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28/03/2025

La falsa utopia di Ventotene: il manifesto Ue della nostra prigione

La polemica recente sul Manifesto di Ventotene tra la Presidente del Consiglio Meloni e il PD riporta quel documento al centro dell’attenzione. Sebbene molta parte della sinistra abbia sempre esaltato il Manifesto come espressione di una posizione progressiva e di sinistra, è invece importante chiarire come il Manifesto rappresenti una posizione regressiva e anti-democratica, che prefigura tutti i problemi di cui è afflitta la UE odierna. Per questa ragione proponiamo la lettura di ampi estratti dei primi paragrafi del libro di Domenico Moro, “Eurosovranità o democrazia? Perché uscire dall’euro è necessario”, edito da Meltemi

di Domenico Moro

Oggi, in tutti i paesi europei, le politiche economiche e sociali e gli stessi meccanismi della democrazia rappresentativa sono ingabbiati dai vincoli dei trattati europei e dall’euro. Dinanzi alla peggiore crisi economica dal 1929, i vincoli europei hanno drasticamente ridotto gli investimenti pubblici, impedendo di compensare il crollo degli investimenti privati, come si faceva nelle crisi precedenti.

Tuttavia, i dati statistici non ci restituiscono completamente il quadro europeo. Mai, prima d’ora, si era visto in Europa un tale distacco tra cittadini e sistema politico, con un astensionismo che arriva fino alla metà dell’elettorato. La tradizionale alternanza tra centro-destra e centro-sinistra è venuta meno, facendo saltare i meccanismi della democrazia rappresentativa. Partiti che hanno fatto la storia dei loro Paesi e dell’Europa, come i partiti socialisti francese, tedesco, spagnolo, olandese e greco, si sono ridotti ai minimi storici e in qualche caso sono scomparsi dalla scena politica. Alle ultime presidenziali francesi, per la prima volta dal dopoguerra, nessuno dei due tradizionali partiti principali, il socialista e il repubblicano, è riuscito ad accedere al ballottaggio. Invece, partiti critici verso l’UE e l’euro, sono nati o, se già esistenti, sono cresciuti un po’ dappertutto, raccogliendo una quantità di consensi fino ad ora impensabile al di fuori dei classici centro-sinistra e centro-destra.

Appare evidente che il rilancio economico, sociale e democratico dell’Italia e dell’Europa richiede la rimozione del trasferimento a organismi sovranazionali di importanti funzioni statali, in particolare il controllo sul bilancio pubblico e sulla moneta[1].

Inoltre, è possibile ricostruire una linea politica internazionalista – di solidarietà e unità tra i lavoratori europei e tra lavoratori autoctoni e immigrati – soltanto mettendo al centro il tema dello scardinamento della gabbia dell’euro. Questo può avvenire, secondo le condizioni concrete, in varie modalità, tra le quali non possono certo essere escluse a priori l’uscita negoziale e finanche unilaterale dall’euro. Eppure, molti continuano a rifiutarsi di prendere persino in considerazione una qualche via di superamento o di uscita dall’euro, ignorando la centralità della questione dell’integrazione economica e valutaria europea.

Quali sono le ragioni di un tale rifiuto? Le motivazioni sono di due tipi, economiche e politico-ideologiche. Sebbene le motivazioni economiche siano certamente importanti, ritengo che a incidere maggiormente sulla riluttanza persino a prendere in considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro, fra la sinistra e più in generale nella società italiana ed europea, siano le motivazioni politico-ideologiche. Da una parte, queste sono percepite come meno “tecniche” e quindi maggiormente comprensibili. Dall’altra, soprattutto, fanno riferimento a un senso comune profondamente radicato in Italia, ma presente anche in altri Paesi dell’Europa occidentale. In effetti, bisogna dire che la questione dell’euro e dei trattati non è una questione soltanto tecnica, cioè di meccanismi economici, che in genere sono tutt’altro che neutrali. A maggior ragione, la questione dell’euro e dei trattati è anche e soprattutto una questione politica, cioè di scelte basate su interessi di classe e tese a modificare i rapporti di forza fra classi e settori di classi sociali.

Tra le motivazioni politico-ideologiche la principale è quella che ritiene l’uscita dall’euro politicamente e storicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione. Il concetto di nazione, per ragioni che spiegheremo poi, viene identificato con quello di nazionalismo. Di conseguenza, il rifiuto dell’euro e con esso dell’unità europea significherebbe di per sé il ritorno al nazionalismo e di conseguenza l’assunzione di una posizione di destra, con la quale ci si allineerebbe implicitamente alle posizioni espresse da partiti di destra o estrema destra come il Front National in Francia, Alternative für Deutschland in Germania, e la Lega in Italia. Una variante di questa posizione ritiene che il ritorno alla nazione, oltre che di destra, sia inadeguato allo svolgimento di lotte efficaci e sia persino anti-storico, a causa della dimensione ormai globale raggiunta dal capitale. Tali posizioni si intrecciano in chi, come Toni Negri, pensa che la globalizzazione «è stata l’effetto di un secolo di lotte ed ha rappresentato una grande vittoria proletaria».[2] In particolare, sempre secondo Negri, per i lavoratori dei Paesi avanzati il globale sarebbe una modalità di vita per rompere con «la barbara identità nazionale».[3] A questa posizione, si può facilmente obiettare che la globalizzazione è stata una risposta del capitale per risolvere la sua crisi (l’eccesso di capacità produttiva e il calo dei profitti), mediante le delocalizzazioni e la riduzione dei salari e del Welfare. Del resto, è una ben strana vittoria quella che modifica i rapporti di forza a proprio sfavore, nella fattispecie ai danni del lavoro salariato, ad esempio permettendo di ricattare i lavoratori con la minaccia delle delocalizzazioni.

Nei primi anni duemila Negri riteneva si fosse realizzata la «costruzione di un impero capitalista» unificato, deducendone, quindi, – in compagnia di una parte notevole dell’intellettualità di vari orientamenti ideologici e politici – che gli Stati e le nazioni non avessero più alcuna ragione di esistere o che fossero ormai organismi che non contavano più molto. In un tale contesto, l’Europa unita non solo avrebbe sancito il superamento dell’obsoleto Stato-nazione, ma la possibilità di «costruire una democrazia assoluta a livello di impero […] come contro-Impero».[4] Anche qui la realtà si è incaricata di smentire elaborazioni teoriche troppo astratte, che non tenevano conto delle caratteristiche e delle finalità della costruzione europea. In Europa non è emerso un impero unitario, ma, al contrario, la competizione tra Stati e tra imperialismi si è manifestata più volte: dal contrasto all’epoca della guerra in Iraq tra Francia e Germania, da una parte, e Usa, dall’altra, fino al contrasto franco-italiano in Libia, per non parlare dei conflitti sul commercio e sulla politica internazionale che dividono Usa ed Europa (e da cui nasce l’elezione di Trump) e sempre più spesso l’Europa al suo interno. Soprattutto, la possibilità che le “moltitudini” europee realizzassero un soggetto politico democratico («un contropotere rispetto all’egemonia capitalistica dell’impero»[5]) è naufragata sullo scoglio dei movimenti xenofobi e nazionalistici che l’Europa stessa ha contribuito a promuovere, a causa dell’aumento della povertà e dell’allargamento dei divari tra Paesi europei.

A ogni modo, le motivazioni politiche contro l’uscita dall’euro si basano su false premesse, anche se il tema del rapporto tra nazione, democrazia e lotta di classe è complesso. Proprio per questo il principio da cui partire è che la questione della nazione va affrontata non in astratto ma in concreto, cioè partendo dall’analisi dei rapporti di produzione per come si manifestano nella fase attuale del capitalismo. Il timore di ricadere nel nazionalismo affonda le sue radici nella storia del Novecento, quando i nazionalismi furono alla base dei fascismi e ad essi si attribuì la causa dello scoppio della Prima e della Seconda guerra mondiale. Altiero Spinelli e gli altri autori del Manifesto di Ventotene (Ursula Hirschmann, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi), fino a oggi punto di riferimento ideale della sinistra europeista, estesero la loro avversione dal nazionalismo allo Stato nazionale. Per eliminare per sempre la possibilità di una guerra e la rinascita del fascismo, scrivono, bisogna eliminare la «sovranità assoluta» degli Stati europei, subordinandoli all’Europa unita. Il Manifesto di Ventotene è influenzato dalle tesi di Albert O. Hirschman, fratello di Ursula e cognato di Eugenio Colorni. Hirschman era un economista tedesco che, dopo aver completato i suoi studi a Berkeley, si era arruolato nell’esercito statunitense. Dopo la guerra, divenne alto dirigente della Banca centrale statunitense per i Paesi del Commonwealth e fu candidato al premio Nobel. Le sue riflessioni sono funzionali alla ricostruzione del mercato mondiale controllato da istituzioni internazionali sotto l’egemonia statunitense. In Potenza nazionale e commercio estero (1945) Hirschman scrive che la politica di potenza statale, che portò allo scoppio della Seconda guerra mondiale, può essere superata solo privando gli Stati dell’autonomia sulle scelte economiche, cioè della sovranità nazionale, subordinandoli alle regole di organismi sovranazionali: «[il superamento della politica di potenza] può esser fatto solo con un attacco frontale contro l’istituzione che sta alla radice del possibile impiego delle relazioni economiche internazionali per obiettivi di potenza nazionale, cioè contro l’istituzione della sovranità nazionale».[6]

Proprio l’eliminazione della sovranità economica nazionale è uno dei pochi obiettivi realizzati, mediante l’euro, dal movimento europeista. Però, realizzando una sorta di eterogenesi dei fini, è curiosamente proprio la limitazione della sovranità economica nazionale che ha portato di nuovo in Europa all’egemonia della Germania, vale a dire il Paese da cui muoveva la critica di Hirschman alla politica di potenza mediante il commercio estero. E, per giunta, si tratta di una egemonia basata sul commercio estero, che ha condotto la Germania ad accumulare un surplus della bilancia commerciale superiore persino a quello della Cina.

Il concetto di nazione acquisisce un significato così negativo che, secondo il Manifesto di Ventotene, la linea di demarcazione tra progressisti e reazionari non sarebbe dovuta più passare per la maggiore o minore democrazia o per la forma dei rapporti di produzione, cioè tra capitalismo e socialismo, ma tra l’essere o per lo Stato nazionale o per lo Stato sovranazionale. Essi vedevano nello sviluppo di un’Europa unita e nel superamento del capitalismo autarchico, tipico della fase degli anni Trenta, verso il libero commercio non solo un antidoto alla guerra ma anche il migliore mezzo di contrasto all’influenza dei partiti comunisti in Europa. Del resto, nel Manifesto di Ventotene la socializzazione dei mezzi di produzione viene vista come un’utopia e come una «erronea deduzione» dai principi del socialismo, che porterebbe automaticamente alla dittatura burocratica. All’epoca l’URSS stava combattendo una lotta senza quartiere contro il nazismo a fianco degli angloamericani, che le sarebbe costata circa ventitré milioni di morti, mentre i comunisti in Italia e in Francia erano parte fondamentale della Resistenza. Ciononostante, gli autori del Manifesto di Ventotene sembravano preoccupati soprattutto di individuare le contromisure nei confronti degli scomodi alleati in vista della ridefinizione degli assetti politici del dopoguerra: «Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario ma già il fallimento del rinnovamento europeo».[7]

Il nazionalismo della prima metà del Novecento, in realtà, più che la causa primaria fu l’effetto di un determinato contesto storico e di specifiche condizioni socio-economiche. Esso ha rappresentato la forma ideologica adeguata a una specifica fase storica dei rapporti di produzione capitalistici, che alcuni, come l’economista Pietro Grifone, hanno definito capitalismo monopolistico di Stato.[8] Durante quel periodo storico, tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale, l’accumulazione capitalistica avveniva soprattutto su base nazionale, mentre il suo espansionismo estero avveniva nella forma dell’imperialismo nazionale e territoriale. La tendenza si accentuò negli anni Trenta con l’economia cosiddetta autarchica. Le economie nazionali erano allora ripiegate al loro interno e gli scambi con l’estero di merci e di capitali avvenivano soprattutto all’interno degli imperi nazionali, tra la metropoli, cioè la potenza imperialista, e le sue colonie. Nel 1937 l’Italia dirigeva verso le sue colonie quasi il 25% delle sue esportazioni totali, ma riceveva appena il 3% delle importazioni.[9] Solamente grazie ai surplus commerciali con le colonie molti Paesi europei riuscivano a ridurre o annullare i deficit della loro bilancia complessiva degli scambi con l’estero. La City di Londra mantenne per decenni il suo ruolo di centro finanziario mondiale grazie ai surplus dell’interscambio con le sue colonie e al trasferimento di oro tra il Regno Unito e l’India, all’epoca il suo dominio principale. In quel periodo, infatti, il Regno Unito aveva una bilancia commerciale con l’estero cronicamente in deficit, e su export e produzione industriale perdeva continuamente posizioni a favore della Germania.[10]

È ovvio che, in un tale contesto di scambi più circoscritti, lo Stato avesse un ruolo nell’economia più interventista e più diretto, che determinava una tendenza al capitalismo di Stato, affermatasi pienamente dopo la crisi del 1929. La causa scatenante delle due guerre mondiali fu la crisi capitalistica, prima quella del 1905-1913 e poi quella del 1929, e il conseguente acutizzarsi delle contraddizioni inter-imperialistiche. Gli imperialismi britannico, tedesco, francese e italiano erano impegnati nella competizione per il controllo di aree periferiche allo scopo di garantirsi uno sbocco all’eccedenza di merci e capitali e la fornitura di materie prime a basso costo. Le ideologie nazionalistiche furono lo strumento per la mobilitazione delle masse verso la Prima guerra mondiale. In seguito, l’affermazione del fascismo, come forma estrema e specifica di nazionalismo, fu funzionale all’espansionismo del grande capitale monopolistico uscito sconfitto dalla Prima guerra mondiale, come nel caso della Germania, o frustrato nelle sue aspirazioni territoriali, come nei casi dell’Italia e del Giappone. Del resto, il fascismo, dopo la prima fase movimentistica e piccolo borghese, mutuò il suo programma e una parte dei suoi quadri dirigenti dall’Associazione nazionalista italiana, di piccole dimensioni ma espressione organica dell’imperialismo industriale del grande capitale italiano.[11]

Quando si parla di fatti e idee sociali, come nel caso del concetto di nazione e del nazionalismo, bisognerebbe inquadrarli nel contesto storico. Quindi, la prima domanda che ci si dovrebbe porre è: qual è il periodo storico che attraversiamo? Quali ne sono le specificità concrete in riferimento al problema che discutiamo? Per rispondere a queste domande la prima cosa da dire è che oggi la forma del modo di produzione capitalistico è molto diversa da quella degli anni tra le due guerre mondiali, perché l’accumulazione, cioè la realizzazione di profitto, non avviene che in minima parte su base nazionale. Il mercato principale della Volkswagen non è la Germania ma la Cina e quello della Fiat, prima dell’acquisizione di Chrysler, non era l’Italia ma il Brasile e oggi il Nord America. La Fiat, oggi divenuta FCA, realizza il 60% dei ricavi e il 75% dei profitti nell’area Nafta (Usa, Canada, Messico), oltre ad aver spostato la sede legale in Olanda e quella fiscale nel Regno Unito.[12] Del resto, non sono poche le grandi imprese “italiane” che hanno sede all’estero, ad esempio Ferrero in Lussemburgo e STMicroelectronics in Olanda. Dunque, dalla forma di capitalismo monopolistico di Stato si è passati alla forma di capitalismo globalizzato.[13] In quest’ultima il capitale realizza i suoi profitti soprattutto su base internazionale, mediante investimenti all’estero sia di portafoglio sia diretti (IDE).[14] L’obiettivo è realizzare economie di scala a livello internazionale, basate sullo spostamento di quote di produzione dai Paesi avanzati a quelli periferici, a basso costo del lavoro, e su operazioni di fusione tra imprese e integrazione tra capitali del centro a livello sovrastatale. Le imprese che contano sono multinazionali o transnazionali e l’imperialismo non si basa più su imperi territoriali, ma sulla capacità di comando mediante il controllo dei movimenti internazionali di capitale, di merci, di materie prime, di tecnologia. Questo, però, non significa che non si ricorra anche allo strumento militare, che però non tende al controllo diretto di aree periferiche, quanto a determinare assetti favorevoli o a eliminare governi e stati scomodi, attraverso la capacità d’intervento militare “fuori area” e l’uso di guerre per procura.

Naturalmente anche l’ideologia si è adeguata a tali trasformazioni abbandonando il nazionalismo, divenuto ormai obsoleto, e abbracciando il cosmopolitismo, che ha varie declinazioni. Ad esempio in campo militare, come ha ben documentato Vladimiro Giacché, assume la veste di interventismo “umanitario” o per esportare la “democrazia”. In questo modo, il vecchio imperialismo nazionalista diventa, secondo l’espressione di Ignatieff, «imperialismo dei diritti umani».[15] In una fase storica in cui i margini di profitto derivano dalle economie di scala e dalla integrazione della produzione a livello internazionale l’andamento delle economie nazionali europee ha molta meno importanza. Di conseguenza, decade la necessità che lo Stato sostenga l’economia e il Pil domestico mediante il debito pubblico. Anzi, come vedremo più avanti, il debito pubblico diventa un ostacolo alla creazione del mercato finanziario che fornisce alle grandi imprese i capitali per operare a livello mondiale.[16]

Nella misura in cui l’integrazione europea (specie monetaria) favorisce i suddetti processi del capitale, l’ideologia europeista è articolazione diretta, in Europa, dell’ideologia cosmopolita, che non va confusa nel modo più assoluto con quella internazionalista. L’internazionalismo, come parte del pensiero socialista del XIX e del XX secolo, non prescinde dall’esistenza delle nazioni e dagli Stati e ha un carattere collettivo e di classe. Infatti, si propone di superare le differenze e le rivalità nazionali e statali mediante la costruzione di una solidarietà e di una unità di intenti economici e politici tra classi subalterne e lavoratori salariati appartenenti a nazionalità differenti, nei confronti del capitale. L’internazionalismo tiene conto dell’esistenza delle nazionalità e sostiene il principio dell’autodeterminazione dei popoli, cioè il diritto alla separazione, come strumento di lotta contro l’oppressione dell’imperialismo e dei regimi autoritari e arretrati. Ma inquadra l’intera questione nazionale all’interno della difesa degli interessi generali del lavoro salariato e delle classi subalterne e lotta contro tutto quanto divida e metta in concorrenza i lavoratori, comprese le differenze nazionali.

Il cosmopolitismo, invece, prescinde dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato a una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che questo può offrire, sia una ampia libertà di movimento al di sopra e attraverso i confini statali.

Note

[1] Le responsabilità dell’integrazione economica e monetaria nella crisi europea e italiana e le tematiche del suo superamento sono state approfondite, sebbene con accenti diversi, da diversi economisti italiani, tra i quali citiamo Alberto Bagnai, che ha svolto un ruolo pionieristico, Sergio Cesaratto, Emiliano Brancaccio, Ernesto Screpanti, Vladimiro Giacché, Massimo d’Antoni, Riccardo Realfonzo, Guglielmo Forges Davanzati. I testi di alcuni di questi autori sono citati in bibliografia.

[2] Toni Negri, Chi sono i comunisti. Relazione al convegno C17, 18-22 gennaio 2017

[3] Toni Negri, Ibidem.

[4] Antonio Negri, “Strategie politiche per l’Europa. Europa necessaria, ma possibile?” (settembre 2001) In L’Europa e l’impero, manifestolibri, Roma 2009, p. 118.

[5] Ibidem, p. 119.

[6] Albert O. Hirschman, Potenza nazionale e commercio estero, il Mulino, Bologna 1987, p. 61. Il corsivo è nostro.

[7] Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Il manifesto di Ventotene. Per una Europa libera e unita, Ventotene 1941-1944.

[8] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Milano 1972. P. Grifone, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista, La città del sole, Napoli 2006.

[9] Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Supplemento all’Annuario Statistico Italiano, Supplemento n. 4 Commercio estero, ottobre 1944.

[10] Marcello De Cecco, Moneta e Impero, Donzelli Editore, Roma 2017.

[11] Maurizio Ridolfi, Storia dei partiti politici, Bruno Mondadori, Milano 2008.

[12] Fca, Relazione finanziaria, 30 settembre 2017. Il dato si riferisce ai primi nove mesi del 2017.

[13] Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.

[14] Gli IDE sono investimenti di capitale in una impresa estera, già esistente o realizzata ex novo. Gli IDE si distinguono dagli investimenti di portafoglio in quanto hanno un orizzonte temporale lungo e devono raggiungere almeno il 10% del capitale con diritto di voto nel consiglio d’amministrazione.

[15] Cit. in Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, DeriveApprodi, Roma 2008, p. 51.

[16] Riccardo Parboni, “Il materialismo storico e la crisi mondiale”, in R. Parboni (a cura di), Dinamiche della crisi mondiale, Editori Riuniti, Roma 1988.

Fonte

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