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15/06/2025

L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ammette: “le spese militari non aiuteranno la crescita”

L’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) è stato creato nel 2014, come organo rispondente al Parlamento e con un ruolo complementare all’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio. La sua funzione è proprio quella di vigilare sulla finanza pubblica, per assicurare il rispetto dei vincoli strozzanti dell’Unione Europea.

Il rapporto che ha pubblicato a giugno esprime perciò l’evidente contraddizione tra la garrota dei trattati europei e le possibilità concrete del riarmo e dell’economia di guerra promossa da Bruxelles attraverso l’attivazione della clausola di salvaguardia. Non che il ricorso ai cosiddetti Eurobond possa davvero esaudire i desideri dei guerrafondai europei. Ma non è questo il punto, in questo caso.

Nel testo citato, l’UPB ha analizzato gli effetti che potrebbe avere sull’economia italiana un aumento della spesa per la difesa finanziato in disavanzo, cioè ricorrendo al debito pubblico, così come previsto nel contesto del piano europeo “ReArm Europe – Readiness 2030”, che consente agli Stati membri di superare temporaneamente i vincoli di bilancio per rafforzare le proprie capacità militari (pag. 162).

Lo studio ha considerato due ipotesi, o scenari. Nella prima, più moderata, la spesa per la difesa cresce lentamente tra il 2025 e il 2026 e poi si stabilizza, arrivando nel 2028 a un aumento complessivo dello 0,5% del PIL rispetto allo scenario base. Nella seconda, più ambiziosa, l’incremento è più rapido e consistente, fino a raggiungere nel 2028 un +1,5% del PIL, pari a circa 37 miliardi di euro in più.

In entrambi i casi, secondo le simulazioni, le risorse verrebbero destinate per due terzi a stipendi del settore pubblico e per un terzo a investimenti in conto capitale, ovvero infrastrutture militari e sistemi d’arma. La nota sottolinea come, secondo le proiezioni, una parte significativa della spesa – circa il 60% – sarà destinata ad acquisti dall’estero.

Infatti, studi internazionali condotti di recente segnalano come la parte maggioritaria degli acquisti per il comparto della difesa europeo proverrà dall’estero. Questo aspetto è cruciale poiché riduce l’effetto diretto di tali investimenti sulla crescita economica interna. Bisogna ricordare che persino il programma SAFE per produzioni comunitarie prevede che il loro valore possa provenire da paesi al di fuori della UE fino al 35%: è una questione di realtà e necessità materiale.

Le simulazioni sono condotte con due diversi (ma affini) modelli economici: il MeMo-It, che è il modello macroeconomico sviluppato dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), ed il QUEST III, modello sviluppato dalla Commissione europea. La principale differenza tra i due è che il QUEST III tiene in conto anche gli effetti dal lato dell'offerta e la politica monetaria, mentre il MeMo si concentra sugli effetti di domanda aggregata.

Secondo le simulazioni condotte con i due modelli, l’impatto sull’economia italiana sarebbe estremamente contenuto nel breve periodo, e nullo nel medio-lungo periodo. Questi dati, nascosti accuratamente nella comunicazione pubblica, mettono in evidente crisi la narrativa per cui le produzioni di guerra potranno aiutare il paese a far fronte alla propria stagnazione economica.

Nel primo scenario (che potremmo chiamare di “Riarmo Moderato”), la crescita del PIL risulterebbe appena percettibile, con effetti che si esauriscono già nel 2026. Nel secondo scenario, in cui si sfruttano appieno i margini concessi dal piano ReArm, l’impatto sarebbe più duraturo, con un incremento annuo del PIL di circa 0,3 punti percentuali nel 2027 e nel 2028, e un aumento complessivo di quasi un punto percentuale entro fine periodo.

Altrettanto irrisorio sarebbe l’impatto secondo le simulazioni del QUEST, che come detto tiene conto anche della reazione della politica monetaria. In questo caso, l’aumento atteso della spesa pubblica porta le banche centrali ad anticipare un rialzo dei tassi d’interesse per contenere l’inflazione. Ciò frena consumi e investimenti privati, limitando i benefici iniziali della manovra.

In entrambi i casi il moltiplicatore fiscale, cioè il rapporto tra l’effetto sul PIL e l’incremento della spesa pubblica, risulta inferiore a 1 in tutti e due gli scenari, attestandosi attorno a 0,5. Questo significa che ogni euro speso in più per la difesa genera non più di 50 centesimi di crescita economica, segnalando un’efficacia limitata nel sostenere l’attività economica rispetto ad altri settori.

Come termine di paragone, uno studio della Banca d’Italia individua il moltiplicatore fiscale per investimenti in capitale pubblico tra 1,2 e 1,8 nel medio termine, quindi fino a quasi 4 volte tanto. In sintesi, secondo le stesse analisi dell’UPB, l’aumento della spesa per la difesa non porterà sostanziali benefici all’economia italiana, e anzi, prelude a ulteriori tagli delle spese sociali.

Nel rapporto si legge che “la Comunicazione della Commissione [Europea sulla possibile attivazione della clausola di salvaguardia, ndr] chiarisce che, al fine di salvaguardare la sostenibilità delle finanze pubbliche, dopo il 2028 gli Stati membri dovranno sostenere il livello più elevato di spesa nel settore della difesa attraverso una graduale rimodulazione delle altre voci di bilancio” (pag. 165). Senza tale clausola, la cosa accadrebbe immediatamente, senza tanti rimandi.

Allora, alla fine della lettura di questi dati, la domanda che sorge spontanea non è tanto economica, quanto piuttosto politica: ci fossero pure benefici significativi nel riarmo – e non ci sono – perché non scegliere indirizzi di investimento più efficienti, come quelli verso il capitale pubblico indicati dalla Banca d’Italia, dentro una cornice di sviluppo pacifico?

La risposta la sappiamo bene tutti: non solo l’armarsi fino ai denti, ma anche la creazione di una difesa europea pienamente funzionante è necessaria per un soggetto come la UE, che vuole fare il definitivo salto di qualità imperialistico. La politica estera sopravanza quella interna, che verrà sempre più trattata solo nei termini di ordine pubblico.

Mentre la propaganda di guerra farà della ristretta cerchia di lavoratori arruolata nelle catene produttive degli armamenti una nuova ‘aristocrazia operaia’ su cui legittimare la deriva bellicista e attraverso cui dividere i lavoratori, che avrebbero invece reali benefici se i soldi finissero verso ben altri lidi, a partire dai salari, dalle pensioni, dalle case popolari, dalla riqualificazione industriale, e così via.

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