Come stanno gli Stati Uniti? Da schifo, grazie... E proprio per questo sembrano obbligati a cercare di affondare il resto del mondo – a cominciare dall’Europa – pur di mantenere una primazia (“egemonia” è termine eccessivo, ottimistico) che non sia solo Wall Street e Pentagono.
Per illustrare la situazione Usa senza il rischio di essere tacciati di “antiamericanismo ideologico” (un’accusa che serve sempre a buttare in ideologia l’analisi dei fatti, evitando di chinarsi sulle cose concrete) ci appoggiamo – come facciamo spesso – su un editoriale di TeleBorsa, scritto da Guido Salerno Aletta, ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi.
I dati sono inequivocabili e impietosi. Gli Stati Uniti sono “all’avanguardia” soltanto nell’esportazione di petrolio e gas. Come l’Arabia Saudita, insomma. Non proprio una posizione da paese leader...
Tutto il resto dell’economia è un disastro frutto della “delocalizzazione” operata a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, quando il grande capitale multinazionale (maggioritariamente yankee) ritenne possibile guidare la “globalizzazione” secondo una chiara divisione del lavoro: agli USA l’hi-tech e la finanza, al resto del mondo – Cina in testa – il lavoro fisico, “materiale”, abbrutente.
In termini marxiani, agli Usa il “plusvalore relativo” e agli altri quello assoluto. Tanto, con in mano lo sterzo della finanza globale, era sempre un gioco da ragazzi “succhiare” il plusvalore altrui tramite sapienti offensive sulle borse oppure manovrando sul valore del dollaro.
Era una sofisticazione del vecchio adagio “il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema”, in voga dal 1971, quando Richard Nixon segò il legame tra dollaro e oro rendendo la valuta Usa una moneta “fiduciaria”. Il cui valore stava insomma nell’essere stampata dagli Stati Uniti che avevano il Pentagono pronto ad interessarsi – non in modo benevolo – di chi dubitava del suo “valore”.
Ma era anche una semplificazione mostruosa del modello di sviluppo, che lentamente ha trasformato gli Usa in un semideserto industriale che vive importando più di quanto esporta.
E quindi insofferente, tra l’altro, di un’Europa a trazione tedesca, con un’impostazione mercantilista imposta a tutto il continente, che permetteva di espandere le esportazioni – grazie ai salari bloccati – verso gli Usa, risparmiando persino qualcosa sulla spesa militare (servi della Nato sì, ma micragnosi).
Ora il gioco sembra finito per ragioni oggettive, prima che politiche. Non c’è impero che possa sopravvivere all’infinito su una base industriale ristretta al punto di fare dell’export di energia l’unica voce attiva di una bilancia commerciale da terrore puro.
Le mosse della Fed, orientata ad aggravare una recessione già in atto pur di mantenere la forza del dollaro (e l’appetibilità dei titoli di stato Usa), sono nel solco della “solita” azione statunitense: scaricare sul resto del mondo i propri squilibri e i propri deficit. Le sanzioni alla Russia – che sfiorano appena l’economia Usa ed affossano quella europea – sono una variazione sul tema, fondata sul controllo del sistema Swift per i pagamenti internazionale (che, purtroppo per Washington, non è più l’unico).
Solo che tutti i vecchi giochi, ad un certo punto, diventano impraticabili. Cambia il terreno, le regole, i rapporti di forza... e, sei debole, gli altri lo vedono benissimo.
Per illustrare la situazione Usa senza il rischio di essere tacciati di “antiamericanismo ideologico” (un’accusa che serve sempre a buttare in ideologia l’analisi dei fatti, evitando di chinarsi sulle cose concrete) ci appoggiamo – come facciamo spesso – su un editoriale di TeleBorsa, scritto da Guido Salerno Aletta, ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi.
I dati sono inequivocabili e impietosi. Gli Stati Uniti sono “all’avanguardia” soltanto nell’esportazione di petrolio e gas. Come l’Arabia Saudita, insomma. Non proprio una posizione da paese leader...
Tutto il resto dell’economia è un disastro frutto della “delocalizzazione” operata a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, quando il grande capitale multinazionale (maggioritariamente yankee) ritenne possibile guidare la “globalizzazione” secondo una chiara divisione del lavoro: agli USA l’hi-tech e la finanza, al resto del mondo – Cina in testa – il lavoro fisico, “materiale”, abbrutente.
In termini marxiani, agli Usa il “plusvalore relativo” e agli altri quello assoluto. Tanto, con in mano lo sterzo della finanza globale, era sempre un gioco da ragazzi “succhiare” il plusvalore altrui tramite sapienti offensive sulle borse oppure manovrando sul valore del dollaro.
Era una sofisticazione del vecchio adagio “il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema”, in voga dal 1971, quando Richard Nixon segò il legame tra dollaro e oro rendendo la valuta Usa una moneta “fiduciaria”. Il cui valore stava insomma nell’essere stampata dagli Stati Uniti che avevano il Pentagono pronto ad interessarsi – non in modo benevolo – di chi dubitava del suo “valore”.
Ma era anche una semplificazione mostruosa del modello di sviluppo, che lentamente ha trasformato gli Usa in un semideserto industriale che vive importando più di quanto esporta.
E quindi insofferente, tra l’altro, di un’Europa a trazione tedesca, con un’impostazione mercantilista imposta a tutto il continente, che permetteva di espandere le esportazioni – grazie ai salari bloccati – verso gli Usa, risparmiando persino qualcosa sulla spesa militare (servi della Nato sì, ma micragnosi).
Ora il gioco sembra finito per ragioni oggettive, prima che politiche. Non c’è impero che possa sopravvivere all’infinito su una base industriale ristretta al punto di fare dell’export di energia l’unica voce attiva di una bilancia commerciale da terrore puro.
Le mosse della Fed, orientata ad aggravare una recessione già in atto pur di mantenere la forza del dollaro (e l’appetibilità dei titoli di stato Usa), sono nel solco della “solita” azione statunitense: scaricare sul resto del mondo i propri squilibri e i propri deficit. Le sanzioni alla Russia – che sfiorano appena l’economia Usa ed affossano quella europea – sono una variazione sul tema, fondata sul controllo del sistema Swift per i pagamenti internazionale (che, purtroppo per Washington, non è più l’unico).
Solo che tutti i vecchi giochi, ad un certo punto, diventano impraticabili. Cambia il terreno, le regole, i rapporti di forza... e, sei debole, gli altri lo vedono benissimo.
di Guido Salerno Aletta
La politica restrittiva della Fed, volta a stroncare l’inflazione aumentando i tassi di interesse, non solo ha indotto la recessione tecnica – visto che l’economia statunitense è già da due trimestri in contrazione – ma ha rafforzato il dollaro rendendo più convenienti le importazioni, peggiorando ulteriormente il deficit commerciale che l’Amministrazione Trump aveva cercato di sanare utilizzando la moral suasion nei confronti degli Alleati ed imponendo dazi doganali alla Cina.
Gli sforzi volti al reshoring della produzione industriale e a privilegiare la produzione interna rispetto a quella estera sono stati vanificati.
I dati mensili del commercio con l’estero sono pesantissimi: il deficit di giugno è passato dai 52 miliardi del 2020 agli 84 miliardi dell’anno in scorso.
I dati di metà anno non sono da meno: il passivo commerciale del periodo gennaio/giugno, che nel 2020 era stato di 285 miliardi di dollari e che era già arrivato a 401 miliardi nel 2021, quest’anno è stato di 535 miliardi peggiorando dunque dell’87%.
Non solo le importazioni americane crescono complessivamente ad un ritmo superiore alle esportazioni, ma quelle delle merci sono più dinamiche rispetto a quelle dei servizi: per l’economia statunitense è un massacro.
Il vero, unico, successo degli Usa nelle relazioni commerciali con l’estero è rappresentato dalla acquisita indipendenza energetica: nei primi sei mesi del 2022, il saldo destagionalizzato del settore petrolifero è addirittura finalmente in attivo, anche se solo per 3 miliardi di dollari, rispetto ai 386 miliardi di passivo registrati nel 2008.
Lo shale gas è dunque una risorsa strategica, che viene utilizzata in chiave geopolitica. L’export petrolifero americano dei primi sei mesi di quest’anno è già arrivato a 151 miliardi di dollari rispetto ai 196 miliardi dell’intero 2021 ed ai 131 miliardi del 2020.
Rispetto all’Europa, dunque, che si trova in immense difficoltà con le importazioni del gas dalla Russia e con i prezzi stellari registrati dalla Borsa TTF di Amsterdam, l’America si trova in una condizione di grandissimo vantaggio.
L’aumento dei costi delle produzioni europee a causa del caro-energia incideranno fortemente sulla competitività delle sue merci a favore di quelle americane, anche se ora questo vantaggio viene in parte oscurato dalla debolezza dell’euro che ci dovrebbe favorire nell’export così come ci penalizza nell’import pagato in dollari.
Non c’è alcun dubbio che, rispetto alla Germania, c’è da attendersi una tendenza al riassorbimento dell’avanzo strutturale di quest’ultima: nei primi sei mesi di quest’anno il deficit americano si è già ridotto a 32,3 miliardi di dollari rispetto ai 39,5 miliardi dello stesso periodo del 2021.
Anche l’Italia rallenta: nei nostri confronti, il deficit americano nei primi dei mesi di quest’anno è sceso a 19,4 miliardi rispetto ai 22,3 miliardi dello stesso periodo del 2021.
In sei mesi, quest’anno, il deficit americano verso l’Unione europea è stato complessivamente di 97 miliardi di dollari, migliorando rispetto ai 108,4 miliardi dello stesso mese dello scorso anno.
Il deficit commerciale verso la Cina sta invece aumentando, essendo arrivato nel periodo gennaio/giugno di quest’anno a 200 miliardi di dollari netti rispetto ai 185 miliardi dello stesso periodo del 2021.
L’andamento del deficit americano nei confronti di Pechino sembra essere caratterizzato da fortissime oscillazioni: 367 miliardi di dollari nel 2015, 347 nel 2016, 375 nel 2017, 418 nel 2018, 343 nel 2019, 308 nel 2020, 354 nel 2021. Quest’anno, a tendere, dovrebbe tornare intorno ai 400 miliardi di dollari.
In termini annui, il passivo della bilancia commerciale rischia di superare dunque i mille miliardi di dollari, di cui il 40% verso la sola Cina: una somma astronomica che si va ad aggiungere al debito americano verso il resto del Mondo.
C’è da considerare infatti la posizione finanziaria netta (IIP) degli Usa, il saldo tra le attività e le passività rispetto al resto del Mondo, alla fine del primo trimestre di quest’anno è stata negativa per 17.748 miliardi di dollari, in netto peggioramento rispetto al 15.010 miliardi del primo trimestre del 2021.
I Titoli di portafoglio detenuti dai non residenti negli Usa ammontano a 27.211 miliardi di dollari rispetto ai 15.492 miliardi di titoli detenuti all’estero dagli statunitensi. Uno sbilancio su cui si devono pagare sempre più consistenti interessi, vista la politica di alti tassi decisa dalla Fed.
C’è una sorta di disincanto rispetto ai Treasury: a giugno scorso, le detenzioni straniere ammontavano a 7.431 miliardi di dollari rispetto ai 7.519 miliardi del giugno dell’anno scorso. Sono 88 miliardi di dollari in meno.
La Cina, come è noto, sta allentando la presa, essendo scesa dai 1.062 miliardi del giugno 2021 ai 968 miliardi del giugno di quest’anno mentre era arrivata a ben 1.315 miliardi a luglio del 2011.
Anche il Giappone ha limato i propri investimenti in titoli del Tesoro statunitense, essendo sceso a sua volta dai 1.280 miliardi di un anno fa ai 1.236 miliardi di giugno scorso.
L’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Fed sta impattando, come era ampiamente atteso, sugli andamenti di Wall Street. La tendenza dell’inflazione nell’ultimo mese sembra essere già in ribasso.
Per gli Usa, ancora una volta, il punto cruciale non è tanto quello che impegna la politica monetaria, nel riuscire a ridurre l’inflazione senza provocare una profonda recessione, obiettivo su cui la Fed è fortemente impegnata, quanto quello di riuscire ad invertire la tendenza al peggioramento continuo del deficit commerciale. La deindustrializzazione, a partire dagli anni Ottanta, affonda i conti americani con l’estero, senza rimedio.
Far affondare l’euro aumentando i tassi sul dollaro e poi l’Europa intera, Gran Bretagna compresa, tra la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia, tra i disagi sociali crescenti e la deindustrializzazione indotta dalla crisi energetica, non sembra davvero una via di uscita costruttiva. Vendetta e disperazione, sono sempre cattive consigliere.
Sostituire in Europa il gas russo a buon mercato con lo shale gas americano, enormemente più costoso, dimostra la regressione a cui l’economia americana è stata costretta per cercare di colmare il disastro della deindustrializzazione.
Nel commercio internazionale, l’America si è dunque ridotta a dover recuperare risorse dall’estero esportando nel settore a più basso valore aggiunto, quello delle materie prime energetiche, come fanno i Paesi economicamente più arretrati. Competendo con la Russia stessa, da sempre descritta ironicamente come un “enorme distributore di benzina”.
Saldo petrolifero attivo ed export europeo che arranca, ma i conti con l’estero affondano.
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