Le compagnie minerarie australiane e canadesi Resolute Mining e Barrick Gold stanno verificando che nei paesi africani indipendenti l’aria è decisamente cambiata.
L’australiana Resolute ha detto che pagherà in due tranche al governo maliano 80 milioni di dollari ed altri 80 milioni nei “prossimi mesi”. L’accordo raggiunto dovrebbe risolvere le controversie con il governo “comprese quelle relative a tasse, dazi doganali e gestione dei conti offshore”. Il gruppo sta “ora lavorando con il governo sui restanti passaggi procedurali per il rilascio dei suoi tre dipendenti”, ha detto la società.
È accaduto infatti che tre dirigenti del gruppo che possiede una miniera d’oro in Mali sono stati arrestati all’inizio dei novembre dopo essersi recati nella capitale, per quelli che pensavano fossero normali negoziati con la giunta militare al potere. Ma l’amministratore del gruppo, il britannico Terence Holohan e due dei suoi colleghi sono stati arrestati e presi in custodia “inaspettatamente”. Sono stati interrogati in un caso di presunta contraffazione e danneggiamento di proprietà pubblica, riporta la pagina Jeune Afrique.
La Resolute, possiede l’80% delle azioni della filiale che possiede la miniera di Syama (sud-ovest), il restante 20% è nelle mani dello Stato maliano. La società australiana possiede anche un sito di estrazione dell’oro a Mako, nel vicino Senegal, e sta conducendo altri progetti di esplorazione in Mali, Senegal e Guinea.
Da quando hanno preso il potere, i leader del Mali hanno promesso di garantire una distribuzione più equa dei proventi dell’estrazione mineraria nel paese fin qui dominata da gruppi stranieri. Le autorità maliane hanno fatto della lotta alla corruzione e del ripristino della sovranità nazionale sulle risorse naturali i loro mantra.
Jeune Afrique ricorda che questa è la seconda volta in pochi mesi che i dirigenti di una società mineraria straniera vengono arrestati in Mali. Quattro dipendenti della società canadese Barrick Gold, alle prese con un contenzioso con le autorità statali del Mali, sono stati trattenuti per diversi giorni alla fine di settembre e poi rilasciati.
Barrick Gold ha dichiarato di aver pagato 50 miliardi di franchi CFA (circa 81 milioni di dollari) in ottobre come parte di un accordo con il governo maliano.
Le società minerarie straniere sono sottoposte ad una maggiore pressione da parte della giunta, salita al potere nel 2020 e che sta prestando molta attenzione ai rilevanti guadagni dell’industria mineraria in mano alle multinazionali straniere.
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20/11/2024
19/11/2019
Bolivia - Un golpe per Cristo o per gas, litio, cobalto, uranio, oro, ecc?
Tutti i media europei e statunitensi, hanno usato le patetiche immagini di Luis Fernando Camacho e Jeanine Añez che impugnano la Bibbia come fosse un’arma, per mascherare e occultare la responsabilità strategica del governo degli Stati Uniti in questo colpo di Stato.
Prima di entrare nel merito specifico dei responsabili del colpo di stato, è necessario definire alcuni parametri economici e politici del governo di Evo Morales, per capire perché in un paese come la Bolivia – dove il PIB è passato da 9 miliardi (2007) a 40 miliardi di dollari (2018), mentre l’inflazione è scesa al 4,5% e la povertà è stata ridotta dal 38% al 15% – è stato organizzato e realizzato il 10 novembre un colpo di stato, nonostante il presidente Evo Morales avesse annunciato la realizzazione di nuove elezioni prima della fine del suo mandato (22/01/2020), proprio come aveva richiesto il segretario dell’OEA, Luis Almagro e anche la stessa Unione Europea attraverso Federica Mogherini.
In realtà il colpo di stato realizzato dal Comandante in Capo delle Forze Armate, generale Williams Kalima, insieme al Comandante Generale della Policía, Vladimir Yuri Calderón, non poteva più essere fermato o tanto meno ritardato in attesa di nuove elezioni.
Questo perchè i gruppi paramilitari (Milicias) finanziati, organizzati e diretti dal cosiddetto Comitê Civico di Santa Cruz, erano entrati in azione prima del referendum e cioè il 19 ottobre, creando, con azioni di autentico terrorismo, una situazione di crescente instabilità. Azioni terroristiche che poi si sono moltiplicate nelle principali città della Bolivia, subito dopo l’annuncio della vittoria elettorale di Evo Morales.
Quindi, a partire da questa connotazione di fatti è possibile ricostruire la metodologia e analizzare come questo colpo di stato è stato costruito e come e perché l’amministrazione degli Stati Uniti ha dato il suo avallo al progetto cospirativo, senza ripetere gli errori del passato, quando il suo ambasciatore, Philp Goldberg, fu espulso il 12 settembre 2008, accusato di appoggiare il movimento separatista della Mezza Luna di Santa Cruz, di cui, il lìder era proprio Luis Fernando Camacho!
Dalla nazionalizzazione del gas all’industrializzazione dei minerali
La decisione politica e costituzionale che aveva permesso al primo governo di Evo Morales d’imporre una nuova definizione politica per la gestione dell’economia e delle ricchezze minerarie nazionali, fu la nazionalizzazione del gas con il “Decreto Supremo” e la conseguente centralizzazione produttiva nell’impresa statale YPFP (Compañía Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos).
In questo modo le imprese boliviane che rappresentavano o erano intermediarie delle multinazionali persero l’opportunità di continuare a spadroneggiare sulla vendita del gas in Bolivia e alle imprese argentine e brasiliane.
Il gruppo che ha maggiormente sofferto con questa nazionalizzazione fu la Compañía Camacho che, in pratica, monopolizzava la vendita del gas al Brasile. Quindi non è stato per caso che Luis Fernando Camacho nel 2005 integrò il piano sovversivo di Eduardo Rozsa per assassinare il presidente Evo Morales.
Dopo, dal 2006 fino al 2009, Camacho “patrocinò”, insieme ai membri della setta “Los Caballeros del Oriente”, la formazione delle “Milicias” (gruppi paramilitari), principalmente nella provincia di Santa Cruz, con l’obbiettivo di scatenare un movimento di guerriglia separatista.
Però con la creazione di UNASUR il progetto eversivo di Camacho rientrò, anche se la polizia boliviana non è mai riuscita a smontarne l’organizzazione e la struttura logistica. Infatti, secondo alcune fonti boliviane, Luis Fernando Camacho ha riattivato con molta facilità l’organizzazione sovversiva delle “Milicias” fin dal 2016, quando Evo Morales dichiarò che si sarebbe ricandidato nelle elezioni di ottobre del 2019.
L’altra decisione politica determinante del terzo governo di Evo Morares fu la legge che sviluppava la Estrategia Nacional de Industrialización (Strategia Nazionale di Industralizzazione) che, nel 2016, prevedeva la realizzazione di grandi progetti industriali relazionati con la trasformazione industriale dei prodotti minerali, in particolare il litio e il cloruro di potassio e l’estrazione dei nuovi minerali strategici, vale a dire il cobalto, il torio, l’uranio e il gallio.
È opportuno ricordare che quasi tutti questi minerali sono associati all’oro, di modo che la Bolivia oltre ad essere diventato il principale produttore mondiale di Litio, con una riserva di 9 milioni di tonnellate metriche, secondo il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), diventerà un potenziale produttore dei 35 minerali che l’USGS considera cruciali per l’economia statunitense!
Infatti Caspar Raweles, analista del Benchmark Mineral Intelligence, nel passato mese di febbraio dichiarava: “nel caso del cobalto il prezzo è salito dai 20 dollari ai 40 per poi stabilizzarsi a 32 dollari, confermando le previsioni degli analisti del settore, secondo i quali nel 2022 ci sarà scarsezza di cobalto se non saranno aperti nuovi punti di produzione. Per questo ogni compagnia legata al sistema economico globale sta cercando di ridurre i rischi geopolitici per i suoi progetti di esplorazione”.
Il più classico dei “rischi geopolitici” è la presenza di un governo “non collaborativo” con le multinazionali del settore, ovviamente.
Per confermare le previsioni fatte dal CRU di Londra e dall’USGS, il presidente della statale mineraria boliviana COMIBOL (Corporación Minera de Bolivia), Marcelino Quispe, nel mese di marzo del 2018 dichiarava all’agenzia ABI che “I primi sondaggi minerari nelle regioni di Oruro, La Paz, Potosì e Santa Cruz, hanno rivelato nuovi grandi giacimenti di argento, oro, gallio, cobalto, rame, zinco, torio e soprattutto uranio. Quest’ultimo, localizzato nel nordest della provincia di Santa Cruz, dovrà essere estratto nei primi mesi del 2019”.
Per questo il governo di Evo Morales stava preparando la bozza di possibili accordi di cooperazione con Argentina, Russia, Francia e Iran, per arricchire in questi paesi l’uranio estratto in Santa Cruz. Poi nel 2025 con il “Programa Civil de Energia Nuclear” il governo prevedeva investire 2 miliardi di dollari per la costruzione di due centrali nucleari nelle province del nordest.
Così facendo la Bolivia, senza la presenza delle multinazionali statunitensi, si sarebbe trasformata nell’Eldorado minerario dell’America Latina, con un governo che, certamente, avrebbe reinvestito nel sociale gli immensi guadagni ottenuti con la vendita e l’industrializzazione dei minerali strategici.
Da ricordare che nei grandi progetti delineati dal presidente Morales figurava l’implementazione di una fabbrica di batterie al litio per le auto elettriche di tutto il mondo, ma anche una fabbrica di auto elettriche per coprire il mercato latino-americano.
Nei mesi che hanno preceduto le elezioni di ottobre, i grandi media non hanno mai rivelato che Luis Fernando Camacho – questa volta senza Bibbia – avrebbe avuto incontri “riservati” con rappresentanti di varie multinazionali minerarie statunitensi, vale a dire ALCOA, ASARCO, Newmont Mining Corporation, Southern Copper e Anaconda Copper.
Per poi, nella prima settimana di maggio di quest’anno, sbarcare senza molta pubblicità nella capitale brasiliana, per incontrarsi con il ministro degli Esteri, Ernesto Araujo. Sempre secondo alcune fonti “riservate” Camacho, avrebbe anticipato la sconfitta di Morales richiedendo a Ernesto Araujo la promessa di un immediato riconoscimento del nuovo governo. In cambio, Camacho offriva la ridefinizione del nuovo contratto di vendita del gas (32,35 milioni di metri cubici diari).
Non è una casualità, ma il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, è stato il primo a riconoscere l’autonominazione a presidente a interim di Jeanine Añez affermando che avrebbe inviato La Paz “una persona per seguire l’andamento della situazine boliviana”.
La stessa fonte brasiliana ricorda che Camacho avrebbe garantito al ministro Ernesto Araujo la realizzazione di un programma di privatizzazione come quello brasiliano, primo fra tutti la privatizzazione della YPFB, la statale del gas.
La necessità della rielezione di Evo e il golpe
Alcuni settori della sinistra hanno criticato la decisione del presidente Evo Morales di ricorrere al Tribunale Costituzionale per ottenere quello che non aveva raggiunto con il referendum, vale a dire l’opportunità di poter concorrere alle elezioni presidenziali per la quarta volta. Per altri Evo avrebbe peccato di testardaggine, oltre ad essere stato sedotto dal potere.
Giudizi veicolati dai grandi media boliviani, statunitensi ed europei che all’unisono nel 2016, in occasione del referendum, personalizzarono la campagna mediatica contro Evo Morales, creando Fake News assurde, che furono accolte e recepite soprattutto dalla classe media, in particolare quella di La Paz.
La stessa che, nel mese di ottobre ha appoggiato il colpo di stato pensato e promosso a Santa Cruz de la Sierra dal locale Comitê. Infatti, il referendum del 2016 fu volgarmente manipolato con il caso “Gabriela Zapata”.
Costei, presentata dai media come “l’amante” di Evo, guadagnò migliaia di dollari realizzando interviste in cui descriveva Evo Morales come il più sordido, il più corrotto, il più squallido individuo della Bolivia. Per poi “dulcis in fundo” accusarlo anche della morte di un figlio mai esistito.
Purtroppo, soltanto il 23 maggio 2017, la magistratura scopri la verità condannando Gabriela Zapata a dieci anni di prigione per falsità ideologica, uso di documenti falsificati, associazione a delinquere e uso indebito di beni pubblici. Purtroppo, nel 2017, i boliviani avevano già votato contro Evo!
Quindi, per Evo e per i dirigenti del MAS (Movimiento al Socialismo), era evidente che il referendum era stato manipolato dai media con il caso di Gabriela Zapata, dunque la richiesta al Tribunale Costituzionale sembrava ampiamente giustificata.
Nello stesso tempo i servizi di informazione boliviani avevano rivelato al presidente che in caso di vittoria del leader dell’opposizione, Carlos Mesa, tutti i progetti strategici creati dal governo sarebbe stati dissolti e le imprese statali privatizzate. Prime fra tutte la statale del gas, la YPFB e quella mineraria COMIBOL, responsabile dell’industrializzazione del litio e dell’uranio.
È imperativo ricordare che Carlos Mesa divenne presidente della Bolivia nell’ottobre del 2003 a causa delle dimissioni e della fuga negli USA del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. Infatti, per evitare di essere processato per la drammatica repressione dei manifestanti che protestavano contro gli aumenti dei prezzi del gas dopo le privatizzazioni (80 morti e 523 feriti), Lozada fuggi grazie all’aiuto dell’ambasciata statunitense.
Inoltre, fu proprio Carlos Mesa, nella qualità di vicepresidente, ad aver negoziato le privatizzazioni con le multinazionali, autorizzando, in seguito, l’aumento delle tariffe del gas per uso civile.
Comunque, la grande problematica che ha notevolmente pesato sulla decisione di Evo Morales di concorrere a tutti i costi per la quarta volta riguarda il cambio politico che un’eventuale vittoria di Carlos Mesa avrebbe imposto al popolo boliviano con il ritorno delle privatizzazioni, distruggendo tutto quello che era stato costruito durante i suoi tre governi. In pratica quello che Moreno sta facendo in Ecuador e quello che Bolsonaro ha già fatto in Brasile.
Un’altra constatazione che ha influenzato notevolmente la decisione di Evo è che il suo vicepresidente, Alvaro Garcia, pur essendo un antico leader della sinistra boliviana, non è indigeno. Un elemento che nella società andina ha una grande importanza.
Infatti la Bolivia è un paese dove il 58% della popolazione è etnicamente indigeno (28% sono Quechuas, 19% Aymaras e 11% di altri gruppi etnici indigeni), poi il 30% è formato dai “Mestizos” (figli di europei con indigeni) e solo il 12% è di origine europea.
Purtroppo gli altri dirigenti e parlamentari del MAS, tra cui Victor Borda, ex presidente della Camera dei Deputati, non avevano una dimensione nazionale capace di sostituire l’immagine di Evo Morales. In secondo luogo non avevano la stessa capacità di dialogo con le masse e la disposizione di affrontare la destra e i media nelle elezioni di ottobre.
Nel campo dell’opposizione, la certezza che Evo Morales si sarebbe presentato alle elezioni di ottobre, nonostante il risultato negativo del referendum del 2016, ha permesso a Luis Fernando Camacho di trasformare il suo Comitê Santa Cruz nella centrale operativa del colpo di stato e quindi dell’azione terrorista e sovversiva delle Milicias. Gruppi paramilitari ormai pronti ad agire in quasi tutto il territorio della Bolivia, grazie, soprattutto alla copertura della polizia e al “silenzio” dell’esercito.
Infatti, subito dopo le forzate dimissioni di Evo Morales, per evitare che Victor Borda assumisse l’incarico di presidente ad interim, in quanto Presidente della Camera dei Deputati, le “Milicias” di Camacho hanno attaccato la residenza di Victor Borda e poi sequestrato il fratello, minacciandolo di morte.
Di fronte a questo ricatto Victor Borda ha dato le dimissioni in cambio della vita del fratello!
La Bolivia di Evo, le relazioni con gli Usa e la presenza della Cina
Dopo l’espulsione dell’ambasciatore statunitense Philp Goldberg, il 12 settembre 2008, le relazioni diplomatiche e politiche tra Bolivia e Stati Uniti hanno vissuto momenti difficili. Basti pensare che nello stesso anno fu espulsa tutta la delegazione della DEA, accusata di “cospirazione”. Poi, nel 2013, fu l’USAID ad essere espulsa dal governo boliviano.
Solo negli ultimi anni le relazioni diplomatiche tra i due paesi si erano stabilizzate, soprattutto con l’arrivo di Bruce Williamson in qualità di Incaricato d’Affari. Invece, negli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato e la CIA decidevano di ampliare gli effetti della “guerra ibrida” contro il governo bolivariano di Nicolas Maduro, anche contro il governo di Evo Morales.
Per questo motivo varie entità governative, ONG e fondazine statunitensi hanno moltiplicato le relazioni con le forze dell’opposizione boliviana, cercando, in questo modo, di ripetere il processo d’infiltrazione già perfettamente realizzato in Brasile, in Venezuela e in Ecuador.
Basti pensare che nel gennaio di quest’anno la deputata repubblicana Ileana Ros-Lehtinen, dichiarava al Congresso che “il presidente Morales non poteva perpetuarsi nel potere, per questo il popolo della Bolivia necessitava dell’aiuto degli Stati Uniti”.
In seguito l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, Nikky Haley, nel mese di agosto, durante la sua “missione diplomatica” in Colombia dichiarava “La Bolivia, dopo il Venezuela, è il paese che dobbiamo seguire con attenzione”.
Un’infiltrazione che è coordinata da agenzie e subagenzie del Dipartimento di Stato. Infatti la NED (Fondazione Nazionale per lo Sviluppo) realizza i suoi programmi appoggiandosi a 30 ONG boliviane e due istituti privati statunitensi, l’Istituto Repubblicano Internazionale e il Centro per l’Impresa Privata Internazionale, con i quali porta avanti il progetto “Governo e Società Civile”. Un progetto che forma i nuovi quadri dirigenti per i partiti di opposizione, secondo le norme del liberalismo statunitense.
È necessario ricordare che il governo di Evo Morales, non è mai riuscito a tagliare il cordone ombelicale che lega la polizia boliviana alla CIA/DEA e gli ufficiali superiori delle Forze Armate al Pentagono.
Questo perché l’esercito della Bolivia, insieme a quello della Venezuela, a partire dal 1962, furono completamente ristrutturati in base alle norme dell’accademia militare statunitense. Basti pensare che in America Latina il primo battaglione di “Rangers”, specializzato nella contro-guerriglia, fu creato dal Pentagono in Bolivia, appositamente per circondare ed eliminare il foco guerrigliero montato da Che Guevara con il nascente ELN.
In realtà, il governo socialista-progressista di Evo Morales, come pure quelli di Rafael Correa e di Lula, non sono mai riusciti ad avere il pieno riconoscimento da parte degli ufficiali superiori. Una situazione che ha sempre permesso l’infiltrazione da parte delle antenne delle CIA, della DEA e del Dipartimento di Stato.
Evo, Correa e Lula hanno sempre creduto che facendo pesare sui militari l’istituzione del governo, la carta costituzionale e le vittorie elettorali, in un certo senso, avrebbero ottenuto relazioni di rispetto, che però non sono state mai di fedeltà da parte dei militari e della polizia.
Infatti, se l’esercito, i servizi d’Intelligence e la polizia federale brasiliana fossero stati realmente compromessi con la governabilità e i concetti costituzionali, non avrebbero permesso l’organizzazione dell’Impeachment nei confronti del presidente Dilma Roussef.
Lo stesso si può dire per l’Ecuador, dove i servizi segreti e i servizi di l’intelligence dell’esercito hanno praticamente sostenuto il tradimento del neopresidente Moreno, cospirando per provocare l’arresto del vicepresidente Jorge Glas.
In Bolivia, bisogna riconoscere che Evo Morales non ha mai represso gli avversari politici usando la forza di chi è stato eletto con il 67%. Basti pensare che quando fu scoperto e sgominato il progetto secessionista della Mezza Luna, nella provincia di Santa Cruz de la Sierra, il governo e lo stesso Evo Morales lasciarono alla magistratura il compito d’investigare e di processare i pochi responsabili degli atti di terrorismo presentati dalla polizia.
In pratica il governo boliviano si accontentò della vittoria politica, convinto che le poche condanne dei tribunali e la convivenza democratica nel Parlamento avrebbero educato l’opposizione.
Un altro problema che collega direttamente il colpo di stato in Bolivia con il governo degli Stati Uniti è la nuova e profonda relazione politica, economica e finanziaria che il governo di Evo Morales stava sviluppando con la Cina.
Infatti per l’ex ministro degli esteri brasiliano Celso Amorim “In termini geo-strategici la Bolivia è il centro dell’America Latina, che in questi anni è cresciuta moltissimo, scoprendo un potenziale di ricchezze minerarie non indifferente. Per questo, quando gli Stati uniti si sono resi conti che il governo di Evo Morales si stava aprendo ad altre forze mondiali, in particolare la Cina, hanno deciso di agire. Non ci sono dubbi. L’influenza degli Stati Uniti in Bolivia è permanente e le forze dell’opposizione sono tendenzialmente portate alla cospirazione sovversiva. E dico questo perché nel 2008 io stavo lì e conosco il contesto di Santa Cruz che nel 2008 stava gettando la Bolivia nel vortice della guerra civile“.
Seguendo le constatazioni di Celso Amorin è imperativo ricordare che negli ultimi anni la Bolivia è diventato uno dei principali esportatori mondiali di antimonio, stagno, tungsteno e boro di cui le industrie degli Stati Uniti hanno assoluto bisogno. Inoltre, dal 2016 la Corporación Minera de Bolivia (Comibol), ha iniziato a sostituire le fonderie statunitensi con quelle spagnole e soprattutto cinesi, per processare e commercializzare in lingotti i minerali estratti negli altipiani boliviani.
Una dipendenza cui, comunque, Evo Morales pensava di metter fine grazie alla “cooperazione finanziaria” cinese (pari a 7 miliardi di dollari), con la costruzione in Bolivia d’impianti siderurgici per la raffinazione dello zinco, da cui si estrae l’indio, che è un altro materiale strategico di cui le industrie statunitensi hanno un assoluto bisogno.
Sempre con l’apporto e la cooperazione di imprese cinesi, russe, francesi, canadesi e tedesche, il governo di Evo Morales aveva progettato il potenziamento e l’estrazione di tutti i minerali strategici presenti nel sottosuolo boliviano, tali come il litio, il cobalto, il palladio, l’antimonio, il bismuto, il cadmio, il cromo e il volframio, oltre ad aumentare i volumi produttivi dei minerali tradizionali, vale a dire: oro, stagno, manganese, zinco, argento, platino, potassio, nickel, ferro, rame e soprattutto uranio.
Un contesto che non sfuggiva agli analisti compenetrati negli sviluppi economici della Bolivia. Infatti Axel Arías Jordan, il 20 settembre 2018, anticipando l’interesse degli Stati Uniti per un cambio in Bolivia così scriveva: ”Lo scontro elettorale che si realizzerà in ottobre del 2019, si preannuncia come uno delle grandi sfide per un eventuale cambio politico in Bolivia. Motivo per cui bisogna stare molto attenti a come il governo e il settore privato degli Stati Uniti prenderanno in mano questo processo e se decideranno di attuare in funzione di determinati interessi politici ed economici relazionati con la Bolivia. Infatti, oltre ai tradizionali interessi per il controllo di un paese divenuto mondialmente famoso per la sua potenzialità mineraria, gli Stati Uniti hanno altri interessi fondamentali legati alla difesa e ai vincoli commerciali esistenti tra la Bolivia e la Cina. In definitiva, pur continuando a mantenere il mirino sul Venezuela, è molto probabile che il governo degli Stati Uniti indurirà le differenti forme di pressione sul governo boliviano!”
Purtroppo l’indurimento dell’imperialismo c’è stato con un colpo di stato, pensato nel gennaio di quest’anno per poi essere pianificato a partire da maggio. Un colpo di stato che vuole essere mascherato con una Bibbia, per non dire che è l’ennesima soluzione imperialista per arricchirsi espropriando le immense ricchezze minerarie boliviane.
Fonte
Prima di entrare nel merito specifico dei responsabili del colpo di stato, è necessario definire alcuni parametri economici e politici del governo di Evo Morales, per capire perché in un paese come la Bolivia – dove il PIB è passato da 9 miliardi (2007) a 40 miliardi di dollari (2018), mentre l’inflazione è scesa al 4,5% e la povertà è stata ridotta dal 38% al 15% – è stato organizzato e realizzato il 10 novembre un colpo di stato, nonostante il presidente Evo Morales avesse annunciato la realizzazione di nuove elezioni prima della fine del suo mandato (22/01/2020), proprio come aveva richiesto il segretario dell’OEA, Luis Almagro e anche la stessa Unione Europea attraverso Federica Mogherini.
In realtà il colpo di stato realizzato dal Comandante in Capo delle Forze Armate, generale Williams Kalima, insieme al Comandante Generale della Policía, Vladimir Yuri Calderón, non poteva più essere fermato o tanto meno ritardato in attesa di nuove elezioni.
Questo perchè i gruppi paramilitari (Milicias) finanziati, organizzati e diretti dal cosiddetto Comitê Civico di Santa Cruz, erano entrati in azione prima del referendum e cioè il 19 ottobre, creando, con azioni di autentico terrorismo, una situazione di crescente instabilità. Azioni terroristiche che poi si sono moltiplicate nelle principali città della Bolivia, subito dopo l’annuncio della vittoria elettorale di Evo Morales.
Quindi, a partire da questa connotazione di fatti è possibile ricostruire la metodologia e analizzare come questo colpo di stato è stato costruito e come e perché l’amministrazione degli Stati Uniti ha dato il suo avallo al progetto cospirativo, senza ripetere gli errori del passato, quando il suo ambasciatore, Philp Goldberg, fu espulso il 12 settembre 2008, accusato di appoggiare il movimento separatista della Mezza Luna di Santa Cruz, di cui, il lìder era proprio Luis Fernando Camacho!
Dalla nazionalizzazione del gas all’industrializzazione dei minerali
La decisione politica e costituzionale che aveva permesso al primo governo di Evo Morales d’imporre una nuova definizione politica per la gestione dell’economia e delle ricchezze minerarie nazionali, fu la nazionalizzazione del gas con il “Decreto Supremo” e la conseguente centralizzazione produttiva nell’impresa statale YPFP (Compañía Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos).
In questo modo le imprese boliviane che rappresentavano o erano intermediarie delle multinazionali persero l’opportunità di continuare a spadroneggiare sulla vendita del gas in Bolivia e alle imprese argentine e brasiliane.
Il gruppo che ha maggiormente sofferto con questa nazionalizzazione fu la Compañía Camacho che, in pratica, monopolizzava la vendita del gas al Brasile. Quindi non è stato per caso che Luis Fernando Camacho nel 2005 integrò il piano sovversivo di Eduardo Rozsa per assassinare il presidente Evo Morales.
Dopo, dal 2006 fino al 2009, Camacho “patrocinò”, insieme ai membri della setta “Los Caballeros del Oriente”, la formazione delle “Milicias” (gruppi paramilitari), principalmente nella provincia di Santa Cruz, con l’obbiettivo di scatenare un movimento di guerriglia separatista.
Però con la creazione di UNASUR il progetto eversivo di Camacho rientrò, anche se la polizia boliviana non è mai riuscita a smontarne l’organizzazione e la struttura logistica. Infatti, secondo alcune fonti boliviane, Luis Fernando Camacho ha riattivato con molta facilità l’organizzazione sovversiva delle “Milicias” fin dal 2016, quando Evo Morales dichiarò che si sarebbe ricandidato nelle elezioni di ottobre del 2019.
L’altra decisione politica determinante del terzo governo di Evo Morares fu la legge che sviluppava la Estrategia Nacional de Industrialización (Strategia Nazionale di Industralizzazione) che, nel 2016, prevedeva la realizzazione di grandi progetti industriali relazionati con la trasformazione industriale dei prodotti minerali, in particolare il litio e il cloruro di potassio e l’estrazione dei nuovi minerali strategici, vale a dire il cobalto, il torio, l’uranio e il gallio.
È opportuno ricordare che quasi tutti questi minerali sono associati all’oro, di modo che la Bolivia oltre ad essere diventato il principale produttore mondiale di Litio, con una riserva di 9 milioni di tonnellate metriche, secondo il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), diventerà un potenziale produttore dei 35 minerali che l’USGS considera cruciali per l’economia statunitense!
Infatti Caspar Raweles, analista del Benchmark Mineral Intelligence, nel passato mese di febbraio dichiarava: “nel caso del cobalto il prezzo è salito dai 20 dollari ai 40 per poi stabilizzarsi a 32 dollari, confermando le previsioni degli analisti del settore, secondo i quali nel 2022 ci sarà scarsezza di cobalto se non saranno aperti nuovi punti di produzione. Per questo ogni compagnia legata al sistema economico globale sta cercando di ridurre i rischi geopolitici per i suoi progetti di esplorazione”.
Il più classico dei “rischi geopolitici” è la presenza di un governo “non collaborativo” con le multinazionali del settore, ovviamente.
Per confermare le previsioni fatte dal CRU di Londra e dall’USGS, il presidente della statale mineraria boliviana COMIBOL (Corporación Minera de Bolivia), Marcelino Quispe, nel mese di marzo del 2018 dichiarava all’agenzia ABI che “I primi sondaggi minerari nelle regioni di Oruro, La Paz, Potosì e Santa Cruz, hanno rivelato nuovi grandi giacimenti di argento, oro, gallio, cobalto, rame, zinco, torio e soprattutto uranio. Quest’ultimo, localizzato nel nordest della provincia di Santa Cruz, dovrà essere estratto nei primi mesi del 2019”.
Per questo il governo di Evo Morales stava preparando la bozza di possibili accordi di cooperazione con Argentina, Russia, Francia e Iran, per arricchire in questi paesi l’uranio estratto in Santa Cruz. Poi nel 2025 con il “Programa Civil de Energia Nuclear” il governo prevedeva investire 2 miliardi di dollari per la costruzione di due centrali nucleari nelle province del nordest.
Così facendo la Bolivia, senza la presenza delle multinazionali statunitensi, si sarebbe trasformata nell’Eldorado minerario dell’America Latina, con un governo che, certamente, avrebbe reinvestito nel sociale gli immensi guadagni ottenuti con la vendita e l’industrializzazione dei minerali strategici.
Da ricordare che nei grandi progetti delineati dal presidente Morales figurava l’implementazione di una fabbrica di batterie al litio per le auto elettriche di tutto il mondo, ma anche una fabbrica di auto elettriche per coprire il mercato latino-americano.
Nei mesi che hanno preceduto le elezioni di ottobre, i grandi media non hanno mai rivelato che Luis Fernando Camacho – questa volta senza Bibbia – avrebbe avuto incontri “riservati” con rappresentanti di varie multinazionali minerarie statunitensi, vale a dire ALCOA, ASARCO, Newmont Mining Corporation, Southern Copper e Anaconda Copper.
Per poi, nella prima settimana di maggio di quest’anno, sbarcare senza molta pubblicità nella capitale brasiliana, per incontrarsi con il ministro degli Esteri, Ernesto Araujo. Sempre secondo alcune fonti “riservate” Camacho, avrebbe anticipato la sconfitta di Morales richiedendo a Ernesto Araujo la promessa di un immediato riconoscimento del nuovo governo. In cambio, Camacho offriva la ridefinizione del nuovo contratto di vendita del gas (32,35 milioni di metri cubici diari).
Non è una casualità, ma il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, è stato il primo a riconoscere l’autonominazione a presidente a interim di Jeanine Añez affermando che avrebbe inviato La Paz “una persona per seguire l’andamento della situazine boliviana”.
La stessa fonte brasiliana ricorda che Camacho avrebbe garantito al ministro Ernesto Araujo la realizzazione di un programma di privatizzazione come quello brasiliano, primo fra tutti la privatizzazione della YPFB, la statale del gas.
La necessità della rielezione di Evo e il golpe
Alcuni settori della sinistra hanno criticato la decisione del presidente Evo Morales di ricorrere al Tribunale Costituzionale per ottenere quello che non aveva raggiunto con il referendum, vale a dire l’opportunità di poter concorrere alle elezioni presidenziali per la quarta volta. Per altri Evo avrebbe peccato di testardaggine, oltre ad essere stato sedotto dal potere.
Giudizi veicolati dai grandi media boliviani, statunitensi ed europei che all’unisono nel 2016, in occasione del referendum, personalizzarono la campagna mediatica contro Evo Morales, creando Fake News assurde, che furono accolte e recepite soprattutto dalla classe media, in particolare quella di La Paz.
La stessa che, nel mese di ottobre ha appoggiato il colpo di stato pensato e promosso a Santa Cruz de la Sierra dal locale Comitê. Infatti, il referendum del 2016 fu volgarmente manipolato con il caso “Gabriela Zapata”.
Costei, presentata dai media come “l’amante” di Evo, guadagnò migliaia di dollari realizzando interviste in cui descriveva Evo Morales come il più sordido, il più corrotto, il più squallido individuo della Bolivia. Per poi “dulcis in fundo” accusarlo anche della morte di un figlio mai esistito.
Purtroppo, soltanto il 23 maggio 2017, la magistratura scopri la verità condannando Gabriela Zapata a dieci anni di prigione per falsità ideologica, uso di documenti falsificati, associazione a delinquere e uso indebito di beni pubblici. Purtroppo, nel 2017, i boliviani avevano già votato contro Evo!
Quindi, per Evo e per i dirigenti del MAS (Movimiento al Socialismo), era evidente che il referendum era stato manipolato dai media con il caso di Gabriela Zapata, dunque la richiesta al Tribunale Costituzionale sembrava ampiamente giustificata.
Nello stesso tempo i servizi di informazione boliviani avevano rivelato al presidente che in caso di vittoria del leader dell’opposizione, Carlos Mesa, tutti i progetti strategici creati dal governo sarebbe stati dissolti e le imprese statali privatizzate. Prime fra tutte la statale del gas, la YPFB e quella mineraria COMIBOL, responsabile dell’industrializzazione del litio e dell’uranio.
È imperativo ricordare che Carlos Mesa divenne presidente della Bolivia nell’ottobre del 2003 a causa delle dimissioni e della fuga negli USA del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. Infatti, per evitare di essere processato per la drammatica repressione dei manifestanti che protestavano contro gli aumenti dei prezzi del gas dopo le privatizzazioni (80 morti e 523 feriti), Lozada fuggi grazie all’aiuto dell’ambasciata statunitense.
Inoltre, fu proprio Carlos Mesa, nella qualità di vicepresidente, ad aver negoziato le privatizzazioni con le multinazionali, autorizzando, in seguito, l’aumento delle tariffe del gas per uso civile.
Comunque, la grande problematica che ha notevolmente pesato sulla decisione di Evo Morales di concorrere a tutti i costi per la quarta volta riguarda il cambio politico che un’eventuale vittoria di Carlos Mesa avrebbe imposto al popolo boliviano con il ritorno delle privatizzazioni, distruggendo tutto quello che era stato costruito durante i suoi tre governi. In pratica quello che Moreno sta facendo in Ecuador e quello che Bolsonaro ha già fatto in Brasile.
Un’altra constatazione che ha influenzato notevolmente la decisione di Evo è che il suo vicepresidente, Alvaro Garcia, pur essendo un antico leader della sinistra boliviana, non è indigeno. Un elemento che nella società andina ha una grande importanza.
Infatti la Bolivia è un paese dove il 58% della popolazione è etnicamente indigeno (28% sono Quechuas, 19% Aymaras e 11% di altri gruppi etnici indigeni), poi il 30% è formato dai “Mestizos” (figli di europei con indigeni) e solo il 12% è di origine europea.
Purtroppo gli altri dirigenti e parlamentari del MAS, tra cui Victor Borda, ex presidente della Camera dei Deputati, non avevano una dimensione nazionale capace di sostituire l’immagine di Evo Morales. In secondo luogo non avevano la stessa capacità di dialogo con le masse e la disposizione di affrontare la destra e i media nelle elezioni di ottobre.
Nel campo dell’opposizione, la certezza che Evo Morales si sarebbe presentato alle elezioni di ottobre, nonostante il risultato negativo del referendum del 2016, ha permesso a Luis Fernando Camacho di trasformare il suo Comitê Santa Cruz nella centrale operativa del colpo di stato e quindi dell’azione terrorista e sovversiva delle Milicias. Gruppi paramilitari ormai pronti ad agire in quasi tutto il territorio della Bolivia, grazie, soprattutto alla copertura della polizia e al “silenzio” dell’esercito.
Infatti, subito dopo le forzate dimissioni di Evo Morales, per evitare che Victor Borda assumisse l’incarico di presidente ad interim, in quanto Presidente della Camera dei Deputati, le “Milicias” di Camacho hanno attaccato la residenza di Victor Borda e poi sequestrato il fratello, minacciandolo di morte.
Di fronte a questo ricatto Victor Borda ha dato le dimissioni in cambio della vita del fratello!
La Bolivia di Evo, le relazioni con gli Usa e la presenza della Cina
Dopo l’espulsione dell’ambasciatore statunitense Philp Goldberg, il 12 settembre 2008, le relazioni diplomatiche e politiche tra Bolivia e Stati Uniti hanno vissuto momenti difficili. Basti pensare che nello stesso anno fu espulsa tutta la delegazione della DEA, accusata di “cospirazione”. Poi, nel 2013, fu l’USAID ad essere espulsa dal governo boliviano.
Solo negli ultimi anni le relazioni diplomatiche tra i due paesi si erano stabilizzate, soprattutto con l’arrivo di Bruce Williamson in qualità di Incaricato d’Affari. Invece, negli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato e la CIA decidevano di ampliare gli effetti della “guerra ibrida” contro il governo bolivariano di Nicolas Maduro, anche contro il governo di Evo Morales.
Per questo motivo varie entità governative, ONG e fondazine statunitensi hanno moltiplicato le relazioni con le forze dell’opposizione boliviana, cercando, in questo modo, di ripetere il processo d’infiltrazione già perfettamente realizzato in Brasile, in Venezuela e in Ecuador.
Basti pensare che nel gennaio di quest’anno la deputata repubblicana Ileana Ros-Lehtinen, dichiarava al Congresso che “il presidente Morales non poteva perpetuarsi nel potere, per questo il popolo della Bolivia necessitava dell’aiuto degli Stati Uniti”.
In seguito l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, Nikky Haley, nel mese di agosto, durante la sua “missione diplomatica” in Colombia dichiarava “La Bolivia, dopo il Venezuela, è il paese che dobbiamo seguire con attenzione”.
Un’infiltrazione che è coordinata da agenzie e subagenzie del Dipartimento di Stato. Infatti la NED (Fondazione Nazionale per lo Sviluppo) realizza i suoi programmi appoggiandosi a 30 ONG boliviane e due istituti privati statunitensi, l’Istituto Repubblicano Internazionale e il Centro per l’Impresa Privata Internazionale, con i quali porta avanti il progetto “Governo e Società Civile”. Un progetto che forma i nuovi quadri dirigenti per i partiti di opposizione, secondo le norme del liberalismo statunitense.
È necessario ricordare che il governo di Evo Morales, non è mai riuscito a tagliare il cordone ombelicale che lega la polizia boliviana alla CIA/DEA e gli ufficiali superiori delle Forze Armate al Pentagono.
Questo perché l’esercito della Bolivia, insieme a quello della Venezuela, a partire dal 1962, furono completamente ristrutturati in base alle norme dell’accademia militare statunitense. Basti pensare che in America Latina il primo battaglione di “Rangers”, specializzato nella contro-guerriglia, fu creato dal Pentagono in Bolivia, appositamente per circondare ed eliminare il foco guerrigliero montato da Che Guevara con il nascente ELN.
In realtà, il governo socialista-progressista di Evo Morales, come pure quelli di Rafael Correa e di Lula, non sono mai riusciti ad avere il pieno riconoscimento da parte degli ufficiali superiori. Una situazione che ha sempre permesso l’infiltrazione da parte delle antenne delle CIA, della DEA e del Dipartimento di Stato.
Evo, Correa e Lula hanno sempre creduto che facendo pesare sui militari l’istituzione del governo, la carta costituzionale e le vittorie elettorali, in un certo senso, avrebbero ottenuto relazioni di rispetto, che però non sono state mai di fedeltà da parte dei militari e della polizia.
Infatti, se l’esercito, i servizi d’Intelligence e la polizia federale brasiliana fossero stati realmente compromessi con la governabilità e i concetti costituzionali, non avrebbero permesso l’organizzazione dell’Impeachment nei confronti del presidente Dilma Roussef.
Lo stesso si può dire per l’Ecuador, dove i servizi segreti e i servizi di l’intelligence dell’esercito hanno praticamente sostenuto il tradimento del neopresidente Moreno, cospirando per provocare l’arresto del vicepresidente Jorge Glas.
In Bolivia, bisogna riconoscere che Evo Morales non ha mai represso gli avversari politici usando la forza di chi è stato eletto con il 67%. Basti pensare che quando fu scoperto e sgominato il progetto secessionista della Mezza Luna, nella provincia di Santa Cruz de la Sierra, il governo e lo stesso Evo Morales lasciarono alla magistratura il compito d’investigare e di processare i pochi responsabili degli atti di terrorismo presentati dalla polizia.
In pratica il governo boliviano si accontentò della vittoria politica, convinto che le poche condanne dei tribunali e la convivenza democratica nel Parlamento avrebbero educato l’opposizione.
Un altro problema che collega direttamente il colpo di stato in Bolivia con il governo degli Stati Uniti è la nuova e profonda relazione politica, economica e finanziaria che il governo di Evo Morales stava sviluppando con la Cina.
Infatti per l’ex ministro degli esteri brasiliano Celso Amorim “In termini geo-strategici la Bolivia è il centro dell’America Latina, che in questi anni è cresciuta moltissimo, scoprendo un potenziale di ricchezze minerarie non indifferente. Per questo, quando gli Stati uniti si sono resi conti che il governo di Evo Morales si stava aprendo ad altre forze mondiali, in particolare la Cina, hanno deciso di agire. Non ci sono dubbi. L’influenza degli Stati Uniti in Bolivia è permanente e le forze dell’opposizione sono tendenzialmente portate alla cospirazione sovversiva. E dico questo perché nel 2008 io stavo lì e conosco il contesto di Santa Cruz che nel 2008 stava gettando la Bolivia nel vortice della guerra civile“.
Seguendo le constatazioni di Celso Amorin è imperativo ricordare che negli ultimi anni la Bolivia è diventato uno dei principali esportatori mondiali di antimonio, stagno, tungsteno e boro di cui le industrie degli Stati Uniti hanno assoluto bisogno. Inoltre, dal 2016 la Corporación Minera de Bolivia (Comibol), ha iniziato a sostituire le fonderie statunitensi con quelle spagnole e soprattutto cinesi, per processare e commercializzare in lingotti i minerali estratti negli altipiani boliviani.
Una dipendenza cui, comunque, Evo Morales pensava di metter fine grazie alla “cooperazione finanziaria” cinese (pari a 7 miliardi di dollari), con la costruzione in Bolivia d’impianti siderurgici per la raffinazione dello zinco, da cui si estrae l’indio, che è un altro materiale strategico di cui le industrie statunitensi hanno un assoluto bisogno.
Sempre con l’apporto e la cooperazione di imprese cinesi, russe, francesi, canadesi e tedesche, il governo di Evo Morales aveva progettato il potenziamento e l’estrazione di tutti i minerali strategici presenti nel sottosuolo boliviano, tali come il litio, il cobalto, il palladio, l’antimonio, il bismuto, il cadmio, il cromo e il volframio, oltre ad aumentare i volumi produttivi dei minerali tradizionali, vale a dire: oro, stagno, manganese, zinco, argento, platino, potassio, nickel, ferro, rame e soprattutto uranio.
Un contesto che non sfuggiva agli analisti compenetrati negli sviluppi economici della Bolivia. Infatti Axel Arías Jordan, il 20 settembre 2018, anticipando l’interesse degli Stati Uniti per un cambio in Bolivia così scriveva: ”Lo scontro elettorale che si realizzerà in ottobre del 2019, si preannuncia come uno delle grandi sfide per un eventuale cambio politico in Bolivia. Motivo per cui bisogna stare molto attenti a come il governo e il settore privato degli Stati Uniti prenderanno in mano questo processo e se decideranno di attuare in funzione di determinati interessi politici ed economici relazionati con la Bolivia. Infatti, oltre ai tradizionali interessi per il controllo di un paese divenuto mondialmente famoso per la sua potenzialità mineraria, gli Stati Uniti hanno altri interessi fondamentali legati alla difesa e ai vincoli commerciali esistenti tra la Bolivia e la Cina. In definitiva, pur continuando a mantenere il mirino sul Venezuela, è molto probabile che il governo degli Stati Uniti indurirà le differenti forme di pressione sul governo boliviano!”
Purtroppo l’indurimento dell’imperialismo c’è stato con un colpo di stato, pensato nel gennaio di quest’anno per poi essere pianificato a partire da maggio. Un colpo di stato che vuole essere mascherato con una Bibbia, per non dire che è l’ennesima soluzione imperialista per arricchirsi espropriando le immense ricchezze minerarie boliviane.
Fonte
26/08/2019
Bruciare l’Amazzonia è un crimine contro l’umanità
Su quanto sta accadendo nella grande foresta amazzonica, pubblichiamo un documento della rete internazionale Via Campesina della quale è parte decisiva il Movimento Sem Terra brasiliano.
*****
Nei giorni scorsi città e governi di tutto il mondo hanno assistito alle conseguenze di recenti e gravi crimini contro la foresta pluviale amazzonica. Le nuvole di fumo propagatesi dal sud-est del Brasile e, in particolare, dalla città di San Paolo, sono direttamente collegate al drammatico aumento degli incendi in varie parti della giungla e delle aree di transizione con il Cerrado.
È essenziale che tutta la società brasiliana, latinoamericana e mondiale sappia chiaramente che questo non è un fenomeno isolato. In realtà, è il risultato di una serie di azioni del business agroalimentare e minerario, ampiamente supportate e incoraggiate dal governo di Bolsonaro e che sono iniziate con la sua elezione.
Dopo quasi due decenni di riduzione della deforestazione, l’attuale presidente e il suo ministro dell’ambiente, Ricardo Salles, hanno articolato un discorso violento contro la legislazione brasiliana e i meccanismi di conservazione ambientale, aumentando nel contempo la persecuzione e la criminalizzazione di popolazioni che hanno protetto storicamente i biomi brasiliani: popolazioni indigene e famiglie contadine.
Da quando è in carica il nuovo governo, i discorsi provenienti da Brasilia hanno attaccato le licenze ambientali, il controllo e il monitoraggio dello Stato sulle attività agricole e minerarie, che sono precisamente gli elementi che avrebbero potuto prevenire i crimini di Mariana e Brumadinho, nel Minas Gerais.
Allo stesso tempo, il governo ha consegnato il servizio forestale brasiliano ai rappresentanti delle zone rurali, ha implementato il controllo militare presso l’Istituto Chico Mendes (ICMBio) ed ha vietato le azioni di controllo IBAMA, oltre ad attaccare pubblicamente i server di tutte quelle istituzioni. L’enorme taglio delle risorse, imposto dalla politica neoliberista sotto il comando del ministro delle finanze Paulo Guedes, ha reso la situazione completamente insostenibile.
Le denunce sono iniziate già nel 2018, attraverso villaggi e comunità tradizionali nella regione, che vengono perseguitati dai proprietari terrieri e dalla polizia.
Anche le ONG socio-ambientali vengono criminalizzate e perseguitate da questo governo.
Infine, scienziati di varie organizzazioni, università e persino dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), riconosciuti a livello internazionale, hanno denunciato le conseguenze e sono stati accolti con licenziamenti e ordini per la non divulgazione dei dati.
La risposta di paesi come la Norvegia e la Germania a questo brutale cambiamento nella politica del governo è stata la sospensione dei trasferimenti al Fondo Amazzonia, a cui il governo di Bolsonaro ha risposto con disprezzo e accuse completamente infondate.
Le dimensioni del crimine contro l’umanità sono allarmanti. Solo quest’anno, ci sono già più di 70.000 fonti di fuoco, 33.000 delle quali in Amazzonia, con un aumento del 60% rispetto alla media degli ultimi tre anni. Solo tra il 10 e l’11 agosto si è registrato un aumento del 300%, quando i settori del business agroalimentare della regione hanno dichiarato la “Giornata del fuoco”. Le immagini satellitari mostrano anche un progresso nel settore minerario artigianale, che non si vedeva dagli anni ’80, principalmente nei territori indigeni.
Queste azioni, pienamente supportate dall’attuale governo brasiliano, devono essere riconosciute come crimini contro l’umanità e danni irreparabili al popolo e alla natura brasiliani. In tempi in cui il mondo si scontra con le conseguenze dei cambiamenti climatici, questa posizione è completamente inaccettabile.
Dobbiamo anche ricordare che l’Amazzonia non è un territorio “selvaggio”, ma una mega regione diversificata in biodiversità e città. Millenni fa, diverse forme di convivenza in quel bioma producevano beni comuni che oggi non possono essere separati dalla giungla. Non esiste foresta pluviale amazzonica senza i suoi popoli, né esistiamo senza di essa. La conservazione dell’Amazzonia è possibile solo insieme alla difesa dei territori indigeni e tradizionali, all’agroecologia e alle politiche di sanità pubblica, cultura e istruzione che hanno come protagonisti i popoli della regione.
Pertanto, noi organizzazioni contadine de La Vía Campesina, denunciamo i veri colpevoli di questo crimine di proporzioni storiche: l’agroindustria e l’industria mineraria, sostenuta dal governo di Bolsonaro.
Chiediamo la lotta immediata contro i crimini ambientali, mentre chiediamo la garanzia dei diritti dei popoli dell’Amazzonia, i loro reali e storici protettori. È di vitale importanza che l’intera società brasiliana si opponga a questa atrocità! L’Amazzonia è un territorio di vita, cibo, acqua, culture, non distruzione, morte, sfruttamento!
Contro l’avanzata del capitale, i popoli in difesa dell’Amazzonia!
Fonte
10/04/2016
Cina. Lacrime e sangue per i lavoratori delle aziende di Stato
“Ora che il governo centrale ha ordinato alle miniere e alle acciaierie cinesi di ridurre drasticamente la sovracapacità, il compito spinoso di licenziare i dipendenti e ricostruire l’economia sta producendo le sue ferite. E il dolore si sta diffondendo in tutto il Paese tra lavoratori, aziende e governi locali”.
L’incipit di un articolo pubblicato il 16 marzo scorso dal quindicinale Caixin non poteva essere più efficace nel descrivere le difficoltà che la leadership di Pechino affronterà nei prossimi mesi nell’applicare le riforme strutturali dell’offerta promosse dal presidente Xi Jinping e inserite nel 13° Piano quinquennale (2016-2020) recentemente approvato dall’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento della Repubblica popolare.
Mantenere per 30 anni in doppia cifra la crescita del prodotto interno lordo (Pil) potendo contare sul cosiddetto “dividendo demografico” (abbondanza di manodopera giovane e salari bassi) e senza rispettare l’ambiente – sostengono molti analisti – è stato facile, il bello arriva ora, nel momento in cui il vecchio modello di sviluppo da “fabbrica del mondo” presenta drammaticamente il conto e s’impone un rapido cambiamento di schema.
Crescita del Pil più lenta (Li Keqiang ha messo sul tavolo un’inedita “forchetta”, tra il 6,5% e il 7% di qui al 2020), riduzione della dipendenza dall’export e dagli investimenti, sforbiciata all’eccesso di capacità produttiva che affligge molti settori, riforma delle aziende di Stato (SOE), sviluppo della green economy e del terziario: è tutto nero su bianco nel documento di pianificazione di sovietica memoria (il primo adottato in Cina fu quello del 1953-1957) che il premier ha portato nei giorni scorsi in aula. Ma una cosa sono gli obiettivi del Piano, un’altra il loro raggiungimento che, per i prossimi cinque anni si annuncia, oltre che complicato, “doloroso”.
Tra i settori più colpiti dalle ristrutturazioni figurano quello minerario e quello siderurgico. Secondo l’Associazione nazionale dei produttori di carbone, il 90% delle principali aziende minerarie ha visto i profitti diminuire del 90% nel 2015, mentre i dati dell’Associazione cinese del ferro e dell’acciaio dicono che le 99 maggiori realtà siderurgiche del Paese l’anno scorso hanno perso nel complesso 64,5 miliardi di yuan. Il rallentamento dell’economia cinese fa sentire il suo effetto sulla siderurgia, con la domanda interna diminuita del 4% sia nel 2013 sia nel 2014 e del 5,4% l’anno scorso. E le previsioni parlano di un calo medio del 4% annuo fino al 2020. Nel tentativo di limitarne le ripercussioni sull’occupazione, nel 2015 sono state prodotte 300 milioni di tonnellate di acciaio in eccesso. La sovracapacità di carbone, sempre l’anno scorso, ammonta a 1,7 miliardi di tonnellate.
Nel rapporto del governo che il 5 marzo scorso Li ha portato all’Assemblea nazionale del popolo si sottolinea la necessità di rimodulare la produzione di acciaio e carbone secondo le riforme strutturali dell’offerta previste dal Piano. Una recente direttiva del Consiglio di Stato (il governo) ha fissato gli obiettivi di riduzione a 100 – 150 milioni di tonnellate per quanto riguarda l’acciaio (-13%) e 500 milioni di tonnellate per il carbone (-18%) nell’arco dei prossimi cinque anni.
Il premier ha fatto sapere che lo Stato stanzierà 100 miliardi di yuan per i prossimi due anni, per mantenere i lavoratori che perderanno il posto: 1,8 milioni nei prossimi cinque anni secondo il ministro delle risorse umane Yin Weimin (1,3 milioni nel settore minerario e 500 mila in quello siderurgico).
La terapia d’urto per cercare di cambiare un sistema produttivo giunto al capolinea non si limiterà al carbone e all’acciaio: presto anche cemento, alluminio e vetro saranno colpiti dalla cura dimagrante delle riforme strutturali. Secondo Caixin, i governi di molte province si stanno adeguando alle nuove direttive, anche per ottenere in cambio sostegno finanziario e sussidi per i lavoratori da ricollocare.
L’incipit di un articolo pubblicato il 16 marzo scorso dal quindicinale Caixin non poteva essere più efficace nel descrivere le difficoltà che la leadership di Pechino affronterà nei prossimi mesi nell’applicare le riforme strutturali dell’offerta promosse dal presidente Xi Jinping e inserite nel 13° Piano quinquennale (2016-2020) recentemente approvato dall’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento della Repubblica popolare.
Mantenere per 30 anni in doppia cifra la crescita del prodotto interno lordo (Pil) potendo contare sul cosiddetto “dividendo demografico” (abbondanza di manodopera giovane e salari bassi) e senza rispettare l’ambiente – sostengono molti analisti – è stato facile, il bello arriva ora, nel momento in cui il vecchio modello di sviluppo da “fabbrica del mondo” presenta drammaticamente il conto e s’impone un rapido cambiamento di schema.
Crescita del Pil più lenta (Li Keqiang ha messo sul tavolo un’inedita “forchetta”, tra il 6,5% e il 7% di qui al 2020), riduzione della dipendenza dall’export e dagli investimenti, sforbiciata all’eccesso di capacità produttiva che affligge molti settori, riforma delle aziende di Stato (SOE), sviluppo della green economy e del terziario: è tutto nero su bianco nel documento di pianificazione di sovietica memoria (il primo adottato in Cina fu quello del 1953-1957) che il premier ha portato nei giorni scorsi in aula. Ma una cosa sono gli obiettivi del Piano, un’altra il loro raggiungimento che, per i prossimi cinque anni si annuncia, oltre che complicato, “doloroso”.
Tra i settori più colpiti dalle ristrutturazioni figurano quello minerario e quello siderurgico. Secondo l’Associazione nazionale dei produttori di carbone, il 90% delle principali aziende minerarie ha visto i profitti diminuire del 90% nel 2015, mentre i dati dell’Associazione cinese del ferro e dell’acciaio dicono che le 99 maggiori realtà siderurgiche del Paese l’anno scorso hanno perso nel complesso 64,5 miliardi di yuan. Il rallentamento dell’economia cinese fa sentire il suo effetto sulla siderurgia, con la domanda interna diminuita del 4% sia nel 2013 sia nel 2014 e del 5,4% l’anno scorso. E le previsioni parlano di un calo medio del 4% annuo fino al 2020. Nel tentativo di limitarne le ripercussioni sull’occupazione, nel 2015 sono state prodotte 300 milioni di tonnellate di acciaio in eccesso. La sovracapacità di carbone, sempre l’anno scorso, ammonta a 1,7 miliardi di tonnellate.
Nel rapporto del governo che il 5 marzo scorso Li ha portato all’Assemblea nazionale del popolo si sottolinea la necessità di rimodulare la produzione di acciaio e carbone secondo le riforme strutturali dell’offerta previste dal Piano. Una recente direttiva del Consiglio di Stato (il governo) ha fissato gli obiettivi di riduzione a 100 – 150 milioni di tonnellate per quanto riguarda l’acciaio (-13%) e 500 milioni di tonnellate per il carbone (-18%) nell’arco dei prossimi cinque anni.
Il premier ha fatto sapere che lo Stato stanzierà 100 miliardi di yuan per i prossimi due anni, per mantenere i lavoratori che perderanno il posto: 1,8 milioni nei prossimi cinque anni secondo il ministro delle risorse umane Yin Weimin (1,3 milioni nel settore minerario e 500 mila in quello siderurgico).
La terapia d’urto per cercare di cambiare un sistema produttivo giunto al capolinea non si limiterà al carbone e all’acciaio: presto anche cemento, alluminio e vetro saranno colpiti dalla cura dimagrante delle riforme strutturali. Secondo Caixin, i governi di molte province si stanno adeguando alle nuove direttive, anche per ottenere in cambio sostegno finanziario e sussidi per i lavoratori da ricollocare.
Il 18 marzo scorso, Beijing News ha dato la notizia di un processo celebrato sulla pubblica piazza contro otto migranti a Langzhong, nella provincia sudoccidentale del Sichuan. Gli operai erano stati accusati di aver “ostacolato le forze dell’ordine” durante una protesta inscenata l’anno scorso per chiedere gli arretrati al loro datore di lavoro, un costruttore. Secondo quanto riferito dal quotidiano, sono stati puniti con pene da sei a otto mesi di carcere. La sentenza letta in strada (un evento raro nei confronti di lavoratori) – che secondo Beijing news mira a “educare il pubblico al rispetto della legge” – testimonia dei timori della leadership per l’aumento degli scioperi, che rischiano di incrinare la “stabilità sociale”.
A fine febbraio, circa 2.000 operai hanno marciato lungo le strade di Guangzhou (Canton) per protestare contro i tagli ai salari operati dall’azienda siderurgica Lianzhong Stainless Steel Corp. (in mano al colosso di Stato Angang).
Negli stessi giorni a Pingxiang, nella provincia orientale del Jiangxi, un centinaio di minatori assediava l’ufficio della Pingxiang Mining Industry Group che aveva sospeso l’estrazione in tre impianti e tagliato i salari di alcuni dei suoi 16.200 impiegati.
Nel periodo tra il 1 dicembre e l’8 febbraio scorso, China Labour Bulletin ha registrato un aumento del 55% delle proteste per il mancato pagamento di arretrati nel settore delle costruzioni, insieme a un incremento del 23% in quello manifatturiero e del 5,6% in quello minerario. Nel novembre scorso, il ministero delle Risorse umane e della Sicurezza pubblica ha riferito che, rispetto allo stesso periodo del 2014, nei primi tre trimestri del 2015 le proteste di questo tipo sono aumentate del 34%: 11.007 manifestazioni di lavoratori migranti che chiedevano il pagamento degli arretrati.
Ma le proteste segnalate dall’organizzazione non governativa con sede a Hong Kong potrebbero rappresentare soltanto l’anticipo di ciò che vedremo nei prossimi mesi, quando dovrebbe entrare nel vivo la riforma delle aziende di Stato (SOE).
Tagli, fusioni, ristrutturazioni: la terapia shock per “diventare globali”
Ciò di cui si discute è la trasformazione di alcune SOE (anche attraverso ristrutturazioni e fusioni) in conglomerati in grado di competere con le maggiori corporation sui mercati internazionali. Per raggiungere questo traguardo è necessario tagliare i costi, tra cui quello del lavoro. “Il primo esempio è quello dell’industria petrolifera – scrive News China nel numero di aprile –. Nel 2015 Sinopec, la principale compagnia di raffinazione cinese, ha vantato il secondo ricavo annuale nella classifica ‘Fortune Global 500’. Tuttavia i suoi profitti sono stati pari solo al 35% di quelli della terza in graduatoria, Royal Dutch Shell, che ha un numero di dipendenti pari al 10% della sua concorrente cinese”.
Per evidenziare quanto un cambiamento delle SOE sia improcrastinabile, il giornale ricorda che, nel frattempo, “aziende del settore pubblico come quelle dei trasporti, sanitarie e dell’istruzione, sono diventate così orientate al mercato che hanno prodotto un impatto negativo sul welfare e costano così tanto che sono accusate di contribuire a mantenere bassi i consumi”.
Rimandata per anni, la riforma delle SOE (106 quelle “centrali”, controllate dalla State-owned Assets Supervision and Administration Commission, SASAC, migliaia se si considerano anche quelle provinciali e regionali) rientra tra gli obiettivi della leadership e viene chiesta a gran voce dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Il 29 dicembre scorso la SASAC, la National Development and Reform Commission (NDRC) e il ministero delle Finanze hanno pubblicato le linee guida che riscrivono le funzioni di queste compagnie, alcune delle quali sono state definite “aziende zombie” per le perdite prodotte e la quantità di dipendenti a libro paga.
Tutte le SOE – che hanno garantito per decenni ai loro dipendenti la celeberrima “ciotola di riso di ferro” (vitto, alloggio e servizi di base gratuiti) – diventeranno “entità di mercato”, dovranno cioè produrre utili. Quanto però ogni SOE opererà effettivamente come un attore di mercato dipenderà da come sarà classificata.
In base alla nuova politica, le SOE saranno suddivise in due categorie: quelle di “pubblico interesse”, cioè che forniscono beni o servizi alla popolazione e che resterebbero interamente finanziate e guidate dal governo; e tutte le altre, definite “commerciali”, completamente o parzialmente di proprietà dello Stato, ma con un management “indipendente”.
Si tratta di una suddivisione estremamente problematica. Basti pensare – sottolinea Caixin – che un’azienda come State Grid (fornitura elettrica) pur ricadendo naturalmente tra quelle di “pubblico interesse”, ha sviluppato negli anni un’estesissima rete di attività in altri settori di tipo commerciale.
“Molto più delle aziende private – conclude l’articolo di News China – in tutto il mondo le aziende di Stato devono mantenere un equilibrio tra i loro obiettivi sociali e quelli finanziari. A seconda di quanto questa operazione ha successo, ha ripercussioni sul complesso dell’economia e della società. E ciò vale in particolare per le SOE cinesi, la cui influenza resterà molto significativa, sia in Cina che nel mondo”.
Fonte
A fine febbraio, circa 2.000 operai hanno marciato lungo le strade di Guangzhou (Canton) per protestare contro i tagli ai salari operati dall’azienda siderurgica Lianzhong Stainless Steel Corp. (in mano al colosso di Stato Angang).
Negli stessi giorni a Pingxiang, nella provincia orientale del Jiangxi, un centinaio di minatori assediava l’ufficio della Pingxiang Mining Industry Group che aveva sospeso l’estrazione in tre impianti e tagliato i salari di alcuni dei suoi 16.200 impiegati.
Nel periodo tra il 1 dicembre e l’8 febbraio scorso, China Labour Bulletin ha registrato un aumento del 55% delle proteste per il mancato pagamento di arretrati nel settore delle costruzioni, insieme a un incremento del 23% in quello manifatturiero e del 5,6% in quello minerario. Nel novembre scorso, il ministero delle Risorse umane e della Sicurezza pubblica ha riferito che, rispetto allo stesso periodo del 2014, nei primi tre trimestri del 2015 le proteste di questo tipo sono aumentate del 34%: 11.007 manifestazioni di lavoratori migranti che chiedevano il pagamento degli arretrati.
Ma le proteste segnalate dall’organizzazione non governativa con sede a Hong Kong potrebbero rappresentare soltanto l’anticipo di ciò che vedremo nei prossimi mesi, quando dovrebbe entrare nel vivo la riforma delle aziende di Stato (SOE).
Tagli, fusioni, ristrutturazioni: la terapia shock per “diventare globali”
Ciò di cui si discute è la trasformazione di alcune SOE (anche attraverso ristrutturazioni e fusioni) in conglomerati in grado di competere con le maggiori corporation sui mercati internazionali. Per raggiungere questo traguardo è necessario tagliare i costi, tra cui quello del lavoro. “Il primo esempio è quello dell’industria petrolifera – scrive News China nel numero di aprile –. Nel 2015 Sinopec, la principale compagnia di raffinazione cinese, ha vantato il secondo ricavo annuale nella classifica ‘Fortune Global 500’. Tuttavia i suoi profitti sono stati pari solo al 35% di quelli della terza in graduatoria, Royal Dutch Shell, che ha un numero di dipendenti pari al 10% della sua concorrente cinese”.
Per evidenziare quanto un cambiamento delle SOE sia improcrastinabile, il giornale ricorda che, nel frattempo, “aziende del settore pubblico come quelle dei trasporti, sanitarie e dell’istruzione, sono diventate così orientate al mercato che hanno prodotto un impatto negativo sul welfare e costano così tanto che sono accusate di contribuire a mantenere bassi i consumi”.
Rimandata per anni, la riforma delle SOE (106 quelle “centrali”, controllate dalla State-owned Assets Supervision and Administration Commission, SASAC, migliaia se si considerano anche quelle provinciali e regionali) rientra tra gli obiettivi della leadership e viene chiesta a gran voce dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Il 29 dicembre scorso la SASAC, la National Development and Reform Commission (NDRC) e il ministero delle Finanze hanno pubblicato le linee guida che riscrivono le funzioni di queste compagnie, alcune delle quali sono state definite “aziende zombie” per le perdite prodotte e la quantità di dipendenti a libro paga.
Tutte le SOE – che hanno garantito per decenni ai loro dipendenti la celeberrima “ciotola di riso di ferro” (vitto, alloggio e servizi di base gratuiti) – diventeranno “entità di mercato”, dovranno cioè produrre utili. Quanto però ogni SOE opererà effettivamente come un attore di mercato dipenderà da come sarà classificata.
In base alla nuova politica, le SOE saranno suddivise in due categorie: quelle di “pubblico interesse”, cioè che forniscono beni o servizi alla popolazione e che resterebbero interamente finanziate e guidate dal governo; e tutte le altre, definite “commerciali”, completamente o parzialmente di proprietà dello Stato, ma con un management “indipendente”.
Si tratta di una suddivisione estremamente problematica. Basti pensare – sottolinea Caixin – che un’azienda come State Grid (fornitura elettrica) pur ricadendo naturalmente tra quelle di “pubblico interesse”, ha sviluppato negli anni un’estesissima rete di attività in altri settori di tipo commerciale.
“Molto più delle aziende private – conclude l’articolo di News China – in tutto il mondo le aziende di Stato devono mantenere un equilibrio tra i loro obiettivi sociali e quelli finanziari. A seconda di quanto questa operazione ha successo, ha ripercussioni sul complesso dell’economia e della società. E ciò vale in particolare per le SOE cinesi, la cui influenza resterà molto significativa, sia in Cina che nel mondo”.
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