Dall’Iran. Già al sesto comunicato ufficiale di Mohsen Eslami, portavoce del quartier generale elettorale del paese, la vittoria di Massoud Pezeshkian per diventare presidente al posto di Raisi, morto in un incidente aereo poco più di un mese fa, si profilava molto chiara.
Oltre un milione e mezzo di voti in più rispetto a Saeed Jalili, l’ex capo negoziatore nelle trattative con l’Occidente sul nucleare iraniano e certamente il candidato prediletto dell’ayatollah Khamenei.
Il settimo aggiornamento – alle 5:35, le 4 in Italia – il vantaggio si allargava ancora, ad oltre due milioni di voti, e lasciava capire che non c’erano possibilità di recupero da parte dei “conservatori”.
Fino al risultato finale, comunicato alle 6:50 locali: su 30 milioni e 530mila votanti (il 49,8% degli aventi diritto), Pezeskhian ottiene 16 milioni 384mila 403 preferenze e Saeed Jalili 13 milioni 538mila.
Pezeskhian diventa così il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran.
Non è invece sicuramente semplice spiegare cosa significhi questo voto per il popolo iraniano e, in generale, per le dinamiche internazionali, ovviamente nello scenario mediorientale. Tanto più se si usa la chiave interpretativa abituale nell’Occidente neoliberista, fin qui inchiodata sulla più piatta propaganda di guerra, con una articolazione minima tra la versione che descrive Pezeshkian come il “finto riformista” o, al meglio, come “la foglia di fico” del regime.
Viste dall’Iran, invece, queste elezioni dicono decisamente altro.
Intanto l’affluenza al secondo turno, risultata in netto aumento rispetto al 40% del primo, che già aveva fatto registrare più preferenze per il settantenne cardiochirurgo di Urmia. Segno che sia il “fronte conservatore”, sia quello “riformatore”, hanno spinto al massimo per la partecipazione al voto, con qualche penosa forzatura regolamentare, tipo il prolungamento dell’orario di chiusura delle urne (alle 22).
Affluenza comunque bassa, avevano già scritto in molti, che “delegittima il regime” di Tehran. Come se invece il 49% dell’affluenza italiana alle recenti elezioni europee – identica a quella persiana del secondo turno – fosse invece la prova di un eccellente stato di salute della “democrazia” in casa nostra...
Girando per le città iraniane e parlando con le persone, come qui da noi, era facile capire che la distanza tra “la politica” e “il popolo” è molto simile. Poca fiducia nelle possibilità di “cambiamento” e nei meccanismi istituzionali. Un forte desiderio di pace, disinnescando le dinamiche guerrafondaie che qui sono a avvertite in misura decisamente più concreta (Israele ha bombardato di recente nei dintorni di Esfahan, oltre ad uccidere diversi scienziati nucleari con attentati mirati). Una chiara voglia di regole di vita meno dipendenti dalle paturnie del clero, anche se “dio” è una parola di frequente pronunciata anche dai più espliciti critici degli ayatollah.
Fin qui, insomma, sembrerebbe che che le narrazioni occidentali sull’Iran siano in qualche modo corrispondenti al vero. Ma le cose stanno molto diversamente. Quelle narrazioni, infatti, sono incentrate sull’ossessione – tipicamente colonialista – di descrivere una società e un popolo come una “brutta copia” delle società occidentali, misurando la distanza e cercando “il nostro uomo” nella classe politica locale.
Non trovandolo, ci si accontenta di tifare per il “boicottaggio delle elezioni”, interpretando l’astensionismo come un vuoto riempibile a piacimento.
Lo stesso Pezeshkian, dicevamo all’inizio, è stato descritto spesso come un “finto riformatore” perché le sue dichiarazioni – ad esempio – sulla necessità di garantire maggiormente la libertà delle donne e le aspirazioni dei giovani non fanno il paio con la genuflessione ai comandi occidentali a proposito della Palestina o di altri punti focali della politica internazionale.
E qui diventa possibile chiarire quel che traspare anche agli occhi del più disattento viaggiatore: voglia di cambiamento e orgoglio nazionale da queste parti vanno a braccetto.
Il popolo iraniano, 45 anni fa, si è liberato di botto dalle presenza invasiva del potere imperialista occidentale, con una “rivoluzione” certamente diversa (e spesso opposta, nei princìpi fondanti) rispetto a quelle del Novecento. E nessuno vuole tornare indietro...
Da allora il processo di ammodernamento del paese è stato intenso, perché i proventi delle risorse energetiche sono stati impiegati – bene o male, ci sono molte critiche in proposito – per assicurare una produzione industriale autonoma, lo sviluppo dell’agricoltura e dell’urbanistica, un esercito e milizie che hanno un ruolo importante nella regione, ecc.
Girando per Tabriz, Esfahan, Tehran, ma anche in tante città minori, è visibile ad occhio nudo che questo è oggi un paese moderno, non del “terzo mondo”, con molte malattie tipiche della modernità (il traffico è allucinante, per esempio), ma dove è forte la consapevolezza di avere un ruolo autonomo nel mondo. E nessun senso di inferiorità rispetto all’Occidente.
Questa consapevolezza può ovviamente essere declinata in molti modi (“dio guida le nostre scelte” oppure “siamo stati capaci di fare da soli”), ma appare irreversibile. E non sembra lasciare spazio a improbabili “Guaidò” teleguidati da Washington…
Del resto l’Iran è diventato membro dei Brics e le pluridecennali sanzioni occidentali, se pure hanno limitato alcune possibilità di sviluppo, hanno paradossalmente favorito la ricerca di soluzioni alternative che oggi rendono questo paese un pilastro robusto nella costruzione di un ordine multipolare senza più un “gendarme”.
Un pilastro che può permettersi di provare ad ammodernare anche le proprie regole sociali senza per questo diventare un vassallo di qualche improbabile “maestro” liberal-liberista...
Un paese e un popolo di grande complessità, con una storia millenaria e capacità create solo di recente. Tra cui quella di scegliersi un presidente che, in qualche misura, gli corrisponda.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento