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11/03/2023

Il fisco secondo il governo Meloni: uno strumento di ingiustizia sociale

Prosegue inesorabile la strada verso lo smantellamento della funzione sociale e redistributiva del Fisco. Dopo la riforma fiscale del governo Draghi che ha ridotto le aliquote Irpef da 5 a 4, agevolando il segmento medio alto (ovvero chi guadagna dai 55.000 euro in su), è ora la volta della riforma fiscale del governo Meloni.

Dopo l’estensione della flat tax ai redditi dei lavoratori autonomi fino a 85.000 euro, dopo la truffa del taglio del cuneo fiscale che, a fronte di una emergenza salariale senza precedenti, ha portato nelle tasche dei lavoratori dipendenti dai 20 ai 30 euro mensili in più, è ora la volta dell’annunciata riforma fiscale che dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri nelle prossime settimane e intervenire principalmente su tre aspetti: ulteriore riduzione degli scaglioni e delle aliquote Irpef, revisione dell’Ires e abolizione dell’Irap.

Sul fronte della riduzione degli scaglioni Irpef sono allo studio due ipotesi che hanno, comunque, come obbiettivo comune accorpare i due scaglioni centrali: (redditi da 15mila a 28mila euro con aliquota Irpef attualmente al 25% e da 28mila a 50mila euro con aliquota attualmente al 35%).

Attualmente, come è noto, le fasce Irpef sono quattro: il 23% fino a 15mila euro, il 25% da 15mila a 28mila euro, il 35% da 28mila a 50mila euro e il 43% oltre questa.

Nella prima ipotesi di riforma resterebbe l’aliquota al 23% per i redditi fino a 15mila euro, poi ci sarebbe uno scaglione del 27% fino a 50 mila euro e un’imposta al 43% per i redditi oltre i 50mila euro. In questo caso i vantaggi reali si avvertirebbero solo per i redditi superiori ai 34 mila euro perché al di sotto di questa soglia si finirebbe addirittura per pagare di più rispetto ad oggi.

Nella seconda ipotesi, il primo scaglione si fermerebbe a quota 28mila euro di reddito, con un’aliquota al 23%. Il secondo scaglione arriverebbe a 50mila euro con un’Irpef al 33% mentre, al di sopra di questa soglia, resterebbe ferma l’attuale Irpef al 43%: in questo caso i risparmi sarebbero distribuiti su tutte le fasce di reddito, sia pure con vantaggi in termini assoluti superiori per chi guadagna di più.

La sostanza è semplice: in ambedue i casi i maggiori vantaggi sarebbero in capo ai redditi più alti mentre per i redditi medio bassi, a seconda delle ipotesi, l’operazione potrebbe essere svantaggiosa o risibile in termini di risparmio di imposte.

Sul fronte Irap (già ridotta dal precedente Governo) si punta alla sua totale abolizione, con tutto quelle che ne conseguirebbe per il già martoriato sistema sanitario nazionale.

Infine, ciliegina sulla torta, riduzione dell’attuale aliquota Ires al 24 percento (una vera e propria flat tax per le imprese) per le aziende che investono in sviluppo e beni strumentali: l’ennesima conferma di un sistema fiscale smaccatamente pro impresa.

Il segno marcatamente regressivo di tale progetto di riforma è evidente ed ancora una volta viene confermata la principale causa di iniquità sociale del nostro sistema fiscale: l’elevata aliquota media pagata dai redditi medio bassi e la scarsa distanza tra questa e quella pagata da chi percepisce redditi elevatissimi.

La questione salariale, e all’interno di questa anche la necessità di rilanciare il Fisco come strumento di giustizia sociale sarà al centro del Convegno organizzato a Roma da USB il 31 marzo dal titolo “Il salario che non c’è“ che vuole essere un passaggio fondamentale per continuare ed intensificare un percorso di mobilitazione che metta al centro il tema dell’emergenza salariale e del carovita.

Ciò che ormai da un mese sta accadendo in Francia con scioperi e mobilitazioni che stanno paralizzando l’intero paese ci indica la strada da seguire.

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