A chi come me ha vissuto l’adolescenza nella prima metà dei Duemila,
sembrerà a vita disorientante il fatto che oggi, a più o meno vent’anni
di distanza, album come “Is This It”, “Turn On The Bright Lights”, “Whatever People Say I Am, That’s What I Am Not”, “Funeral”
e via discorrendo siano a tutti gli effetti considerati dischi storici,
spesso citati come primaria fonte di ispirazione dalle successive
generazioni.
Per noi, come per tutti, la storia era il passato, in
qualche modo cristallizzato e chiuso in maniera più o meno definitiva;
ciò che invece ci passava davanti agli occhi e cresceva con noi, eravamo
troppo impegnati a viverlo per immaginare che quella sarebbe stata poi
la storia per qualcun altro nel futuro.
Per noi ragazzini nei primi anni Zero, l’ultimo (e per noi più vicino) riferimento a cui concedevamo l’onore della “storicità” erano probabilmente i Nirvana. Kurt Cobain ci aveva lasciati solo pochi anni prima e “Nevermind”
era un disco più giovane dei nostri fratelli minori, eppure tutto era
già diventato materia da antologia e totem venerabile. Forse, fino alla
nostra generazione, il riconoscimento della “storicità” (e del
conseguente alone di leggenda) era il più delle volte tristemente
mediato proprio dalla morte; gran parte dei miti musicali oggetto di
adorazione tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 avevano purtroppo già
concluso la propria esperienza terrena, tra droghe, suicidi e vite al
limite. Tutto ciò inevitabilmente aumentava il senso di sacralità verso
svariate figure iconiche del rock’n’roll, facilitandone il culto.
Fortunatamente, tra gli artisti ascesi alla fama dall’inizio del nuovo
millennio in poi, questa tendenza funebre è sensibilmente diminuita;
frutto forse di una propensione all’autodistruzione finalmente e
intelligentemente scemata nel nuovo mondo rock, forse conseguenza di una
certa “intelletualizzazione” a scapito del motto del "live fast/die
young", fatto sta che gran parte delle band nate vent’anni fa sono
ancora in piena attività.
Probabilmente, sarà anche questa
contemporaneità tutt’oggi conservata a non farci pienamente realizzare
l’iscrizione di Strokes, Arctic Monkeys e
affini nell’albo dei gruppi già considerabili “storici” (o quantomeno –
volendola mettere in tono un po’ minore – dei “modern classic”). Eppure
questo è ciò che il capitan senno di poi ci racconta; perché in fondo,
la storia altro non è che qualcosa da raccontare. Qualcosa che val la
pena raccontare.
Ma davvero, pur se troppo presi nel darci appuntamenti nei bagni (semicit.) a suon di post-punk revival
e gin tonic, non ci stavamo accorgendo di nulla? No, non è vero. Ce ne
accorgevamo eccome, solo non avevamo tempo e voglia di preoccuparcene.
Dall’avvento di “Is This It”,
per la mia generazione cambiò tutto. Quel guanto di pelle posato sulle
curve di un corpo nudo soppiantò nel nostro immaginario, in un colpo di
spugna, i peggiori strascichi degli anni '90, fino a quel momento ancora dominanti in termini di fenomeni di massa: il tremendo filone post-grunge,
le declinazioni più tamarre del nu metal, la metamorfosi zuccherosa del
pop-punk e dell’emo. La nuova scena nascente all’epoca ci fece
riconsiderare tutti i paradigmi: ai baggy pants sostituimmo i
jeans attillati, ai felponi i giubbini di pelle, al gel nei capelli la
nostra naturale spettinatura. Ma soprattutto, quella musica, che davvero
nuova non era (anzi, apriva praticamente l’epoca delle retromanie), ci
restituiva vibrazioni che – quelle sì – erano per noi nuove. Ed erano
nostre, in tutto e per tutto.
Che quello fosse il nuovo corso e che
ci appartenesse a pieno titolo ce ne rendevamo conto soprattutto nei
momenti condivisi. Tra i dischi di cui parlavamo e che ci scambiavamo a
scuola o all’università. Nelle feste in cui abbiamo iniziato a ballare
sulle note di “Reptilia” o “Take Me Out”.
Ai concerti di quelle band dove ci ritrovavamo. Certo, all’inizio gli
eventi non erano tanti e tanti non eravamo neanche noi, ma del resto non
ci trovavamo nel Lower East Side o a Shoreditch. Proprio questa
dimensione contenuta difficilmente poteva lasciarci presagire di
guardare dopo un paio di decenni a quel momento come un fondamentale
passaggio generazionale (sebbene quegli stessi gruppi che in Italia
arrivavano raramente a suonare e per lo più in location medio-piccole, già si esibissero da headliner
a Glastonbury o Reading). Eppure, in qualche modo, lo sentivamo
ugualmente che il futuro stesse passando da lì, proprio dove c’eravamo
anche noi.
Adesso che il futuro è passato (e di questo ce ne
siamo accorti, tanto per storpiare un’altra citazione), possiamo
constatare come il tempo ci abbia in fondo dato ragione. La legacy
di quell’ondata è ampiamente riconosciuta come punto cardinale della
storia della musica contemporanea. E ha lasciato a noi che ci siamo
cresciuti tante storie da raccontare. Tutt’oggi però, forse offuscati da
un senso di naturale nostalgia che ci riporta costantemente lì, a
quando avevamo sedici, diciotto o vent’anni e gli Arctic Monkeys
erano semplicemente una nuova promessa, ancora fatichiamo a
metabolizzare come quel periodo sia già stato, in un certo senso,
consegnato alla storia. È strano, nonostante avessimo sempre
inconsciamente saputo che sarebbe successo.
Così, avviandomi verso la
quarantina, non posso fare a meno di chiedermi quali siano i gruppi
dell’attuale nuova scena destinati a rimanere negli annali; come li
stiano vivendo i ventenni di oggi e come questi li vedranno nel 2040 o
nel 2050. Come li vedrà e come ne sentirà parlare mia figlia, che oggi
va all’asilo, quando sarà maggiorenne.
Alla prima domanda tendo a darmi una risposta abbastanza banale, considerando i Fontaines Dc
e gli Idles come i capofila dell’ultimissima generazione rock, in senso
molto ampio. Al di là dell’indubbia reputazione di queste due band e
pur pienamente convinto dell’affermazione, mi piace complicarmi la vita,
e mi chiedo: perché Fontaines Dc e Idles sono importanti al giorno d’oggi? Fanno qualcosa di nuovo e rivoluzionario? Probabilmente no. Chiamatelo pure post-post-punk,
revival del revival, o come diavolo vi pare, avrete più o meno ragione
(al di là dell’inutilità di etichettature arzigogolate). La componente
derivativa indubbiamente c’è, eppure è la personalità di Fontaines e
Idles a prevalere sul citazionismo, consacrandoli nell’ultimo lustro
come gli artisti più capaci di rinnovare il linguaggio del rock più o
meno alternativo nel modo più credibile e coerente con l’era
contemporanea, con capacità di reinvenzione e crescente qualità
artistica sulla lunga distanza della propria discografia, laddove buona
parte degli eroi del neo-indie di inizio millennio, dopo dischi di
esordio pirotecnici, avevano iniziato a mostrare segni di debolezza e un
certo esaurimento di idee già dal terzo album.
Fontaines Dc e Idles
rappresentano la radice di un nuovo movimento? Neanche questo.
Nonostante siano ormai, senza timore di smentita, i fari della nuova
leva alternativa (comunque florida in contesti più di nicchia), non
guidano un trend di massa paragonabile a quello sviluppatosi due decenni
fa, capace di muoversi dall’underground alla moda mainstream
(oh, se a un certo punto tutti sono diventati “indie”, la cosa è
partita da lì). Sono in realtà i tempi a essere però radicalmente
mutati; in un momento storico che ci mostra come sia il rock in generale
a essere uscito fuori dagli allori della gloria – appunto – di massa,
con il pop a occupare tutti gli spazi vitali che al rock erano
connaturati (dall’impatto mediatico sui giovanissimi alla presenza nei
grandi festival, fino addirittura agli endorsement politici), Fontaines Dc e Idles rappresentano una sorta di fiera resistenza, romantici condottieri di un esercito di desaparecidos ritrovati che vogliono testardamente ribadire il proprio essere al mondo, vivi e non solo sopravvissuti.
Tutto
questo non basta però a trovare una soluzione al secondo quesito: cosa
lasceranno in eredità queste band per giovani e giovanissimi di oggi e
di domani? Per rispondere è necessario prescindere da un freddo
approccio di analisi e osservazione critica, per addentrarci nella sfera
emotiva. E l’emozione non può passare solo dall’ascolto di un disco e
dalla conoscenza maturata tra web e riviste; l’emozione va vissuta
appieno nella condivisione, nel sentimento (consapevole o ingenuo che
sia) che ciò che sta accadendo ci stia in qualche modo cambiando in
senso collettivo, quale sia l’estensione non è poi neanche così
importante. Ed è impossibile vivere e percepire questa emotività fuori
dal campo.
Un ventenne che frequenta stabilmente concerti e happening
vari probabilmente determinate sensazioni può averle già in corpo da un
bel pezzo, così come noi ultimi dei millennials sin dagli albori
annusavamo nell’aria cosa ci stesse capitando nei primi anni Duemila.
Tuttavia, il me stesso di oggi, che passa ormai gran parte delle serate a
guardare cartoni e giocare con sua figlia, questi sentimenti non
riusciva ad afferrarli. Non riuscivo insomma a decifrare la reale
portata, in termini di impatto generazionale, dei paladini odierni.
Per
capirlo c’è voluto, appunto, un vero momento di condivisione. Un
concerto: quello dei Fontaines Dc all’Auditorium di Roma. In realtà, ad
andare a vedere gli irlandesi c’avevo già provato un paio di volte.
Biglietti presi e poi rivenduti, per insorte esigenze lavorative e
familiari. Il 25 giugno 2024 ci sono finalmente riuscito senza intoppi.
Forse, da un certo punto di vista, la tempistica si è rivelata perfetta: i Fontaines Dc vivono adesso una fase di apice dell’hype,
pronti (a un età media dei componenti che non arriva neanche a
trent’anni) a dare alle stampe un quarto album che dai singoli sin qui
rilasciati già si preannuncia eccellente e degno seguito di tre dischi
meravigliosi. Vederli oggi significa trovarsi di fronte a una band
pienamente padrona dei propri mezzi, ad ogni modo incontestabilmente
eccezionali sin dagli esordi del 2018. Questo è certamente importante,
ma non è il punto focale, né io sono qui per raccontare del concerto in
sé. Questo non è un live report; al riguardo, basti dire che
l’esibizione è stata magnifica, potente e intensa, con perfette scelte
di scaletta e una presenza magnetica (se avete voglia di approfondire,
potete trovare il reportage completo qui).
È invece della famosa sfera emotiva che voglio raccontare, e di come
questa mi abbia totalmente investito, in una pulsazione che ho avvertito
connessa a quella di ogni singolo spettatore tra le migliaia di
presenti che hanno riempito ogni buco dell’Auditorium, fino a giungere a
una conclusione: al concerto del 25 giugno, ho assistito all’epifania
di una band che sarà (e forse già è) leggenda. Un gruppo che lascerà
comunque il segno, magari non come in passato nella fascinazione del
rocker maledetto, non nell’avviare un nuovo corso di sottoculture
giovanili ormai sempre più disperse e nascoste, bensì nel farsi in
qualche modo portatore di un immaginario. Ed è qualcosa che va al di là
della bravura e dell’aver pubblicato dei grandi album; è qualcosa che
capisci appieno solo leggendola in faccia alle persone intorno a te,
esattamente nello stesso modo in cui la stai sentendo tu. Così come la
sentivamo nel 2001 o nel 2005.
Già l’atmosfera che precede il concerto assume le sembianze di un’attesa religiosa: c’è un senso comunitario palpabile, quasi a essere tutti lì come parte di un’entità unita. Esserci significa appartenere a qualcosa, e che quel qualcosa a sua volta ci appartenga. Si incrociano tra gli spettatori personaggi noti (tra cui i Fast Animals Slow Kids al gran completo), si capisce come in tanti abbiamo percorso centinaia di chilometri per arrivare, si avverte serenità e allo stesso tempo impazienza nelle conversazioni che ti scorrono accanto.
È proprio una liturgia, quella che ha luogo sin dal calare delle luci, con l’ingresso messianico degli irlandesi; Grian stesso scandisce tutta l’esibizione con l’andamento di un sacerdote in un paradossale stato di frenetica estasi. Il pubblico delle prime file si scatena nel pogo e nel crowdsurfing durante i brani più tirati; ho la tentazione di buttarmi in mezzo a loro, ma poi mi ricordo che fiato e gambe non sono più quelli di una volta, così rimango nella buona posizione già ricavata, sempre nel parterre ma leggermente rialzata, da cui la visuale è perfetta. Mi sento un po’ vecchio, devo ammetterlo, ma provo gioia nel vedere i più giovani spremersi di sudore in una danza catartica, piuttosto che puntare le fotocamere dei telefoni come troppo spesso purtroppo oggi accade anche in ambito rock/alternative. In generale, comunque, di schermi illuminati se ne vedono molti meno di come ci siamo recentemente abituati. Gran parte degli spettatori si limita a scattare un paio di foto o un breve video ricordo, per poi lasciarsi cullare dalle bordate che i Fontaines Dc dispensano a iosa. C’è chi ciondola con la testa, c’è chi canta a squarciagola, c’è chi sbarra gli occhi. Tutti siamo comunque rapiti e assuefatti. C’è un’emozione che ci accomuna tutti. Un’emozione che accomuna, c’è da dirlo, un pubblico sorprendentemente variegato nell’età. La fascia predominante è sicuramente quella che va dai venti ai trenta, ma si vedono tantissimi giovanissimi in età da fine scuole superiori, tanti over-40, persino qualche over-50 e oltre. E ciò non è banale; se è abbastanza comune trovare molta varietà anagrafica ai concerti di vecchie glorie che le successive generazioni ciclicamente riscoprono, è piuttosto raro vedere quarantenni e cinquantenni al concerto di un gruppo “nuovo”.
Più tardi, Grian Chatten e soci accolgono l’ovazione finale e la Cavea torna a illuminarsi a giorno. Con i vicini di postazione ci si scambia uno sguardo, un sorriso, quasi a dirsi telepaticamente “wow”. Qualcuno parla già del concerto del prossimo novembre all’Alcatraz di Milano (non a caso, già sold-out). Raggiungendo poco dopo l’uscita, si sente chiaro un clima di entusiasmo generale. I commenti del day-after sparsi per i social avallano quell’entusiasmo e l’impressione che un po’ tutti lasciamo all’Auditorium: il ricordo di aver vissuto qualcosa di grande, che va oltre il semplice concetto di assistere al concerto di una grande band. Tutto ciò rafforza la mia idea che, anche nella visione retrospettica che potremo avere fra dieci, quindici o vent’anni, guarderemo ai Fontaines Dc come simbolo e ispirazione di questi tempi.
Sto esagerando? Può darsi, chi lo sa, del resto solo il giudizio a posteriori potrà dare conferma o smentita. Ma sul fatto che i nostri eroi di Dublino lasceranno un segno tangibile, sarei pronto a scommetterci. Pronto a scommettere che se c’è qualcuno che dai giorni nostri rimarrà anche nella memoria collettiva futura, non potranno essere che loro e probabilmente gli Idles, che pure spero di riuscire presto a vedere dal vivo (dopo aver già fallito anche con loro un paio di tentativi) per avvalorare ulteriormente questa mia convinzione.
Quando ci sarà l’occasione, chiederò alla mia bambina il “permesso” di assentarmi per un’altra serata in cui non potrò farle compagnia nei suoi giochi o nel raccontarle qualche storia. In cambio, le prometterò che quando sarà più grande e arriverà il suo turno di mettersi su treni o bus sgangherati per raggiungere i concerti dei suoi idoli, non le romperò troppo le scatole. Le suggerirò di godersi quei momenti dai suoi occhi, senza usare troppo il telefono, se non per rispondere alle mie chiamate notturne da padre in ansia. Se condividerà le mie passioni, sono comunque sicuro che arriverà il giorno in cui mi chiederà dei Fontaines Dc; e sarà in quel momento che tirerò fuori i vinili di “Dogrel”, “A Hero’s Death”, “Skinty Fia” (e molto probabilmente dell’imminente “Romance” e degli altri futuri album) e potrò raccontarle una bella storia. Che, al di là del giudizio critico o emotivo che potrà essere diverso per ognuno di noi, sono certo che varrà la pena raccontare.
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