La testata giornalistica The Hill, praticamente l’ufficio stampa del Partito Democratico, ora ammette candidamente quello che finora era tabù.
Sono passati appena due mesi dall’insediamento di Donald Trump e, dopo un primo momento in cui la critica al tycoon ha seguito la strada della fallimentare campagna elettorale per le presidenziali, ora cominciano ad apparire ragionamenti meno fissati al passato.
Che il presidente-bis sia un essere spregevole è cosa nota (c’è ormai persino un film impietoso sulla sua “formazione” – The Apprentice –), ma ripetere all’infinito la lista di insulti (meritatissimi) non fa avanzare di un passo la presa d’atto di essere entrati in una nuova fase della politica Usa e quindi del mondo.
A parte i “democratici dei quartieri alti” amici di “Rambini”, che stanno preparando i bagagli per destinazioni più consone alle proprie abitudini (ultima ad annunciarlo, Taylor Swift), anche ai più conservatori (in genere “neocon”) tra i membri dell’establishment appare ormai indispensabile tirare una riga e chiedersi perché tutto sia andato storto.
L’analisi basilare fornita da Alan J. Kuperman – docente di strategia militare e gestione dei conflitti – è semplice ma impietosa: i democrats e l’intero establishment ha sbagliato tutto. In primo luogo a puntare sulla guerra dell’Ucraina contro la Russia nella speranza di far disgregare il vecchio “orso”.
Naturalmente da un analista geostrategico non ci possiamo attendere che prenda in considerazione la crisi economica, lo svuotamento del ruolo dello Stato nella gestione dell’economia, le delocalizzazioni, e quindi le basi strutturali della “crisi di egemonia” che gli Usa stanno affrontando da almeno due decenni. Senza trovare una soluzione, peraltro…
Ma anche da un punto di vista più “specialistico” e ristretto la diagnosi è tombale: la guerra in Ucraina è una responsabilità di Biden (e Obama), che fin dal 2014 diedero un placet all’offensiva dei neonazisti che portò al “majdan” e alla strage nella Casa dei Sindacati, ad Odessa, e quindi al “cambio di regime” rispetto ai risultati elettorali di qualche mese prima.
Più in generale, par di capire (anche se non viene detto esplicitamente), è la strategia Usa del dopo-1989 ad essere responsabile, con il continuo allargamento ad est della Nato, di aver creato una “minaccia esistenziale” per la Russia inducendola ad una reazione durissima.
Ma evitabile, dice Kuperman. La prova? La situazione sul terreno e le stesse prime indiscrezioni sui contenuti della “trattativa” in corso in Arabia Saudita portano ad uno scenario post-bellico che è esattamente quello che Mosca chiedeva di costruire prima della guerra. A che pro, dunque, affrontare tre anni di guerra durissima, centinaia di miglia di morti, milioni di profughi che difficilmente torneranno indietro (per i più diversi motivi)?
Tutti gli obiettivi “irrinunciabili” – sia da punto di vista del governo di Kiev che da quello dell'“Occidente collettivo” – non possono più essere raggiunti e dunque bisogna rinunciarvi. L’unica cosa in più è la rovina completa dell’Ucraina e l’ennesimo tradimento statunitense nei confronti di un “alleato” (peraltro impresentabile come “campione di democrazia”). La strada per l’autocritica “dem” è solo all’inizio e sarà lunghissima. Non è detto che la Storia le concederà tutto il tempo di cui avrebbe bisogno.
Da una crisi di egemonia non si esce con un colpo di teatro.
Ecco la traduzione integrale dell’articolo di The Hill pubblicato il 18 marzo.
Sono passati appena due mesi dall’insediamento di Donald Trump e, dopo un primo momento in cui la critica al tycoon ha seguito la strada della fallimentare campagna elettorale per le presidenziali, ora cominciano ad apparire ragionamenti meno fissati al passato.
Che il presidente-bis sia un essere spregevole è cosa nota (c’è ormai persino un film impietoso sulla sua “formazione” – The Apprentice –), ma ripetere all’infinito la lista di insulti (meritatissimi) non fa avanzare di un passo la presa d’atto di essere entrati in una nuova fase della politica Usa e quindi del mondo.
A parte i “democratici dei quartieri alti” amici di “Rambini”, che stanno preparando i bagagli per destinazioni più consone alle proprie abitudini (ultima ad annunciarlo, Taylor Swift), anche ai più conservatori (in genere “neocon”) tra i membri dell’establishment appare ormai indispensabile tirare una riga e chiedersi perché tutto sia andato storto.
L’analisi basilare fornita da Alan J. Kuperman – docente di strategia militare e gestione dei conflitti – è semplice ma impietosa: i democrats e l’intero establishment ha sbagliato tutto. In primo luogo a puntare sulla guerra dell’Ucraina contro la Russia nella speranza di far disgregare il vecchio “orso”.
Naturalmente da un analista geostrategico non ci possiamo attendere che prenda in considerazione la crisi economica, lo svuotamento del ruolo dello Stato nella gestione dell’economia, le delocalizzazioni, e quindi le basi strutturali della “crisi di egemonia” che gli Usa stanno affrontando da almeno due decenni. Senza trovare una soluzione, peraltro…
Ma anche da un punto di vista più “specialistico” e ristretto la diagnosi è tombale: la guerra in Ucraina è una responsabilità di Biden (e Obama), che fin dal 2014 diedero un placet all’offensiva dei neonazisti che portò al “majdan” e alla strage nella Casa dei Sindacati, ad Odessa, e quindi al “cambio di regime” rispetto ai risultati elettorali di qualche mese prima.
Più in generale, par di capire (anche se non viene detto esplicitamente), è la strategia Usa del dopo-1989 ad essere responsabile, con il continuo allargamento ad est della Nato, di aver creato una “minaccia esistenziale” per la Russia inducendola ad una reazione durissima.
Ma evitabile, dice Kuperman. La prova? La situazione sul terreno e le stesse prime indiscrezioni sui contenuti della “trattativa” in corso in Arabia Saudita portano ad uno scenario post-bellico che è esattamente quello che Mosca chiedeva di costruire prima della guerra. A che pro, dunque, affrontare tre anni di guerra durissima, centinaia di miglia di morti, milioni di profughi che difficilmente torneranno indietro (per i più diversi motivi)?
Tutti gli obiettivi “irrinunciabili” – sia da punto di vista del governo di Kiev che da quello dell'“Occidente collettivo” – non possono più essere raggiunti e dunque bisogna rinunciarvi. L’unica cosa in più è la rovina completa dell’Ucraina e l’ennesimo tradimento statunitense nei confronti di un “alleato” (peraltro impresentabile come “campione di democrazia”). La strada per l’autocritica “dem” è solo all’inizio e sarà lunghissima. Non è detto che la Storia le concederà tutto il tempo di cui avrebbe bisogno.
Da una crisi di egemonia non si esce con un colpo di teatro.
Ecco la traduzione integrale dell’articolo di The Hill pubblicato il 18 marzo.
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Raramente sono d’accordo con il presidente Trump, ma le sue ultime dichiarazioni controverse sull’Ucraina sono in gran parte vere. Appaiono assurde solo perché il pubblico occidentale è stato nutrito per oltre un decennio con una dose costante di disinformazione sull’Ucraina. È ora di fare chiarezza su 3 punti chiave che spiegano perché gli ucraini e l’ex presidente Joe Biden – non solo il presidente russo Vladimir Putin – abbiano una significativa responsabilità per lo scoppio e la perpetuazione della guerra in Ucraina.
Innanzitutto, come documentato da prove forensi schiaccianti, e confermato anche da un tribunale di Kiev, furono i militanti nazisti ucraini a iniziare le violenze nel 2014, provocando l’invasione iniziale della Russia nel sud-est del paese, inclusa la Crimea. All’epoca, l’Ucraina aveva un presidente filo-russo, Viktor Yanukovych, eletto liberamente nel 2010 con il forte sostegno della minoranza russa nel sud-est del paese.
Nel 2013, Yanukovych decise di perseguire una cooperazione economica con la Russia anziché con l’Europa, come precedentemente pianificato. I filo-occidentali risposero con occupazioni pacifiche della piazza Maidan e degli uffici governativi, fino a quando il presidente offrì sostanziali concessioni a metà febbraio 2014, dopo le quali i manifestanti si ritirarono.
Tuttavia, proprio in quel momento, i militanti di destra iniziarono a sparare sulla polizia ucraina e sui manifestanti rimasti. La polizia rispose al fuoco, e i militanti sostennero falsamente che erano stati uccisi manifestanti disarmati. Indignati da questo presunto massacro governativo, gli ucraini si riversarono nella capitale e costrinsero il presidente alla fuga.
Putin rispose inviando truppe in Crimea e armi nel Donbass, a sostegno dei russofoni che ritenevano che il loro presidente fosse stato destituito in modo antidemocratico. Questa premessa non giustifica l’invasione russa, ma spiega che non fu del tutto “non provocata”.
In secondo luogo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha contribuito a un’escalation della guerra violando gli accordi di pace con la Russia e cercando aiuti militari e l’adesione alla NATO. Gli accordi di Minsk 1 e 2, negoziati dal suo predecessore Petro Poroshenko nel 2014 e 2015, prevedevano l’autonomia politica del Donbass entro la fine del 2015, una misura che Putin riteneva sufficiente per impedire all’Ucraina di unirsi alla NATO o diventare una sua base militare. Tuttavia, l’Ucraina rifiutò per 7 anni di rispettare tale impegno.
Zelensky, durante la campagna elettorale del 2019, promise di implementare gli accordi per prevenire ulteriori conflitti. Ma una volta eletto, fece marcia indietro, apparentemente meno preoccupato del rischio di una guerra piuttosto che apparire debole nei confronti della Russia. Aumentò invece le importazioni di armi dai paesi NATO, cosa che rappresentò l’ultima goccia per Putin. Il 21 febbraio 2022, la Russia riconobbe l’indipendenza del Donbass, vi schierò truppe per “mantenere la pace” e chiese a Zelensky di rinunciare alla NATO. Al suo rifiuto, Putin lanciò un’offensiva militare su larga scala il 24 febbraio.
In terzo luogo, anche Joe Biden ha contribuito in modo cruciale all’escalation del conflitto. Alla fine del 2021, quando Putin mobilitò le truppe al confine ucraino e chiese il rispetto degli accordi di Minsk, era evidente che, senza concessioni da parte di Zelensky, la Russia avrebbe invaso per creare almeno un corridoio tra Donbas e Crimea. Biden, invece di insistere perché Zelensky accettasse le richieste di Putin, lasciò la decisione al leader ucraino, promettendo una risposta “rapida e decisiva” in caso di invasione. Questa promessa fu interpretata da Zelensky come un via libera per sfidare Putin.
Se Trump fosse stato presidente, probabilmente non avrebbe concesso un assegno in bianco a Zelensky, costringendolo a rispettare gli accordi di Minsk per evitare la guerra. Inoltre, Trump non avrebbe concesso all’Ucraina un veto sulle trattative di pace, come invece ha fatto Biden, alimentando in Zelensky false speranze di un sostegno militare decisivo da parte degli Stati Uniti, poi negato per timore di un’escalation nucleare.
I contorni di un accordo per porre fine alla guerra sono chiari: la Russia manterrà il controllo della Crimea e di parte del sud-est, mentre il resto dell’Ucraina non entrerà nella NATO ma riceverà garanzie di sicurezza da alcuni paesi occidentali. Purtroppo, un simile accordo avrebbe potuto essere raggiunto due anni fa se Biden avesse condizionato gli aiuti militari a un cessate il fuoco.
Invece, la guerra è proseguita, causando centinaia di migliaia di vittime e spostando le linee del fronte di meno dell’1% del territorio ucraino.
Qualunque accordo di pace emergerà dopo questa guerra sarà peggiore per l’Ucraina rispetto agli accordi di Minsk, che Zelensky ha abbandonato per ambizioni politiche e una ingenua fiducia in un sostegno statunitense senza limiti.
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