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22/03/2025

«Ascolta la memoria che parla»...

«La verità fa odio», proverbio ciociaro e del Sud dell’Italia

«La verità suona come l’odio alle orecchie di quelli che odiano la verità», Malcom X

Identità popolari, revisionismo storico e «dissociazione»

Esiste nel Sahel, in Africa dell’Ovest, una casta di genealogisti, depositari della storia e delle tradizioni dei popoli discendenti dall’Impero Mandingo, che nel periodo del suo apogeo, il XIVesimo secolo, si estendeva dal Mali e la Guinea fino al Burkina Faso, al Senegal e alla Costa d’Avorio.

In Europa, questi guardiani della conoscenza trasmessa per via orale son chiamati griot, espressione probabilmente mutuata dal portoghese «criado», che vuol dire «servitore», o «persona ben educata».

Nella lingua dei Bambara, une delle etnie principali della regione subsahariana dell’attuale Mali, questi uomini e donne, legati a un mestiere trasmesso ancor oggi di generazione in generazione, hanno il titolo di djeli, temine il cui significato in bambara è «sangue».

Quando un djeli, o una djelimusso (la donna-griot), declina le genealogie delle famiglie del Mandé accompagnandosi con l’arpa e cantando con uno stile struggente di nostalgia, gli eventi del passato risorgono e, come per incanto, la coesione dell’insieme del clan si ritrova rinforzata nell’identità comune.

Il passato è un campo di battaglia

La rimembranza degli avvenimenti lontani svela antichi legami e relazioni tra lignaggi che hanno avuto ragione del tempo...

Queste forme di divulgazione hanno il vantaggio di presentare una Storia non riducibile ai grandi avvenimenti e protagonisti. Una Storia che integra il vissuto delle genti, le loro culture, spiritualità, migrazioni.

«Se ascolti la parola del griot, tu ascolti la memoria che parla»… I griot, o djeli, sono il sangue che scorre nelle vene delle società ovest-africane, la linfa vitale che ha permesso loro di sopravvivere, resistere e rialzarsi dopo secoli di oppressioni e di violenze subite.

La trasmissione della conoscenza storica è la barriera invalicabile contro la quale si sono urtati e si urtano i disegni di dominazione e di conquista dell’invasore, di tutti gli invasori. Questo è vero da più di 500 anni in Africa e nel Sud Globale, in America del Sud e nei Caraibi in particolare.

Marcus Garvey, il pensatore jamaicano annoverato tra i precursori del panafricanismo, affermava che «un popolo che ignora la sua storia è come un albero senza radici».

Fondatore e rappresentante principale del movimento letterario della Negritudine, il martinichese Aimé Césaire diceva che «un popolo senza storia è un popolo senza avvenire». Sottolineando, come un avvertimento visionario, che la Storia resta un’arma che può essere manipolata e sottoposta a revisione.

Di fronte a questo rischio evidente di perversione della Storia, lo psichiatra e militante anti-coloniale Franz Fanon, anche lui originario della Martinica, invitava a smantellare tutte le strutture di potere dei coloni e a «provocare un’insurrezione delle coscienze al fine di dissolvere le narrazioni coloniali... Il passato è un campo di battaglia dove si gioca l’avvenire dei popoli. Parlare del passato non è solo un tributo alla memoria, è un’arma di giustizia e uno strumento di lotta contro l’oblio e la falsificazione storica».

Dettata dagli interessi del potere, di tutti i poteri, la revisione del passato è un’opera formidabile di induzione della rimozione e dell’amnesia collettive. È la creazione artificiale di una «zona di conforto» delle menti e dell’opinione, in cui la dimenticanza delle asprezze del passato, così artificialmente introdotta, dovrebbe essere il lievito di un quieto vivere, in cui tutti i conflitti, compreso quello tra capitale e lavoro, si estinguono.

Questo processo d’azione psicologica per inverarsi nella realtà, sedimentarsi per «conquistare i cuori e le anime», non è esente dalla coercizione. La contro-verità deve essere protetta e la legislazione interviene con il suo seguito di procedure giudiziarie e poliziesche. Il caso del genocidio israeliano a Gaza è emblematico: la sua denuncia prevede l’accusa d’apologia del terrorismo, il fermo di polizia e la convocazione in Tribunale.

L’Italia degli anni ‘70

Gli esempi del revisionismo storico già in corso nelle cronache ufficiali sono molteplici. Quello della Palestina è tipico, mentre il racconto della guerra nell’Est della Repubblica democratica del Congo (RDC) è completamente stravolto nelle vulgate ufficiali attraverso l’inversione dei ruoli dei protagonisti e una moltitudine d’affabulazioni che ne offuscano la visione corretta.

Una caso particolare e poco segnalato è quello dell’Italia degli anni ’70.

Un caso che ci interpella direttamente. Ma che è anche necessario rimettere in evidenza per il ruolo che questo paese dovrebbe giocare come cerniera tra Nord e Sud del Mondo, una linea di frontiera che attraversa il suo centro, essendo il Mezzogiorno della Penisola tributario di influenze e lasciti provenienti dalle rive basse del Mediterraneo e fino alle savane dell’Africa Nera.

Ricordarlo è pertinente, perché fu proprio questa emergenza totale del Sud uno dei motori degli avvenimenti che ci accingiamo a trattare.

Qui in Italia, nel decennio a cui si fa riferimento, un grande sommovimento sociale di un’intensità fino allora sconosciuta si manifestò facendo tremare le mura del Palazzo. La ribellione nella sua crescita non rinunciò ad adottare tutti gli strumenti necessari per opporsi alla violenza statuale, né a contestarne il monopolio dell’uso della forza.

La guerra civile si mantenne a lungo in uno stadio di bassa intensità, in cui l’esplosione permanente delle lotte operaie e sociali si tradusse spesso in vere e proprie forme di contropotere e di liberazione.

Poi, per ragioni che non è possibile esaminare qui, comunque sia endogene che esterne, una curva d’involuzione segnò il declino progressivo del movimento. E nella fase crepuscolare di questo ciclo di conflittualità radicale, accompagnata da una guerriglia diffusa sull’insieme del territorio, il fenomeno della «dissociazione» sorse all’inizio degli anni ’80 all’interno delle carceri speciali. Il suo ideologo e promotore fu Toni Negri, che era stato tra i fondatori e i dirigenti della formazione della sinistra extra-parlamentare Potere Operaio.

Diversi gruppi di detenuti provenienti dalle numerose tendenze della lotta armata furono sollecitati dal potere, via l’autorità giudiziaria (in particolare i magistrati incaricati dell’inchiesta penale nei confronti dei prigionieri politici), all’abiura collettiva.

Per uscire dal cercare speciale, e non passarci il resto o gran parte della loro vita, fu posta loro come condizione di rinnegare non solo della lotta armata, ma anche qualsiasi forma di uso della violenza (per esempio, i picchetti durante gli scioperi nelle fabbriche, o il blocco stradale) nel conflitto sociale.

L’elogio dell’oblio

Soprattutto, quelli che aderivano a questo movimento di dissociazione dovevano accettare di riconoscersi nello statuto di «terroristi» e pentirsene, compiere il loro autodafé in un atto ufficiale.

Si trattava così, e attraverso questa formulazione sintetica, di ridurre il decennio 1970 a un’oscura stagione di «terrorismo» – i cosiddetti «anni di piombo» – cancellandone le svariate e diffuse manifestazioni dell’insubordinazione delle classi subalterne, che ne avevano invece caratterizzato gli avvenimenti.

Perché l’evocazione sinistra degli «anni di piombo» doveva sostituirsi, nell’immaginario dell’opinione e per la posterità, all’antagonismo delle masse, alla rivolta, anche violenta, contro l’ordine costituito. E cancellandone dalla memoria quella sua sublime bellezza che si esprime talora con la lotta, in cui la sospensione del potere deriva nella festa popolare.

L’ingiunzione statuale non ammise repliche.

Il messaggio dello storytelling era chiaro e suonava così nei cupi avvertimenti ai «reprobi»:

Ricordatevi, come un monito terribile, delle vittime del «terrorismo» e del sangue sparso dalle sua bande e dimenticate Valle Giulia, Corso Traiano, Battipaglia, Castel Volturno...

Dimenticate milioni di ore di scioperi selvaggi, i cortei interni, i picchetti duri contro i crumiri, i bulloni lanciati contro i capi-reparto nelle grandi concentrazioni operaie, le sommosse dei braccianti meridionali, gli atenei occupati e la chiusura, da parte dei giovani proletari, dei centri del lavoro nero nelle periferie delle agglomerazioni urbane.

Soprattutto, dimenticate la strage di Piazza Fontana e quelle dell’Italicus e di Bologna, i morti di Avola e la defenestrazione di Pinelli, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese e le squadre speciali del ministero degli Interni che agivano fuori gerarchia durante le manifestazioni di piazza, come nel giorno dell’assassinio di Giorgiana Masi, il 12 maggio 1977 a Roma.

Dimenticate le esecuzioni extra-giudiziarie di Mara Cagol e dei quattro militanti delle Brigate Rosse, uccisi nel sonno a via Fracchia dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il 28 marzo 1980 a Genova.

Perché, come diceva Franz Fanon, «parlare del passato... è un’arma di giustizia» contro l’impunità, e quella del potere deve essere salvaguardata.

Allora bisogna dimenticare, perché la storia ufficiale è rimozione di fatti e la memoria degli anni dell’antagonismo devono far posto alla vulgata del potere, abitata da terroristi pentiti e allo sbando.

L’assassinio della memoria intrinseco al discorso statuale assegnato ai dissociati si traduceva, nella migliore delle ipotesi, nella separazione delle lotte da coloro che se ne sarebbero fatti gli epigoni in forma violenta; mentre questa violenza era consustanziale alle lotte stesse, perché anti-statuale.

Nell’ipotesi più conseguente, si dovevano perciò riscrivere in toto i fatti, avviare un processo di manipolazione e revisione.

Riscrivere il tempo che fu

Il compito assegnato al «partito della dissociazione» era in questa prospettiva duplice: da una parte e nell’immediato, assestare il colpo decisivo a un movimento di lotta e ai suoi militanti più agguerriti, giunti nella fase calante per ragioni che tratteremo altrove; dall’altra, tramandare la versione della Storia dettata dai «vincitori»: gli anni ’70 non furono quelli delle lotte contro lo Stato e il padronato, ma quelli del «terrorismo».

Per questa ragione, il movimento della «dissociazione» è eminentemente politico e trascende se stesso: aldilà dei suoi protagonisti, promotori ed esecutori – per non parlare di quelli che ne furono discriminati e ne subirono le conseguenze sul piano penale – la sua portata è inscritta in una strategia più ampia che va aldilà di quegli anni.

Se il suo contributo è stato importante per lo Stato, perché gli ha permesso di voltare la pagina della guerra civile di bassa intensità del decennio precedente, esso fa parte di un dispositivo classico di coercizione e di dissuasione utilizzato dal potere, ovviamente lungi dall’essere fenomeno peculiare dell’Italia, e dell’Italia del periodo a cui facciamo riferimento.

La «dissociazione» è la narrazione del potere, la sua revisione della storia fattuale. La formulazione discorsiva di cui si serve la classe dirigente per riscrivere il passato e nasconderne le cause profonde soggiancenti alla crisi trascorsa, una crisi del rapporto capitale / lavoro e classe / Stato, che aveva minacciato le fondamenta del comando capitalista e del suo apparato istituzionale.

L’assassinio della memoria è il presupposto del «racconto» del potere, seguendo un metodo oggi applicato con costanza e con un alto grado di sofisticazione nelle crisi principali che attraversano il mondo.

Per tornare al caso della Palestina, l’atto di resistenza del 7 ottobre 2023 non è stato catalogato come un «pogrom», per occultare l’infamia originaria della costituzione coloniale dello Stato d’Israele e la Nakba, l’epurazione etnica della popolazione palestinese? E in quello della Repubblica democratica del Congo (RDC), la lotta di liberazione del Movimento del 23 marzo (M23) contro il regime etnocida di Kinshasa non è completamente travisata in una narrazione, fabbricata in Occidente, in cui la ribellione è presentata come una manipolazione di un altro paese africano, il Ruanda ?

La messa in scena mediatica, comunicazionale e diplomatica dei fatti, secondo le versioni ufficiali veicolate dai detentori del potere, si manifesta sempre di più in quanto arma di guerra e di distruzione, sotto tutte le latitudini, non solo delle lotte contro l’oppressione, ma soprattutto della loro memoria storica. Condizione, quest’ultima, necessaria per impedire una possibile nuova insorgenza delle prime.

Riscoprire le culture subalterne

Per quello che riguarda l’Italia e il fenomeno della «dissociazione», la funzione di quest’ultima è stata e resta quella di fare tabula rasa nell’immaginario popolare del ricordo della sovversione sociale, più che l’annichilimento di quelli che furono, se si vuole, i suoi epifenomeni (absit iniuria verbis...).

Perché, e senza assolutamente sottovalutare il ruolo importante che i militanti rivoluzionari hanno giocato per oltre dieci anni, questi ultimi non sarebbero esistiti in quanto tali senza la vasta esplosione delle classi sfruttate.

In sintesi se ne evince che nella trasmissione della conoscenza storica da parte del potere, la definizione/trasmissione artefatta degli eventi che sottintendono la crisi è, in ultima istanza, prioritaria rispetto a quella dei suoi protagonisti. Il loro ruolo è secondario rispetto alle modalità di presentazione degli avvenimenti.

Sono questi ultimi che vanno riadattati, riformulati, o addirittura misconosciuti nella narrazione ufficiale. È questa la regola applicata da quando l’Occidente produce la storia, l’arma di manipolazione di massa con cui la sua doxa s’impone come dominazione del mondo.

Ed è sul crinale che separa lo storytelling ufficiale, in quanto opera di persuasione e di organizzazione del consenso, dalle memorie popolari, che Antonio Gramsci sottolineava lo scarto tra le «credenze» delle culture subalterne e quelle delle culture dominanti. E l’urgenza di assumere questo scarto come terreno di scontro nella lotta per l’emancipazione delle classi dominate.

La «dissociazione» non è e non è stata mero processo giudiziario, ma episteme della realtà imposta con un autodafé collettivo, spettacolo del riscatto simbolico dei vinti che dalla terra del rimorso dovevano approdare a quella del perdono... La miseria sua e dei suoi epigoni è tutta in questa sorta di scambio ineguale, in cui la catarsi accordata dallo Stato esigeva, ed esige ancor oggi – a causa della sedimentazione di un’ideologia appropriata – l’apporto alla ricostruzione storica di parte dettata dai «vincitori»... quelli che avevano sconfitto il «terrorismo».

Noi siamo qui sul terreno della battaglia culturale. Una battaglia di decisiva importanza per la sopravvivenza e la riabilitazione delle culture popolari minacciate di estinzione dal Leviatano imperiale euro-atlantico.

Combattere contro la trasmissione deviante della Storia che si manifesta nella narrazione statuale e decostruire il discorso ufficiale è opera indispensabile di resistenza della memoria collettiva «autoctona» delle classi popolari.

Essa è alla base del permanere o meno di un’ostinata identità alternativa al comando del capitale, della sua macchina statuale e del suo apparato ideologico.

La memoria alimenta l’immaginario delle genti: tramandare il ricordo cupo di «anni di piombo» è ben altra cosa che rinviare le menti a una lunga stagione di lotte in cui le masse furono l’attore pubblico, protagonista dello spazio sociale e politico.

Fonte

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