “rivelazioni” fornite dal sociologo Domenico De Masi a proposito di una “pressione” esercitata proprio da Draghi su Beppe Grillo per rimuovere l’avvocato di San Giovanni Rotondo da “capo politico” dei Cinque Stelle.

All’interno del Movimento – di ciò che ne resta, anche a livello parlamentare – starebbero crescendo le insofferenze per una situazione asfissiante, per i “grillini”, costretti a dare l’assenso a decisioni che Draghi prende di concerto con la Commissione Europea (il PNRR è la versione specificamente italiana del Recovery Fund, e ogni rata del programma di prestiti è condizionata a “riforme” indicate dalla UE).

Tutte o quasi in aperto contrasto con le promesse “identitarie” del Movimento (dal reddito di cittadinanza al bonus 110%, ecc.). Una condizione che fa prevedere agevolmente la scomparsa o quasi dei Cinque Stelle dal prossimo Parlamento.

Per uscire da questa strettoia l’unica soluzione logica sarebbe l’uscita immediata dal governo Draghi, per provare a recuperare un minimo di credibilità come forza di opposizione. Ma su questa ipotesi è già calata la mannaia del PD, che con Franceschini e lo stesso Letta hanno già annunciato che, in caso di uscita dal governo, non ci sarà più alcuna alleanza elettorale tra le due formazioni. Con ovvie conseguenze sul numero di eletti...

Lo stesso problema c’è anche nella Lega, dove un “capo assoluto” ormai in disarmo viene strapazzato dai suoi stessi ministri e “governatori” regionali, assai più sensibili alla funzione governante che non alla campagna elettorale continua.

Sembra la solita solfa, ma quel “Basta con i rivoluzionari da Scuola Radio Elettra” lanciato da Giorgetti è un missile definitivo contro la storica pretesa leghista di “rappresentare altro”, visto che il più noto diplomato alla suddetta scuola è stato Umberto Bossi.

Eppure tutto questo sbattersi e dilaniarsi non significa concretamente un tubo.

L’unica conseguenza reale è lo sfarinamento dei “partiti”, in primo luogo di quelli che avevano provato a raccogliere il malcontento popolare (a cavallo di piccola borghesia e qualche settore operaio) con due diverse versioni del “populismo”.

Non che le altre formazioni stiano meglio.

Siamo di fronte ad un apparente paradosso: si moltiplica “l’offerta politica”, sotto forma di partitini raccolti intorno a personaggi mediatizzati appositamente (ospiti fissi di talk show o iper-seguiti su Twitter), ma contemporaneamente evapora il seguito popolare (dunque anche elettorale) della “politica” nel suo insieme.

L’astensionismo, che coinvolge ormai oltre il 50% degli aventi diritto, è qualcosa di più di un malessere passeggero. E l’identica sorte – non per caso – tocca ai media di regime, mai così in basso come credibilità. Ma soprattutto come vendite (vedi il grafico).


Il noto “scollamento tra classe politica e paese reale” – un mantra ripetuto a pappagallo da tutti gli ospiti dei talk show, specie se giornalisti o direttori di giornale – è in realtà uno scollamento abissale tra classe dirigente e paese reale.

Del resto, se le istanze popolari vitali – salario, reddito, sanità, servizi di base, casa, pensioni, bollette, un diverso modo di vivere, ecc. – non sono più per principio rappresentabili dentro un qualsiasi governo nazionale, salta quella storica funzione svolta proprio da partiti e sindacati: “corpi intermedi” tra la società nel suo complesso e le decisioni politiche di governo.

La “centralità delle imprese” ha eliminato dal gioco gli altri interessi sociali. E la supervisione europea – a cominciare dalle politiche di bilancio – ha sostanzialmente eliminato la discrezionalità dei governi nazionali in materia economica (ed ora, con la guerra, anche militare).

Abbiamo dunque un pulviscolo di innumerevoli formazioni “leadristiche” che si candidano – inutilmente e in-credibilmente, visto che sono tutte ugualmente “di centro”, ossia pro-imprese e per lo status quo – a rappresentare qualcosa che non possono più rappresentare.

Saltata la mediazione politica tra interessi sociali diversi, sostituita da una governance presuntamente “tecnica”, salta anche il legame con il “paese reale”.

Restano un po’ di clientele (cui guardano con molta attenzione i “politici” locali) e un enorme lavoro di “distrazione di massa”, per cui vengono finanziati media che non hanno più un mercato.

Un po’ poco per gestire il malessere sociale innescato da un’inflazione ormai sopra l’8%, che si mangia uno stipendio l’anno.

È finito il tempo della politica come semplice “comunicazione”, quando giocare alle elezioni significava solo cercare gli slogan migliori. Torna – proprio come la guerra – il brutale conflitto tra forze sociali, molte delle quali prive di qualsiasi rappresentanza o con organizzazioni ancora inadeguate alla bisogna.

Contano i numeri che si possono muovere, non gli slogan o i “nomi”. Governare senza il popolo e contro il popolo non può mai durare a lungo. Ma chi si oppone non può più muoversi dentro gli schemi che ci ha consegnato il trentennio della sconfitta operaia. In autunno sarà bene muoversi con questa consapevolezza...

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