L’avesse compiuto, per dire, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, un gesto come quello del suo omologo britannico David Cameron, recatosi in “visita di lavoro” da Donald Trump in USA, intrattenendosi – magari – in Germania, con Sahra Wagenknecht, per di più alla vigilia delle elezioni, il coro liberal avrebbe subitamente gridato alle «interferenze russe nei processi democratici dei paesi liberi».
Ma fatto tra “alleati”, per di più di estrazione anglosassone, la cosa rientra nella normalità e, trattandosi della “democratica Ucraina aggredita dal dispotismo russo”, la faccenda diventa addirittura “doverosa”, dato che quei testardi di repubblicani yankee non si decidono a sbloccare i fondi per la junta nazigolpista di Kiev.
E poi, gli “alleati” europeisti già danno Joe Biden per liquidato e dunque, essendo la cosa della massima urgenza, più pratico trattare direttamente col probabile prossimo presidente USA.
C’è quantomeno da tentare di dar continuità a quel fiume di soldi che, in larghissima parte ha preso e prende la strada Occidente-Ucraina (a scapito beninteso non dei capitali occidentali, bensì delle spese sociali delle masse popolari), ma che non ha tralasciato il percorso Kiev-Cipro-Kiev.
È il caso, di cui parla ora il Comitato investigativo russo, del coinvolgimento, quantomeno finanziario, di alti papaveri USA, NATO e della Burisma Holding – la società di estrazione e commercio di idrocarburi, con sede legale a Cipro e in cui almeno dal 2014 al 2019 è rimasto annidato Hunter Biden, figlio di Joe – anche negli attentati terroristici organizzati o compiuti dai nazisti ucraini o loro addentellati.
Anche per questo, là a Ovest, si è affannosamente puntato il dito sui “fanatici islamisti” per l’attentato al “Krokus” di Krasnogorsk: era indispensabile cercar di indirizzare la cosiddetta opinione pubblica nel verso “giusto”.
Ricordiamo come l’ex Procuratore generale ucraino Viktor Šokin – rimosso nel 2016 su “raccomandazione” dell’allora vice presidente yankee Joe Biden, in cambio del miliardo di dollari promessi all’ex presidente golpista Petro Porošenko – avesse ricostruito i legami finanziari tra “Burisma” e la società di Hunter Biden e Devon Archer, la “Rosemont Seneca Partners LLC”.
Ma, pur se la permanenza di Hunter ai vertici di “Burisma” sembra terminata ufficialmente nel 2019, non nuoce rimandare ad alcuni altri nomi legati – in passato e, chissà: anche oggi? – alla società.
Ad esempio: Joseph Cofer Black, ex ufficiale della CIA; Aleksander Kwasniewski, ex presidente polacco; Igor Kolomojskij, il magnate ucraino finanziatore di “Pravyj sektor” e sponsor della candidatura di Vladimir Zelenskij alle presidenziali del 2019.
Un campionario abbastanza eloquente delle “attenzioni” riservate all’Ucraina e che va in parallelo con quell’intervento che – come giustamente osserva Rostislav Ishchenko su Ukraina.ru – non è solo quello di cui si parla da quando Emmanuel Macron ha detto la sua sulle truppe da inviare al fronte.
Perché, letteralmente, un intervento non è necessariamente solo quello militare (pur se, anche da questo stretto punto di vista, va avanti da almeno una quindicina d’anni), ma può essere diplomatico, finanziario, politico e non risale solamente alla proclamazione della “indipendenza” nel 1991, ma, in altre forme, anche alla tarda epoca sovietica, allorché le bande khrushchëviane consentirono il rientro dall’estero di migliaia di ex banderisti filo-nazisti, installatisi in posizioni oscure ma sicure in Ucraina.
Dunque, afferma Ishchenko, a suo tempo, l’Occidente ha qualificato come “interventi umanitari” autentiche aggressioni, mascherate come “difesa delle minoranze”; ma, questa volta, è impossibile qualificare come tale un intervento apertamente diretto contro la Russia, con l’obiettivo «di limitare o liquidare le possibilità del nemico di condurre la propria politica in una regione sensibile per l’Occidente».
Impossibile anche qualificare l’intervento come “missione di pace” su mandato ONU: semplicemente, Mosca porrebbe il veto. Così che l’eventuale contingente non potrebbe essere dislocato tra le forze in conflitto, ma solo nelle retrovie ucraine o in qualche paese confinante, oppure spedito direttamente al fronte.
L’ultima variante appare abbastanza irreale, non foss’altro per l’esiguo numero di uomini da poter mettere insieme. Per costituire una forza reale, il contingente dovrebbe contare al minimo cinquantamila uomini, ma oggi il massimo che anche l’intera UE sarebbe in grado di inviare non supererebbe i quindicimila, per nulla in grado di fermare l’avanzata russa e aumenterebbe solo il rischio di estensione del conflitto a livello globale.
Stessa cosa per il dispiegamento di forze o di aviazione in paesi vicini all’Ucraina. Rimangono le retrovie ucraine, per liberare “forze fresche indigene” da spedire al fronte: in questo senso, abbiamo già visto come vadano le cose in casa Zelenskij.
Per la verità, ci sarebbe anche un’altra variante, ricordata, con un rimando storico-tragico da Oleg Khavic, ancora su Ukraina.ru: mandare avanti, alla maniera di Napoleone nel 1812, il “Corpo polacco” che – dei venticinquemila uomini dell’inizio della campagna di Russia in giugno – al momento della ritirata e del fatale passaggio della Berèzina, ne contava meno di duemila.
Il riferimento di Khavic è all’intervento del Ministro degli esteri polacco al vertice Euro-NATO del 4 aprile scorso, in cui il famigerato Radoslaw Sikorski ha affermato che la NATO creerà una “missione” di sostegno a Kiev: ciò non significa, ha detto, «che entriamo in guerra, ma che ora possiamo utilizzare le possibilità dell’Alleanza per il coordinamento, l’addestramento e l’impostazione dell’appoggio all’Ucraina in forma più coordinata».
Vero è che, per ora, sia il presidente Andrzej Duda, sia il premier euromilitarista Donald Tusk e il ministro della guerra Wladyslaw Kosiniak-Kamysz giurano che nessun soldato polacco sarà inviato in Ucraina; tuttavia, sulla Vistola, le parole di Sikorski hanno provocato qualche apprensione, anche solo ricordando come lui stesso, appena un mese fa, avesse parlato di truppe polacche già presenti in Ucraina.
Basti pensare che i “volontari” polacchi costituiscono la grande maggioranza dei mercenari della cosiddetta “Legione internazionale” schierata con le truppe di Kiev. Cosa intenda ora Sikorski col termine “missione” è difficile da dire: il minimo che si possa pensare, è a un “intervento strisciante” della NATO mascherato da un qualche pretesto “umanitario”.
E, forse ricordando proprio il 1812, dicono osservatori polacchi, appena il 10% della popolazione si dice favorevole all’invio di truppe polacche in Ucraina, anche se addirittura il 67% è propenso all’invio di armi a Kiev.
In compenso, nota il politologo polacco Konrad Renkas, il ministro della guerra ha annunciato il dislocamento di 2.500 uomini quale contributo polacco a quel corpo che con un «tremendo termine polacco è chiamato “coalizione delle capacità corazzate”, a proposito del quale i commentatori hanno già sarcasticamente notato che sui monumenti alle prime vittime della Terza Guerra Mondiale una tale mostruosità linguistica apparirà estremamente stupida».
Intanto, però, si continua a parlare, in una maniera o nell’altra, di inviare truppe in Ucraina occidentale (Kovel, Sarny, Vladimir), puntando alla LITPOLUKRBRIG, già operante dal 2016 e che di fatto costituirebbe una piazzaforte polacca in Volinia, alla frontiera ucraino-bielorussa.
Con la Brigata tedesca che poi si concentrerà a Vilnius, il coinvolgimento anche di Minsk nel conflitto sarebbe cosa fatta e Varsavia potrebbe allora tornare a guardare (non ha mai cessato di farlo) alla vecchia Confederazione in cui, parlando di Lituania, vi si comprendeva anche la Bielorussia.
A questo punto, sarebbe però il caso che i polacchi ricordassero anche come, con tutto l’entusiasmo dei loro avi a fare “i primi della classe” nella Grande Armata napoleonica, con la cavalleria polacca che si gettava per prima nei fiumi e invece di guadarli vi annegava, nella convinzione di poter aspirare al risorgere della Nazione polacca, nei piani dell’Empereur des Francais non c’era affatto la liberazione della Polonia dal giogo zarista.
Duecentododici anni dopo, per Washington e Bruxelles, la Polonia liberal-bellicista non è altro che un avamposto nella guerra contro la Russia.
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