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08/06/2024

L’imbroglio “europeista” va smascherato, e combattuto

In questi giorni di elezioni europee riteniamo necessario ribadire che il ruolo dell’Unione Europea rimane quello definito dall’ortodossia ordoliberale.

La Ue e le sue istituzioni non sono affatto nate come luogo della cooperazione tra popoli o per assicurargli la pace e una maggiore democrazia.

Se fino al 1989, nel mondo fondato sull’equilibrio e la deterrenza tra Est e Ovest, l’Europa aveva i margini per svolgere una funzione “progressiva” (dal modello sociale europeo alla conferenza di Venezia sul Medio Oriente, dall’ost-politik di Brandt alla vocazione mediterranea dell’Italia etc.), terminata la Guerra Fredda la vocazione reazionaria e antipopolare dell’Europa, che si apprestava a diventare Unione Europea, è emersa con sempre maggior nitidezza.

Il cancelliere tedesco Khol ebbe a dire che “l’integrazione europea sarà un problema di pace o di guerra nel XXI Secolo”, ma non è affatto vero che la pace sia stata assicurata dalla nascita dell’Unione Europea. Al contrario, la guerra ne è stato un tratto costituente. Giustamente il premio Nobel Peter Handke ha affermato che “con la guerra in Jugoslavia è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea”.

I danni della competitività interna

La struttura che possiamo definire come la gabbia della Ue, è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57, passando per Maastricht e Lisbona, fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Il segno liberista era ben leggibile nel Trattato istitutivo dell’Unione Europea del 1992, un trattato che riteneva fondante la “competizione interna” e la moneta unica come motore dello sviluppo. I danni sono diventati evidenti dopo la crisi economica del 2008/2009 e la crisi pandemica.

La recente autocritica di Draghi sul fatto che nella Ue sia stata privilegiata la competizione interna piuttosto che quella internazionale, ci conferma il segno reazionario e minaccioso del progetto europeo gestito dalle classi dominanti di orientamento liberale. Lo stesso Draghi, nel 2011, decretò pubblicamente la liquidazione del “modello sociale europeo” ritenuto insostenibile per la competitività mettendo fine ad una illusione su cui ci si era trastullati fin troppo a lungo.

I trattati europei sono una struttura che ha prodotto un sistema di governo post-democratico e via via autoritario (le democrature) negli stati membri, con il relativo svuotamento della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo da un lato il welfare e i diritti dei lavoratori in nome della competitività e dall’altro scaricando sulle fasce popolari i costi di una crisi sistemica, attraverso l’abbassamento dei salari e delle condizioni di vita delle classi popolari.

In questi anni i paesi euromediterranei sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è stata paradigmatica, ma il futuro che si prospetta per l’Italia già a partire dal prossimo anno non appare molto diverso.

Si è rotto il giocattolo della dominazione unipolare

Allo stesso tempo la logica dominante della UE ha permesso ai suoi membri, congiuntamente ma anche separatamente, di portare avanti le proprie politiche neo-coloniali nei confronti dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo.

L’imposizione di “accordi quadro” regionali come il trattato di Cotonou o come l’ALECA tra UE e Tunisia sono stati lo strumento con cui i paesi europei hanno imposto ai paesi africani di “consumare ciò che produce l’Unione Europea e produrre ciò Unione Europea non può o non vuole produrre”.

Il carattere discriminatorio e neocoloniale delle politiche europee sull'immigrazione, le hanno rese del tutto complementari a questa logica di sfruttamento e sottrazione di risorse dei paesi del Sud legati ai meccanismi europei.

Inoltre l’influenza politica dei paesi della UE in Africa in questi ultimi decenni è ricorsa senza problemi all’intervento militare diretto (vedi Libia, ma anche Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad ecc.).

Finalmente, negli ultimi anni, questa catena di dominazione europea è stata rotta in diversi paesi africani che ne hanno cacciato i contingenti militari presenti e avviato tentativi di indipendenza economica dall’Unione Europea. La rottura del mondo a egemonia unipolare Usa/Ue e la spinta ad un mondo multipolare rappresentano una possibilità alternativa per moltissimi paesi in via di sviluppo.

L’unificazione della politica monetaria e la costituzione dell’Eurozona sono servite a rafforzare il modello esportatore dei paesi centrali dell’Eurozona (Germania in testa), ma anche a debilitare la posizione commerciale e subordinare la dinamica d’accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione del lavoro imposta dal centro.

La conseguenza è che i paesi euromediterranei stanno diventando sempre più delle riserve agricole e di servizi turistici e residenziali sottomessi a processi di deindustrializzazione più o meno accelerati.

Ma il modello export oriented – che ha devastato i mercati interni e i salari – non ha retto all’impatto dell’entrata in campo dei paesi emergenti, in particolare i Brics.

Sono saltate le catene del valore fondate sulla delocalizzazione selvaggia nei paesi a bassi salari ed è saltato il gap tecnologico tra i paesi a capitalismo avanzato e quelli emergenti. Un cambiamento epocale che ha reso isteriche e guerrafondaie le classi dominanti europee.

I pericoli di guerra

È questo il motivo per cui i leader europei – attraverso la Nato ma anche con le “cooperazione rafforzate” che aggirano i veti dentro la Ue – stanno trascinando a tappe forzate i loro paesi nella guerra contro la Russia, nella competizione frontale con la Cina, nella caccia ad ogni costo alle materie prime strategiche in Asia, Africa, America Latina, nella costituzione dell’Esercito Europeo per misurarsi con la guerra e agire pesantemente nella competizione globale.

Ne consegue che i processi in corso a livello di Unione Europea rappresentano oggi una minaccia e non una opportunità di cooperazione per i paesi emergenti e i paesi in via di sviluppo. È una comunità di destino riservata solo al “Giardino” dell’Occidente ma contrapposta al resto del mondo definito come una “Giungla”. Una sorta di suprematismo politico e morale che oggi richiede di essere difeso e imposto anche con la forza. E questo spiega anche l’identificazione politica e ideologica delle classi dirigenti europee con Israele e la loro indifferenza – se non ostilità – verso i palestinesi.

Al contrario dei guerrafondai di Bruxelles, riteniamo che i paesi europei dovrebbero adottare una politica estera di cooperazione, disarmo nucleare e neutralità attiva che metta fine all’adesione alla Nato e smantelli le basi militari straniere presenti sui nostri territori.

L’esistenza della Unione Europea rimane inoltre una gravissima minaccia per l’agibilità democratica nei nostri paesi e per i diritti guadagnati dai lavoratori con le lotte del secolo scorso. Su questo le convergenze tra destre e liberali – di destra e di “sinistra” – sono sempre più evidenti.

Non si può concepire un sistema sociale alternativo in uno spazio politico/istituzionale come la Ue né in mercato unico neoliberista come è stato concepito nei Trattati Europei.

Per questa ragione rimaniamo convinti che vada smascherato l’imbroglio ideologico “europeista” e coloro che lo sostengono e, al contrario, occorre continuare a lavorare per far saltare dall’interno gli anelli deboli della catena imperialista europea. Ogni vero cambiamento nasce da una rottura.

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