Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

21/03/2025

Sequestro Moro, il vicolo cieco del complottismo /prima parte

Dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (leggi qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e successivamente direttore del quotidiano Liberazione e ora membro della redazione della rivista «Su La Testa», autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, la rivista Utopia21 ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’impostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. A causa della lunghezza del testo, pubblichiamo oggi solo la prima parte della intervista, il seguito nei prossimi giorni. Chi volesse già da ora leggerla integralmente può trovarla qui.

*****

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti


Sul rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro esiste una letteratura assai ampia, anche recentemente sono usciti nuovi libri, si pensi a quelli di Stefania Limiti e Dino Greco. Il filone delle pubblicazioni sembra inesauribile.

Lo storico Francesco Maria Biscione, recentemente scomparso, ha curato una bibliografia sulla figura e la vicenda di Aldo Moro. Nell’ultima stesura del marzo 2023 aveva catalogato circa 1100 volumi, una cifra in difetto perché scorrendola mi sono accorto che mancava ancora qualcosa. Se poi a essi aggiungiamo le pellicole cinematografiche realizzate prima della morte dello statista democristiano, come Forza Italia di Roberto Faenza e Todo Modo di Elio Petri, entrambe cadute in disgrazia perché incompatibili con la narrazione costruita dopo il rapimento e la sua scomparsa, o le successive – con l’aggiunta delle serie televisive – come i film di Giuseppe Ferrara e Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni, o ancora le rappresentazioni teatrali di Pesce, Timpano, Gifuni, senza soffermarsi sulla sterminata produzione giornalistica, oppure le canzoni autoriali che hanno fatto riferimento alla sua vicenda politica, da Rino Gaetano a Giorgio Gaber, quest’ultima subito censurata, ci rendiamo conto di quanto il rapimento Moro si sia costruito nel tempo come un «caso» a sé stante separato dalla vicenda storica della lotta armata e delle Brigate rosse. Un affaire che deve molto all’industria editoriale arrivata a farne un nuovo genere letterario di tipo spionistico con i suoi lettori appassionati e che produce fenomeni di costume tra i più diversi. Si va dai gruppi social dedicati che affrontano la vicenda come un gioco di società, ispezionando i luoghi e cercando le ex basi brigatiste per poi affannarsi in lambiccate ipotesi complottiste, fino a società di turismo che propongono a sprovveduti clienti tour-fiction con interpretazioni attoriali su luoghi che storicamente nulla c’entrano col sequestro. Qualcosa che ricorda lo sketch di Totò quando cercava di vendere a un ignaro turista la Fontana di Trevi. Il sequestro Moro è divenuto per certi versi un mercato per allocchi dove imperversano personaggi senza scrupoli, millantatori, mitomani e furbastri di ogni genere. Personaggi di una farsa surreale che hanno rimpiazzato i protagonisti tragici di quella storia.

Nel sottotitolo del tuo ultimo libro fai un esplicito riferimento all’affaire Moro.

Certo, la costruzione dell’«affaire», come lo definì Sciascia, è ormai un tema storico che vanta una lunga lista di specialisti e addetti. Un oggetto storiografico separato e rilevante soprattutto per la potenza distorsiva che contiene. Si tratta di un livello parallelo che poco c’entra con quanto è realmente accaduto. Se si omette l’insorgenza sociale degli anni '70, diventa difficile comprendere come sia stato possibile che la mattina del 16 marzo 1978 un gruppo di operai scesi dalle fabbriche del Nord si sia dato appuntamento in via Fani con dei giovani delle periferie romane per tentare di cambiare il corso della storia. La stratificazione delle narrazioni che si è succeduta nei quasi cinquant’anni che ci separano dal sequestro, l’attività delle commissioni parlamentari, soprattutto delle ultime due, la Stragi presieduta da Pellegrino e la Moro presieduta da Fioroni, hanno disseminato fake news opacizzando la comprensione dei fatti. Dal punto di vista delle pubblicazioni, i libri veramente incisivi arrivano a fatica a poche decine. Il filone predominante resta quello dietrologico-complottistico, tra cui si annoverano i due volumi che hai appena citato. Ruminamenti delle vecchie tesi complottiste, quel regno dei misteri che i gruppi parlamentari del Pci misero in forma nel lontano 1984, alla conclusione del primo processo Moro e della prima commissione d’inchiesta parlamentare, e che da allora si trascinano come un disco rigato, nonostante nel frattempo abbiano perso pezzi grazie alla desecretazione dei documenti e al difficile, ma ostinato, lavoro storiografico indipendente. Ignorare le smentite sopravvenute ripetendo goebbelsianamente le stesse menzogne è il segreto di questa tecnica di falsificazione del passato.

Perché nel 2022 hai dato alle stampe il libro «La Polizia della Storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro», che fin dal titolo si contraddistingue per essere decisamente controcorrente rispetto alla piega che il dibattito ha assunto ormai da molto tempo?

Perché nel giugno 2021 ho subìto una pesante incursione della polizia di prevenzione, su mandato della procura di Roma, che si è impossessata del mio archivio digitale, del mio materiale di ricerca storica raccolto in anni di lavoro negli archivi pubblici e nelle interviste ai testimoni. E’ stata la mia risposta a quell’attacco senza precedenti alla libertà di ricerca. Una inaccettabile rappresaglia contro la storiografia indipendente, estranea alle narrazioni di regime. Quando ho avuto in mano le prime carte dell’inchiesta e sono riuscito a decifrarne la logica ho deciso di raccontare tutto, di denunciare quanto accaduto, riprendendo anche il filo del lavoro di ricerca con gli ultimi aggiornamenti sulle nuove conoscenze intervenute sul sequestro Moro e fornendo un resoconto radicalmente critico dell’attività mistificatrice condotta dall’ultima commissione Moro, i cui lavori avevo seguito da vicino.

Prima di proseguire nell’intervista mi sembra opportuno chiederti a che punto è la tua vicenda processuale?

Dopo oltre tre anni di indagine la procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo perché non è riuscita ad individuare alcun reato e perché in ogni caso quelli ipotizzati, parliamo del 2015, erano ormai prescritti. In via teorica l’azione giudiziaria si attiva per individuare i responsabili di reati commessi, dopo una notizia criminis, ovvero quando un fatto-reato esiste, è accertato. A quel punto si va alla ricerca dei responsabili che lo avrebbero commesso. In questo caso c’è stata invece un’azione «preventiva», ci si è mossi per individuare reati non ancora accertati ma solo ipotizzati. Più che un’inchiesta si è trattato di un rastrellamento giudiziario: «vengo a casa tua, sequestro tutto, qualcosa di illecito sicuramente trovo perché tu con il lavoro storico che fai sei ai miei occhi un sospettato permanente». Il risultato è che non hanno trovato nulla che potessero usare penalmente! Hanno certamente aggiornato le loro informazioni, raccolto una quantità di notizie, appunti, arricchito un background di conoscenze. Che poi è il vero lavoro che sta dietro l’attività di qualunque polizia. Una specie di «vita degli altri». Significativo è il fatto che nei rapporti dell’inchiesta il lavoro di ricerca, l’attività storica da me realizzata veniva apparentata ad una sorta di nuova militanza, una specie di «banda armata storiografica...».

La colpa che mi veniva imputata era quella di fare storia fuori dai canoni ritenuti legittimi. La domanda è: una società dove il ministero dell’Interno si erge ad arbitro del lavoro storico e pretende di decidere cosa si deve scrivere in un libro e chi ha il diritto di scriverlo, che società è? Da qui la polizia della storia.

A fronte di questa incredibile storia come hai fatto a comporre questo libro, stante che materialmente ti è stato impedito di proseguire «nei cantieri di ricerca aperti»?

Mi sono aiutato con il mio blog, Insorgenze.net, dove sono presenti oltre 1200 articoli frutto del mio lavoro di giornalista e di ricercatore. Un vero archivio che ho ripreso in mano aggiornando e incrementando gli interventi presenti anche grazie all’aiuto di amici e altri ricercatori che avevano copia di alcune parti della documentazione che mi era stata sottratta. Insomma ho chiesto aiuto e ho nuovamente recuperato quanto era possibile rintracciare dalle fonti aperte.

Quando analizzi l’arrivo delle Brigate rosse in via Fani il 16 marzo del 1978 ad un certo punto descrivi il posizionamento della 128 bianca, con due «irregolari» della Colonna romana a bordo. Quale era il confine tra militanti «regolari» e militanti «irregolari», e quando la clandestinità ha preso il sopravvento rispetto alle scelte organizzative delle Brigate rosse?

Contrariamente a quel che si crede, le Brigate rosse non nascono come una formazione clandestina. All’inizio operano con modalità semilegali: tutti i loro componenti vivono nelle loro case, hanno famiglia, figli, mogli o mariti, genitori. Vanno a lavorare regolarmente. Solo la loro azione politica di propaganda armata è «clandestina». Una clandestinità molto aleatoria che non garantisce a lungo la sicurezza del gruppo. Presto verranno individuati e pedinati e nel maggio del 1972 l’organizzazione, che all’epoca era prevalentemente incentrata su Milano, viene sgominata. Una retata fa cadere quasi tutte le basi e un bel pezzo della loro rete militante e di sostegno. I pochi scampati si ritrovano in un casolare del Lodigiano, gestito da Piero Bertolazzi, uno dei fondatori del gruppo, dove riflettendo sullo smacco subìto elaborano una innovativa teoria dell’organizzazione che prevedeva la «clandestinità strategica», così la chiamarono. Clandestini allo Stato e ai suoi apparati ma non alle masse, agli operai che erano il loro punto di riferimento, la loro base sociale, l’acqua dove nuotavano e da dove provenivano: le fabbriche. Ovviamente il nuovo modello organizzativo che prevedeva il passaggio alla vita clandestina dei quadri militanti presupponeva anche il rafforzamento della capacità logistiche: l’approvvigionamento di risorse economiche con le rapine di autofinanziamento, la creazione di una rete di basi sicure dove alloggiare i militanti clandestini e creare archivi, depositi e laboratori. La capacità di fornire loro copertura con la realizzazione di documenti contraffatti. Tutto in completa autonomia, senza ricorrere al mondo della malavita che era monitorato dalle forze di polizia e pieno di confidenti. Senza una forte logistica la lotta armata non sarebbe durata una settimana e la logistica è l’indicatore che da prova del radicamento sociale delle Brigate rosse. La logistica si avvale del grado di sviluppo delle forze produttive dell’epoca, del sapere operaio, delle sue elevate capacità tecnologiche e dell’esistenza di un radicato sostegno, appoggio, simpatia che si manifesta con modalità e intensità diverse. Quando si porrà il problema di produrre patenti di guida, per esempio, saranno degli operai delle aziende tessili del Biellese che forniranno la famosa tela rosa sulle quali erano stampate le patenti dell’epoca. Quindi vennero messe in piedi delle tipografie grazie alla presenza di militanti tipografi, così stamparono di tutto: riprodussero ogni tipo di timbro, carta di circolazione, bolli auto e contrassegni delle assicurazioni. Altri operai fornirono la plastica per fabbricare targhe, venne inventato un termoaspiratore che grazie ad un calco riproduceva le targhe. Tornitori e fabbri si occupavano di riparare armi e costruire silenziatori artigianali, altoparlanti... Poi c’erano anche medici e infermieri degli ospedali che fornivano la necessaria assistenza. Dopo gli arresti del 1972 viene gradualmente elaborata una teoria dell’organizzazione assolutamente innovativa e senza precedenti rispetto alle altre esperienze guerrigliere passate e contemporanee. Un modello che si costruisce sperimentalmente sulla base dell’esperienza diretta e che troverà definitiva formalizzazione nel novembre 1975. Le forze «regolari» sono quadri dell’organizzazione che entrano in clandestinità, supportati dall’apparato logistico che ho descritto. Attenzione a non confondere i latitanti, ricercati dalle forze di polizia, con i regolari. Entrambi sono clandestini ma i primi per necessità, i secondi per scelta. In origine gran parte dei regolari non sono conosciuti dalle forze di polizia, quindi non sono latitanti. Lo diverranno col tempo, una volta identificati. Tra i latitanti vi possono essere anche degli «irregolari», ovvero militanti dell’organizzazione che conducevano vita legale, spesso nelle brigate territoriali o nei posti di lavoro. I due irregolari cui fai riferimento sono Alvaro Loiacono, che infatti indossa un «mephisto» con cui travisa il volto perché già fotosegnalato dalle forze di polizia, e Alessio Casimirri. Nella squadra che opera la mattina del 16 marzo c’è un regolare che all’epoca non era ancora completamente clandestino, Bruno Seghetti. Viveva in un monolocale dell’organizzazione situato in Borgo Vittorio. Per questa ragione dopo la retata di inizio aprile che le forze di polizia condurranno a Roma negli ambienti dell’autonomia, Seghetti che ufficialmente era domiciliato a casa dei genitori a Centocelle, dove la polizia andò a cercarlo, si presentò in commissariato per non destare sospetti. In questo modo dovendo dare spiegazioni sulla sua assenza bruciò la base di Borgo Vittorio che venne subito smantellata.

Nel tuo libro c’è un capitolo che riprende una intervista a Giuliano Ferrara, a quel tempo membro della segreteria torinese del Pci e responsabile delle fabbriche. Perché le parole di Ferrara sono così importanti?

Perché per la prima volta un importante dirigente del Pci racconta le tecniche che quel partito impiegò per contrastare le Brigate rosse, il loro «principale antagonista a sinistra», come disse Berlinguer in una intervista apparsa su Repubblica nell’aprile del 1978. Emerge così la catena di trasmissione che lega la procura sabauda e la federazione comunista torinese, con Caselli (il magistrato che ha arrestato più operai nella storia d’Italia), e con lo stesso Violante che nel 1978 era nell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia per creare le basi della svolta emergenzialista con l’introduzione dei principi di trattamento differenziato: carceri e legislazione speciale. I due magistrati tenevano riunioni in federazione, concertando le strategie di contrasto alla lotta armata con i dirigenti del partito comunista locale mentre il partito, quando emersero difficoltà nella composizione della giuria popolare, filtrò diversi giurati. Una interferenza politica nel processo non certo in linea con i dettami costituzionali, l’autonomia della magistratura e il codice di procedura penale. Una testimonianza, quella di Ferrara, assolutamente rilevante sul piano storico che non trovò spazio nel giornale dove lavoravo all’epoca. L’allora direttore Dino Greco si rifiutò di pubblicarla perché «non in linea con la verità politica» che a suo avviso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, doveva preservare. Una verità politica, ovvero una menzogna storica, costruita negando quanto era avvenuto nella realtà. La stessa «verità politica» che senza battere ciglio Greco ripropone nel libro che ha dedicato alla ricostruzione della storia della Brigate rosse e del sequestro Moro.

Cosa vuoi dire quando evidenzi che «attorno alle parole di Moro si è combattuta e tuttora si combatte una battaglia importante, una battaglia politica»?


Nel corso della prigionia Moro fu descritto dall’ampio schieramento politico e giornalistico che sosteneva la linea della fermezza (Dc, Pci, Repubblica di Scalfari) come una vittima della sindrome di Stoccolma, un politico privo di senso dello Stato, autore di lettere che non erano moralmente e materialmente ascrivibili alla sua persona. In un precedente volume ho pubblicato ampi stralci dei verbali delle riunioni della Direzione del Pci, nei quali oltre a denunciare l’uso di violenza psichica e preparati chimici per far collaborare l’ostaggio, si esprimevano giudizi pesantissimi nei confronti del prigioniero. Oggi sappiamo che si trattava di una versione di comodo, elaborata in quei giorni nelle stanze del Viminale grazie all’opera del professor Franco Ferracuti e del suo assistente Francesco Bruno, che suggerì di ritenere pubblicamente Moro un ostaggio sotto influenza dei suoi rapitori per delegittimare le proposte di trattativa e scambio di prigionieri elaborate in via Montalcini. Si trattò di una cinica operazione di disinformazione, un’azione di controguerriglia psicologica che governo, forze politiche e grande stampa accolsero e utilizzarono. Fu un assassinio anticipato, prim’ancora del suo corpo vennero fucilati dalle forze dell’emergenza la sua coscienza e il suo pensiero politico. Non a caso Moro, perfettamente consapevole della scelta fatta dal suo partito e dal Pci, scrisse: «il mio sangue ricadrà su di voi». Soltanto nel 2017, trentanove anni dopo la morte, il memoriale difensivo e le lettere scritte in via Montalcini sono state inserite nell’opera omnia edita dalla Presidenza della Repubblica, riconoscendone appieno, seppur con un grave ritardo, l’autenticità e l’importanza storica, politica ed etica. Ormai nessuno ha il più il coraggio di mettere in discussione l’integrità morotea di quegli scritti. Un recente lavoro di analisi filologica condotto da Michele Di Sivo ha definitivamente sepolto ogni disputa, relegando nella pattumiera della storia tutti quelli che hanno provato ad argomentare sulla inautenticità. Ma per le forze politiche, gli intellettuali e i giornali che sostennero l’inautenticità delle parole di Moro restava il problema di trovare una via di uscita per giustificare la scelta fatta e liberarsi della responsabilità di aver trovato politicamente più conveniente la sua morte. È nata così la dietrologia, l’affannosa ricerca di responsabili di sostituzione, di una narrazione che capovolgesse la condotta tenuta nei 55 giorni del sequestro attribuendo ad altri la mancata liberazione dell’ostaggio e l’esito nefasto del sequestro.

1/continua

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento