Pubblichiamo la seconda parte della intervista concessa alla rivista Utopia21 (l’integrale potete leggerla qui) che dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e direttore del quotidiano Liberazione, autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’impostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. Chi volesse leggere la prima parte può trovarla qui.
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Un capitolo a sé lo merita il lavoro dell’ex senatore Sergio Flamigni, membro delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, che tra i suoi libri ne ha dedicato uno in particolare a Mario Moretti dal titolo più che eloquente «La sfinge delle Brigate rosse». Nel libro sei molti critico, per usare un eufemismo, verso il suo lavoro: perché?
Flamigni era un grigio funzionario della sezione Affari dello Stato del Pci, il ministero dell’Interno di Botteghe oscure. Privo di qualunque latitudine politica è rimasto ottusamente legato alla vecchia propaganda complottista elaborata dal suo partito a metà degli anni '80 per trovare un alibi al fallimento completo della strategia politica messa in piedi nella seconda metà degli anni '70. Quando Ugo Pecchioli, responsabile di quella struttura, in una delle sue ultime prese di posizione, prima di morire, a metà degli anni '90, affermò che ormai era necessaria un’amnistia che chiudesse la pagina della lotta armata perché quel fenomeno aveva concluso il suo ciclo e non aveva più senso tenere in piedi l’apparato di contrasto ideologico-complottista, Flamigni – come accade spesso alle terze linee – non è stato in grado di riformattare il proprio pensiero e dare un senso più proficuo alla propria vita. Il vecchio apparatčik della disinformazione ha continuato il proprio lavoro di intossicazione elaborando, grazie al monopolio delle fonti all’epoca nelle mani solo degli apparati, della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentare con il loro circo Barnum di consulenti, un metodo narrativo che avrebbe fatto rabbrividire persino l’Ovra fascista: ignorare i documenti scomodi, manipolarne altri, inventare menzogne, diffondere calunnie. I suoi libri sono una compilazione di questa tecnica disinformativa che nel tempo rivela anche aspetti divertenti: come la riduzione a poche righe o la scomparsa delle pagine dedicate a ricostruzioni che successivamente si sono dimostrate false. Mai una riflessione autocritica o una presa d’atto delle clamorose bufale diffuse in precedenza. Cito alcuni esempi: Flamigni ignora il verbale del 1994 nel quale il teste Alessandro Marini, quello che racconta della moto Honda, spiegava che il parabrezza del suo motorino si era rotto cadendo a terra nei giorni precedenti il sedici marzo e quindi non era vero che fosse stato distrutto dagli spari dei due fantasmi in motocicletta. Mentre si ostina a cercare lo sparatore da destra, non vede le numerose foto del motorino di Marini, parcheggiato sul marciapiede sinistro di via Fani, col parabrezza tenuto insieme da una vistosa striscia di nastro adesivo. Cita ripetutamente una frase di D’Ambrosio, generale amico del colonnello Guglielmi, per insinuare che questi avesse coordinato l’attacco in via Fani, omettendo l’integrità del verbale d’interrogatorio, acquisito finalmente dalla Commissione Moro 2, che smentisce completamente le sue affermazioni. Per anni confonde il ruolo di un notaio che aveva svolto solo la funzione di sindaco supplente, dunque nemmeno effettivo, nella società immobiliare Gradoli proprietaria di alcuni appartamenti, ma non di quello abitato dai brigatisti, con quello di amministratore della stessa società. Quando glielo hanno spiegato ha cambiato obiettivo prendendo di mira Domenico Catracchia, l’amministratore del civico 96, piccolo imprenditore immobiliare privo di scrupoli che affittava seminterrati a stranieri clandestini. Ossessionato dalla presenza di un quarto uomo in via Montalcini, informazione ricevuta durante i colloqui con due brigatisti dissociati, quando emergerà che la sua identità era quella del brigatista Germano Maccari, e non di un «misterioso» agente segreto, sosterrà che ve n’era per forza un quinto, non delle Br ovviamente. Passa al setaccio tutti i proprietari degli appartamenti situati nelle strade che hanno interessato il sequestro, per denunciare i loro nomi quando si tratta di persone ai suoi occhi sospette, ma dimentica di rivelare che accanto al civico 8 di via Montalcini abitava il senatore Giuseppe D’Alema, padre di Massimo. Calunnia Balzerani e Moretti, sostenendo che sono loro ad aver fatto il nome di Maccari, evitando di citare la confessione della Faranda. E mi fermo qui!
Qual è il tuo giudizio sul Memoriale Morucci-Faranda, detto che seppur la loro collaborazione mirava ad ottenere degli sconti di pena e una più agevole collocazione penitenziaria, al contempo «ripudiavano le letture dietrologiche degli eventi».
Parliamo di un Memoriale che raccoglie le deposizioni di Valerio Morucci e Adriana Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani, prima indicati solo con dei numeri. Secondo Flamigni, poi ripreso dalla Commissione Moro 2, si tratterebbe di un testo che avrebbe suggellato un patto di omertà tra brigatisti e Democrazia cristiana per nascondere, «tombare» secondo l’espressione di Giuseppe Fioroni, la verità indicibile sul sequestro. Si tratta nella realtà di un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista. Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del Memoriale Morucci-Faranda vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono. Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo, oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano, mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali. Inesistenti i rapporti tra loro, segnati dalle precedenti rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della Colonna romana) e ostilità per le scelte dissociative e collaborative. Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze? Un abisso logico senza risposta. In un altro volume ho ricostruito la dinamica del sequestro e della via di fuga avvalendomi delle testimonianze degli altri partecipanti che in alcuni punti hanno persino corretto dei dettagli, dovuti ad errori di memoria, presenti nella ricostruzione di Morucci.
Alberto Franceschini dopo la sua cattura, avvenuta a Pinerolo nel 1974, ha detto che successivamente le Br si sono macchiate di numerosi delitti, oltre ad aver giudicato Mario Moretti di essere inadeguato a far parte dell’esecutivo nazionale delle Br. Da dove nasce il dissidio tra Franceschini e Moretti?
La figura del rinnegato è un classico antropologico nella storia dell’umanità. La differenza che lo distingue da colui che ripensa in modo critico il proprio passato, fino anche a ripudiarlo, sta nella attribuzione delle responsabilità, nella collocazione del proprio io all’interno del bilancio esistenziale. Il rinnegato fa l’autocritica degli altri, esime se stesso da ogni colpa e trova nell’altrui comportamento tutte le responsabilità. Punti chiave nella vita di Franceschini sono il momento della sua cattura e le ripetute fallite evasioni. Viene arrestato per caso, non doveva stare con Curcio a Pinerolo dove il generale Dalla Chiesa aveva teso una trappola con l’esca Girotto, eppure attribuisce la responsabilità dell’accaduto a Moretti. Va detto che un ruolo centrale nella costruzione delle leggenda nera su Moretti la gioca Giorgio Semeria. Arrestato una prima volta nel maggio del '72, seguendo lui i carabinieri realizzano la retata contro l’intera colonna milanese. Riarrestato e quasi ucciso da un carabiniere nel marzo del 1976 alla stazione centrale di Milano, grazie all’attività di un confidente, Leonio Bozzato, operaio dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera arruolato nella colonna veneta, Semeria una volta in carcere sostiene che dietro il suo arresto e quelli precedenti di Franceschini e Curcio ci fosse sempre Moretti. Quella di Semeria, chiamato «Fiaschetta» dai suoi compagni, è una ossessione costante con cui martella gli altri prigionieri fino a convincerli, tanto da spingerli a chiedere all’esecutivo esterno di verificare la posizione di Moretti. C’è poco di politico e tanto male di vivere nella costruzione di questa diffidenza che si sfalderà poi nel tempo. Franceschini e Semeria si dissoceranno uscendo dal carcere, mentre Moretti è ancora in esecuzione pena dopo 44 anni di detenzione. Ma veniamo agli argomenti sollevati ex-post da Franceschini dopo essersi dissociato ed essere stato riaccolto a braccia aperte dal vecchio Pci emiliano, Rino Serri in testa, ex segretario della Fgci dalla quale egli stesso proveniva. È con questa nuova funzione che inizia la sua collaborazione con Flamigni. Nel corso del sequestro Sossi, dopo aver forzato un posto di blocco, spara colpi di mitra contro una macchina che seguiva, senza accorgersi che al suo interno c’era Mara Cagol. L’episodio dimostra come personalmente fosse già pronto al conflitto a fuoco e ipoteticamente a uccidere nonostante le Br all’epoca fossero ancora lontane da una scelta del genere. È tra i militanti che scelgono il passaggio alla clandestinità ed è presente quando nell’estate del 1974 si avvia la discussione interna per creare quella nuova struttura organizzativa che poi caratterizzerà il funzionamento delle Br negli anni successivi. Dal carcere si distinguerà per i continui inviti a elevare il livello di scontro all’esterno e chiedere di organizzare evasioni. Richieste che distoglieranno le colonne esterne dal lavoro politico nei posti di lavoro e nei territori. E quanto i tentativi di evasione falliranno, come quello messo in piedi dalla colonna romana dall’isola dell’Asinara, dopo averci lavorato una intera estate, imputerà il fallimento a una mancata volontà politica radicalizzando sempre più le sue posizioni fino a formulare, dopo un durissimo pestaggio subito a Nuoro, richieste di rappresaglia che mettevano in luce un suo squilibrio mentale, come affondare uno dei traghetti che collegavano la Sardegna al continente. Figura instabile e sempre più carica di risentimento, alla ricerca continua di capri espiatori fece del sospetto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati. Con Semeria decretò la caccia ai «traditori», ovvero a quei militanti ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò lo stesso Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Flamigni non avrebbe potuto scegliersi miglior collaboratore.
Infine, ha destato una certa sorpresa il giudizio assai tranciante di Dino Greco su Rossana Rossanda, accusata rispetto alla sua intervista a Mario Moretti con Carla Mosca di aver costruito un artefatto, rimanendo affascinata dalla figura tutt’altro che cristallina di Mario Moretti. Cosa pensi di questo perentorio giudizio?
Dino Greco contro Rossana Rossanda? Con tutto il rispetto per il mio ex direttore, abbandonerei qualunque idea di confronto tra i due. Capisco che a un «berlingueriano immaginario», come Greco, bruci il giudizio storico di una intellettuale comunista dello spessore di Rossanda. Dico berlingueriano immaginario perché quando lavoravo a Liberazione ne ho visti circolare diversi tipi: quelli che all’epoca erano ancora in fasce e Berlinguer lo hanno conosciuto attraverso l’iconografia postuma, e quelli che negli anni '70-'80 erano su altre posizioni politiche ben più estreme, per non dire extraparlamentari. Si trattava dunque di una singolare fascinazione postuma, una reinvenzione del personaggio che si suddivideva in due categorie: i nostalgici del compromesso storico, raffigurati nel recente film di Segre, e quelli che assolutizzavano la svolta dell’alternativa democratica: il Berlinguer dei cancelli alla Fiat e della questione morale, per intenderci. Greco all’epoca era tra i secondi, ma oggi mi pare sia ritornato sui suoi passi. A differenza di lui, Rossanda non ha realizzato una compilazione selezionata di pubblicazioni dietrologiche ma, come si diceva una volta, ha fatto l’inchiesta. È andata ai processi, ha letto le carte, ha fatto verifiche, ha incontrato i mostruosi brigatisti, ci ha discusso, si è confrontata. Ha sentito tante voci, persone e studiosi che la realtà delle fabbriche del Nord o della periferia romana conoscevano davvero. Un percorso lungo, maturato nel tempo modificando i pregiudizi ideologici iniziali che ha poi messo da parte. Una conoscenza che le ha permesso di superare anche il giudizio che espresse nel famoso articolo sull’album di famiglia, dove pur riconoscendo la filiazione delle Brigate rosse con la storia del movimento comunista, le rappresentava erroneamente come epigoni dello zdanovismo cominformista e non parte della nuova sinistra post-'68. Trascinata dalla polemica con le posizioni di Botteghe oscure rinfacciava al Pci una paternità che invece, sul piano sociologico, politico e culturale, era tutta dentro la storia di quel che era accaduto a cavallo dei decenni '60-'70. Dubito che Greco abbia mai letto un documento primario, una carta processuale. Cita la terza relazione della Moro 2 che riassume i lavori del 2017 (la Moro 2 non ha mai prodotto una relazione conclusiva) ma non credo abbia mai letto le relazioni del Ris sul garage di via Montalcini, le analisi splatter sulle macchie di sangue o la perizia acustica. Avrebbe scoperto che i carabinieri riconoscono la compatibilità del luogo e della dinamica, fino ad aver ricostruito la fattezza originaria del box, oggi modificato e ristretto a seguito di alcuni lavori. Per non parlare della nuova perizia tridimensionale della polizia scientifica che tanto ha mandato fuori di testa Flamigni e i membri più dietrologi della commissione parlamentare. La ricerca e la riflessione storica sono altra cosa dalla difesa di una posizione politica, per giunta smentita dalla storia.
2/fine
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