Ebbene sì, c’è stato un tempo in cui le piramidi non erano ancora state
erette, il Colosseo neanche concepito. E nella musica, incredibile a
dirsi, "Abraxas" non esisteva ancora. Ma come le grandi opere che
sfidano il tempo, quando finalmente apparve, sembrò essere sempre stato
lì, inevitabile, perfetto nella sua esistenza. Già la sua copertina,
un'allucinazione mistica dipinta da Mati Klarwein, lo consacrava come
qualcosa di più di un semplice album: un talismano sonoro, un'opera che,
come un'antica annunciazione, non si limita a mostrarsi, ma indica un
mondo sospeso tra sogno e rivelazione. Il suo titolo enigmatico evoca
una divinità arcaica, custode dell'eterno equilibrio tra bene e male,
luce e ombra, creazione e distruzione. Eppure, la musica non è mai
lotta, mai caos incontrollato. Non c'è eccesso, non c'è ostentazione:
solo respiro, fluidità, un'armonia perfetta tra opposti. La fusione tra
rock, blues e ritmi latini, appena sussurrata nell'album di esordio, qui si compie, si svela nella sua forma migliore.
Diventa
quasi superfluo parlare di alcuni brani: "Oye Como Va", "Samba Pa
Ti"... sono ovunque, incisi nella memoria collettiva, riecheggiano nelle
pubblicità, nel cinema nelle radio... li conoscono tutti, anche senza
sapere chi li abbia suonati. Ma prima di "Abraxas", chi aveva mai fatto
musica così? "Oye Como Va" è, in effetti, una cover di un brano scritto
da Tito Puente una decina d'anni prima, ma i Santana
non si limitano a reinterpretarlo: lo trasfigurano. L'originale di
Puente è un cha-cha-cha orchestrale, elegante e sincopato, radicato
nella tradizione cubana. Nella versione della band americana, il ritmo
si fa più viscerale, la linea di basso pulsa con una spinta quasi funk,
la chitarra si insinua con brevi frasi taglienti. Il risultato non è più
solo latino, né solo rock: è qualcos'altro, una nuova creatura sonora
che scivola fuori dalle categorie.
"Samba Pa Ti" rappresenta il lato più lirico e sognante di Carlos Santana. Qui il chitarrista si allontana dal fraseggio serrato e virtuosistico dei suoi contemporanei, come Eric Clapton o Jimmy Page, e sceglie invece la via dell'espressività assoluta, avvicinandosi più a B.B. King o a Peter Green
per il peso che dà a ogni nota. Non c'è velocità, non c'è sfoggio
tecnico: la chitarra non si impone, ma si lascia trasportare, con un
vibrato ampio e passionale che avvolge il blues in un languore
tropicale, caldo e un po' nostalgico. Incredibile a dirsi, visto il
grado di preponderanza che ormai stava assumendo Carlos nel gruppo,
"Samba Pa Ti" è l'unica traccia che porta la sua firma, insieme a
"Incident At Neshabur", un altro brano strumentale scritto insieme al
pianista Alberto Gianquinto. La traccia, venata da un'influenza jazz
evidente, si sviluppa come un flusso ininterrotto di tensioni e
risoluzioni, alternando momenti di sospensione armonica a improvvise
impennate ritmiche. Il finale, poi, è un'apoteosi di interplay
con un dialogo superbo tra la chitarra elettrica e il pianoforte, in cui
i due virtuosi si rincorrono, si sfidano e infine si fondono.
Tocca
a un altro brano strumentale, "Singing Winds, Crying Beasts",
introdurre l'album. Si tratta di un preludio dalle atmosfere molto
rarefatte con campanelli eolici e percussioni che pulsano in lontananza
come un battito primordiale, mentre l'Hammond di Gregg Rolie stende un
velo onirico, quasi psichedelico, sulle note sparse della chitarra di
Santana. È un varco perfetto per preparare l'ascoltatore a "Black Magic
Woman/Gypsy Queen". Scelto come uno dei singoli trainanti dell'album,
insieme alle due hit già citate e a "Hope You're Feeling Better", la
prima sezione, cover dell'omonimo brano di Peter Green,
divenne uno dei brani simbolo dei Santana, tanto che in molti lo
credono un pezzo originale. In un'intervista, il chitarrista inglese
raccontò di aver assistito a un loro concerto e di essersi reso conto
solo allora di quanto il suo brano fosse stato trasformato: in mano ai Fleetwood Mac
era un blues spettrale, sussurrato, con un'aura malinconica. I Santana
lo riplasmano completamente con le percussioni latine che si intrecciano
con le vibrazioni del rock che diventano sempre più incalzanti nella
transizione verso "Gypsy Queen" (composta da Gabor Szabo) fino a esplodere nel travolgente assolo delle percussioni in un tappeto elettrificato di chitarre.
Quanto a "Hope You're Feeling Better", è il brano che più si avvicina al rock "duro" dell'epoca. Qui Santana e la sua band si immergono in sonorità più vicine a Deep Purple e Led Zeppelin: un riff di chitarra granitico, un organo Hammond che si fa aggressivo e una voce che incalza con una veemenza quasi rabbiosa. Di un'energia diversa, ma altrettanto travolgente, è "Se A Cabo", firmata dal percussionista José "Chepito" Areas. Qui il ritmo è ovviamente il vero protagonista: un'esplosione di percussioni frenetiche su cui Santana si muove con la sua chitarra affilata. "Mother's Daughter" riporta l'album su un territorio più vicino al blues-rock, mentre la chiusura è affidata alla brevissima "El Nicoya", un pezzo sui generis, dai ritmi caraibici e dallo spirito leggero, quasi una ghost track. Una scelta spiazzante per concludere un album monumentale, che ancora oggi vibra con la stessa forza primordiale, inafferrabile, indefinibile e al di fuori del tempo come la divinità da cui prende il nome.
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