E per alcuni è più uguale che per altri. Per scoprirlo basta leggere il cosiddetto Joint White Paper for European Defence, appena pubblicato dalla Commissione Europea e dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La distruzione di vite umane e la violenza bruta sono l’aspetto più visibile e drammatico di un conflitto, di ogni conflitto, ma a fianco di ciò che accade alla luce del sole si agitano dinamiche più profonde, che contribuiscono a spiegare perché ciclicamente il vento del bellicismo più sguaiato torna a fare mostra di sé. È notizia di pochi giorni fa l’appello lanciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ad armarsi e partire, rimettendo (parzialmente) in discussione il dogma dell’austerità di bilancio per ‘riarmare l’Europa’. Adesso il White Paper permette di chiarire con più precisione i contorni di questa operazione e, soprattutto, di fare luce su quali interessi economici si muovano e soffino sul fuoco della guerra alle porte.
Il documento si apre facendo sfoggio di retorica di grana grossa – siamo circondati dalla minaccia rappresentata da Stati autoritari come Russia e Cina; c’è la prospettiva di un conflitto su larga scala all’orizzonte – e provando a convincere il lettore che il riarmo auspicato è negli interessi di tutta la popolazione europea, poiché il nostro stile di vita e le nostre prospettive di prosperità sono messe a repentaglio dall’incertezza causata dalla rottura dell’ordine internazionale e dalle minacce esterne.
Eppure, ci viene da dire, nello stesso White Paper si riconosce che la spesa europea in armamenti è molto aumentata nell’ultimo decennio. L’UE spende già oggi in termini assoluti molto più di quanto spenda la Russia. Secondo i dati del SIPRI, le prime cinque economie dell’UE per spesa militare (Germania, Francia, Italia, Polonia e Spagna) hanno speso da sole 220 miliardi nel 2023, il doppio di quanto ha speso la Russia.
Nel 2022, l’industria della difesa europea aveva un fatturato annuo di 135 miliardi (oltre 52 miliardi di esportazioni) ed è estremamente competitiva in settori specifici. Secondo il famigerato Rapporto Draghi, alcuni prodotti e tecnologie dell’UE sono superiori o equivalenti in termini di qualità a quelli prodotti dagli Stati Uniti in diversi settori, come i carri armati principali e i relativi sottosistemi, i sottomarini convenzionali e le armi da fuoco. E allora, ci viene da dire, è proprio necessario finanziare un riarmo su scala europea? Da dove viene questa insaziabile esigenza di risorse pubbliche?
Dopo poche pagine di preambolo si giunge al dunque. La questione è semplice, nella sua essenza: il grande capitale europeo rischia di entrare in sofferenza, schiacciato dalla competizione internazionale di giganti come la Cina – di cui si denuncia un approccio al commercio e al progresso tecnologico che cerca di raggiungere “la primazia e, in alcuni casi, la supremazia” – e gli Stati Uniti, che paiono non volerci più bene come un tempo. Allo stesso tempo, diventa di importanza cruciale riuscire a garantirsi un accesso stabile alle cosiddette materie prime critiche, fonte di conflittualità crescente tra potenze economiche.
Qual è la soluzione proposta? Provare a regalare miliardi di euro all’industria bellica europea, con la speranza che questo riesca a soddisfare la sete di profitto del padronato del nostro continente. La Commissione si impegna, infatti, a lanciare un “dialogo strategico” con le imprese del settore, per raccogliere i loro desiderata (p. 9) e provvedere, di conseguenza, a rimuovere ostacoli regolatori e garantire la concessione rapida di permessi per costruire fabbriche di morte chiudendo un occhio o forse due sull’impatto ambientale (“consentire il rapido rilascio delle autorizzazioni edilizie e ambientali per i progetti industriali di difesa come questione di interesse pubblico prioritario”).
L’industria bellica ha anche bisogno di certezze. Ecco, quindi, la priorità di garantirle preventivamente la certezza di un flusso di domanda di armamenti ed affini su di un orizzonte pluriennale (p. 5), così da minimizzare i rischi e permetterle di investire senza remore nell’ampliamento di capacità produttiva. Anche in questo caso, le parole usate dalla Commissione sono quanto di più eloquente: “l’aumento della capacità produttiva dipende dal fatto che le aziende abbiano un flusso costante di ordini pluriennali consistenti per orientare gli investimenti in linee di produzione aggiuntive” (p. 13), a segnalare la necessità di impegnare nel lungo periodo, tramite ordini distribuiti su più anni, risorse pubbliche destinate alle tasche del complesso industriale militare.
Si legge anche, tra le righe, una certa invidia per quei Paesi che hanno imboccato la strada dell’economia di guerra. In tale ottica si può leggere l’invito alla riconversione a fini di produzione bellica di filiere produttive strategiche per l’industria europea, tra cui l’automotive, che altrimenti sarebbero condannate ad un lento declino dalla prolungata stagnazione europea. La tabella di marcia è serrata: bisogna supportare e rinforzare – con soldi pubblici – la capacità di produrre armi, garantire all’industria della guerra forniture costanti di materiali critici, deregolamentare a tutto spiano e tagliare le normative vigenti, finanziare – con soldi pubblici – la ricerca e sviluppo del settore e cercare di attirare ‘talenti’ per convincerli a lavorare nella difesa. Serve infatti manodopera, da convogliare in questo settore per tenere il passo con la desiderata espansione della capacità produttiva.
Non finisce qui, poiché il cinismo stesso delle istituzioni europee non conosce limiti. Se da un lato si ribadisce che la maniera migliore per supportare l’Ucraina è continuare a foraggiare l’acquisto di armi, dall’altro si dice a chiare lettere che, attraverso uno strumento denominato Extraordinary Revenues Acceleration (ERA), questo sarà reso possibile da prestiti all’Ucraina che daranno priorità ad acquisti di armamenti prodotti dalle industrie europee. Si soffia sul fuoco della guerra e si cerca anche di lucrarci sopra, estendendo prestiti a una delle parti in causa del conflitto per comprare armi prodotte sostanzialmente dallo stesso soggetto che eroga il prestito!
Non può mancare, infine, una parentesi di disgustosa ipocrisia, con parole che non meritano neanche un commento. Leggere per credere: “in Medio Oriente il cessate il fuoco a Gaza ... fornisce l’occasione per ridurre le tensioni regionali e mettere un punto alle sofferenze umane” (p. 4), scritto nello stesso momento in cui Israele riparte con la sua carneficina ad ampio raggio.
C’è anche una ciliegina finale sulla torta. Grande enfasi è posta sulla necessità di indirizzare anche i capitali privati, dormienti magari in conti correnti poco remunerativi, verso il supporto alla follia bellicista. C’è da dire che il mercato sta già facendo il lavoro sporco, considerando l’impennata delle quotazioni delle imprese operanti nel settore della guerra. Le azioni di Leonardo sono cresciute del 120% negli ultimi 6 mesi e dell’800% negli ultimi 5 anni. Sulla stessa scia la tedesca Rheinmetall, che ha visto il valore delle proprie azioni crescere del 130% negli ultimi 6 mesi. Nonostante ciò, la Commissione ritiene utile sottolineare (p. 18) come gli investimenti nel settore della difesa vadano considerati, a tutti gli effetti, perfettamente in linea con il Regolamento europeo 2019/2088, che definisce i prodotti finanziari che rispettano la sostenibilità ecologica.
Dopo anni di proclami demenziali sul sostegno a Kiev – “fino alla vittoria!” – tutti sulla pelle degli ucraini, e di completa assenza di iniziative diplomatiche finalizzate alla tregua, l’Unione Europea tira fuori dal cappello un programma di finanziamento pubblico dell’industria bellica che non fa altro che allontanare la costruzione di un processo di pace. Nessuno ne sentiva l’esigenza, se non quelle fasce del capitalismo europeo sconfitte dalla competizione internazionale. Nella vostra guerra non ci arruoliamo!
Nessun commento:
Posta un commento