Le guerre sono una grande opportunità di profitto, così come sono necessarie per imperi in decadenza – vedi gli USA – o velleità imperiali – vedi la UE –. Ma bisogna poi fare i conti materiali con la capacità di sostenere un sistema totalmente inclinato verso la guerra. Questi conti li ha fatti Unimpresa, che deve preoccuparsi della tenuta dei propri rappresentati.
Il Centro Studi della confederazione imprenditoriale ha valutato l’impatto potenziale di un rincaro strutturale dei prezzi energetici intorno al 20% per il 2025, rispetto all’anno precedente, quantificandolo superiore agli 11 miliardi di euro. Appena partiti i raid israeliani sull’Iran, il costo del gas ha registrato un balzo in avanti del 4%, mentre quello del petrolio vicino all’8% (il Brent leggermente meno del WTI).
Nel dettaglio, si parla di 6 miliardi in più dall’incremento del prezzo del gas, e di 5,2 miliardi da quello dell’oro nero. I primi a farne le spese saranno, ovviamente, i settori energivori, l’agroalimentare, la chimica. Ma poi, a cascata, gli effetti arriveranno su tutti i comparti fortemente legati al mondo della logistica: i costi del trasporto potrebbero aumentare tra il 5% e il 7%.
Inoltre, va sottolineato che Unimpresa ha posto l’accento sui costi che dovranno fronteggiare le piccole e medie imprese che rappresenta, non su tutte le attività industriali. Il maggiore esborso, per tutto il sistema produttivo, è stato calcolato in 10,5 miliardi solo per ciò che riguarda l’aumento del prezzo del gas, e di 8,7 miliardi per quello del petrolio.
I margini operativi delle aziende si ridurrebbero del 1,5-2,5%, con pesanti effetti a catena sugli investimenti e, dunque, su tutto il ciclo economico. Infine, i rialzi verrebbero inevitabilmente trasportati sui prezzi finali, con un possibile nuovo aumento dell’inflazione di circa lo 0,3-0,5%. Che in un paese con salari al palo, significa riduzione dei consumi, in un circolo vizioso senza fine.
Unimpresa ha, dunque, già calcolato il salasso che ci arriverà dalla guerra iniziata da Israele contro l’Iran, considerato il ruolo di Teheran nella fornitura di petrolio e nel controllo sullo Stretto di Hormuz, dove passano oltre 15 milioni di barili di petrolio al giorno. Ed è un conto salatissimo per un paese che annaspa già in una crescita che si calcola in decimi di punto percentuale.
Infatti, è stato ribadito da più voci che il grande pericolo per il sistema produttivo italiano sono i costi dell’energia. Ne è passato di tempo da quando Mario Draghi chiedeva se preferissimo “la pace o i condizionatori”, per poi passare a dire, in sostanza, se vogliamo “la pace o mantenere aperto qualsiasi attività produttiva”.
I prezzi del petrolio e del gas si erano abbassati, negli ultimi mesi, tanto da raggiungere i minimi precedenti all’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina. C’erano ancora difficoltà, ma comunque la situazione era tornata a una stabilità tale da permettere qualche spiraglio di ottimismo. Speranza che è stata distrutta dal terrorismo sionista senza freni.
Sarebbe curioso chiedere a Giorgia Meloni, dunque, se a Roma difendono gli interessi dell’Italia o quelli di Israele, se difendono una pace che permetterebbe di programmare una politica economica più stabile, o se difendono il diritto di Israele a bruciare tutto il Medio Oriente per un progetto suprematista e coloniale. Purtroppo, la risposta è la seconda.
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