Israele lancia bordate di missili contro siti militari e nucleari iraniani. È una palese dichiarazione di guerra all’Iran, che a quanto pare spiazza anche gli Stati Uniti. In attesa della reazione internazionale, le ambasciate chiudono in tutto il mondo. L’orologio dell’apocalisse si avvicina all’ora zero? Siamo davvero sull’orlo di una grande guerra? Ne parliamo con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università Federico II di Napoli, promotore dell’appello sulle “condizioni economiche per la pace”, pubblicato dal Financial Times e da Le Monde.
Professor Brancaccio, con l’attacco di Israele all’Iran siamo alle soglie di un grande conflitto su larga scala? La “terza guerra mondiale a pezzi”, come la chiamava papa Bergoglio, è giunta a un punto di svolta?
Tutti i conflitti di questo tempo vanno interpretati nel quadro di una prolungata tendenza all’escalation globale. Dall’inizio del secolo assistiamo a una vera e propria esplosione delle vittime di guerra: un numero annuo aumentato del 100 per cento in termini assoluti e addirittura del 600 per cento in rapporto alla popolazione mondiale. Non capiamo nulla delle guerre in corso se non le inscriviamo in questa tendenza di lungo periodo. Incluso l’ultimo attacco di Israele all’Iran.
Perché Israele attacca i siti nucleari iraniani proprio adesso, e con tutta questa violenza?
Lo scopo è sabotare il tentativo dell’amministrazione Usa di giungere a un accordo di stabilizzazione con l’Iran. Più gli Stati Uniti cercano di ridimensionare la loro presenza in Medio Oriente, più Israele alza il tiro. Vale anche per il massacro in atto in Palestina.
In che senso?
Il governo Netanyahu vuole dimostrare che la crisi debitoria americana, e la connessa tendenza degli Stati Uniti a contenere la presenza in Medio Oriente, non intaccano l’egemonia di Israele nell’area. Le azioni militari contro il Libano, lo Yemen, l’Iran, fino a una pulizia etnica di Gaza sempre desiderata e prima mai osata: tutto sta a indicare che Netanyahu e i suoi si stanno giocando il tutto per tutto. Vogliono dimostrare che anche nella crisi del vecchio ordine americano, Israele è destinato a restare il gendarme economico-militare del Medio Oriente.
Qualcuno direbbe che così lei dimentica l’attacco del 7 ottobre di Hamas...
Tutt’altro. All’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre dichiarai che bisognava interpretarlo come una surrettizia opera di destabilizzazione dell’area. L’obiettivo era bloccare gli accordi di Abramo e contrastare il corridoio Imeec su cui gli Stati Uniti hanno scommesso per cercare di edificare un sentiero commerciale alternativo alla via della seta cinese. Israele si è candidato come gendarme di quel sentiero, la “normalizzazione” dei rapporti coi paesi arabi produttori di energia mira esattamente a quello scopo. Tra coloro che hanno contributo all’attacco del 7 ottobre vi sono i nemici di questa operazione, che in ultima istanza trova sempre le sue cause ultime nel tentativo degli Stati Uniti di ridimensionare le proprie aree di influenza, anche attraverso forme di protezionismo commercial-militare. Come già è accaduto nella storia, il popolo palestinese è vittima sacrificale di un mostruoso risiko tra potenze di zona.
Il governo italiano ha finora tenuto una posizione molto pilatesca sul massacro israeliano di Gaza. Che ne pensa?
Che bisognerebbe coordinarsi con almeno una parte dei paesi UE per fare embargo contro Israele. Solo attraverso uno shock economico-finanziario di questa portata si potrebbero creare le condizioni per riprendere le fila del vecchio progetto di “due popoli in due stati”, che al momento pare persino indicibile, totalmente sprofondato sotto le macerie e le migliaia di cadaveri.
Con il grande biografo di Keynes, Robert Skidelsy, lei ha pubblicato un appello su “le condizioni economiche per la pace”. Quali sono le concrete speranze per aprire un tavolo di pace a livello globale?
La diplomazia è lontana da quell’obiettivo ma bisogna insistere in quella direzione. Siamo nel mezzo di una crisi dell’ordine mondiale a guida americana, che trova una delle sue cause di fondo nella crisi del debito americano verso l’estero. Fino a quando quel nodo decisivo non viene affrontato, il rischio che l’escalation militare sfoci in un conflitto su larghissima scala resta alto.
In Italia, lei è stato il primo commentatore ad avere insistito sul problema del debito estero americano come chiave per interpretare la crisi dell’ordine mondiale. Ne ha discusso anche con l’ex governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in un dibattito molto seguito sui social. Adesso cominciano a parlarne un po’ tutti...
La crisi dell’ordine a guida americana può esser compresa solo partendo dalla crisi di quello che talvolta ho definito “circuito militar-monetario” americano: ossia, il meccanismo che consentiva agli Stati Uniti di indebitarsi a piacimento verso l’estero anche per finanziare le operazioni militari all’estero. Oggi sappiamo che quel circuito si è inceppato. Da lì si deve partire per capire le guerre in corso: dall’attacco della Russia all’Ucraina alle prove di forza di Israele contro tutti i potenziali nemici nell’area mediorientale. A quanto pare sono arrivati a capirlo anche i “geopolitici” di grido. Meglio tardi che mai.
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