Il Paese resta diviso fra le fazioni islamica e occidentalista, ripete un copione privo di soluzioni che rilancia occupazione del potere anziché interessi nazionali
Il Cairo festeggia Eid Al-Fitr, giorno di chiusura del sacro mese del Ramadan, ma sempre da piazze contrapposte. Stamane in quella Rabaa Al-Adawiya, nella periferica Nasr City diventata dai primi di luglio l’area della protesta contro il colpo di mano liberal-militare, si è rinfocolato il raduno permanente a sostegno del presidente deposto. Lì nella serata di ieri era salita sul palco Naglaa Mursi, la consorte dell’ex capo di Stato agli arresti dal 3 luglio, invitando la folla a resistere e reclamare il ripristino della legalità. Una mossa inusitata per l’ortodossia della Fratellanza Musulmana non abituata a mescolare vita pubblica e privata che potrebbe rappresentare un segnale d’impasse della protesta che cerca nuovi stimoli fuori dalla rituale ortodossia. Oggi però, accanto al mega incontro di preghiera e di festa lanciato a Tahrir da Tamarod e forze politiche che appoggiano El-Beblawi, ben cinque cortei al Cairo e tre a Giza hanno riproposto l’indignazione contro un governo giudicato illegittimo. Un governo che per bocca del premier si dichiara non disposto a tollerare ulteriormente le proteste di piazza e minaccia nuovi interventi risoluti, come quelli che a inizio luglio fecero strage di 51 manifestanti.
Eppure l’attuale esecutivo, forte del supporto militare suggellato dal vicepremierato del generale Al-Sisi che vuole piazze sgombre da manifestanti d’ogni tendenza, lascia tiepida addirittura la delegazione internazionale formata da Usa, Ue, Qatar e Emirati Arabi. Era giunta al Cairo pensando d’invogliare i contendenti al compromesso invece è dovuta ripartire senza un’alternativa a una crisi drammaticamente cronicizzata. Fra leader (El Baradei, El-Beblawi) che proclamano il dialogo ma di fatto lo evitano avallando il golpe bianco e i Fratelli scippati d’un potere creduto possibile per un quadriennio e presto svilito dalla propria scarsa real-politik cammina una verità bifronte. Hanno ragione e torto tutti però ciascuno continua a lavorare per sé più che per il bene della nazione, anche adesso che si sfiora il baratro. Mentre i giochi dei poteri interni (lobby militare, magistratura) e internazionali (gli stessi arbitri mediatori) proseguono nel tener vivo un insensato immobilismo. Ha ragione chi ricorda i loschi imboscamenti attuati nei mesi scorsi da parte di gruppi economici che commerciano prodotti di pubblica necessità (carburanti, frumento) per far ricadere colpe di penuria sul governo Qandil.
Come non sono lontani dalla realtà quei commentatori che accusano la vecchia casta politica, composta da mubarakiani, liberal ma anche da islamisti moderati e radicali di lontananza dal bisogno d’innovazione che viene dalla parte più sensibile del Paese. Un desiderio trasversale: laico e religioso, desiderio di minoranza di un Egitto che si autocostringe al corto circuito bipolare. Così la lotta resta ferma all’antico filo occidentalismo e a un Islam politico ingessato e già logorato dalla mancanza d’impulsi e idee nuove. Nel suo clero prevalgono appartenenze a schieramenti quando nelle ore di preghiera per la chiusura del Ramadan si ascoltano le voci dello sheikh Mazar Shahin sostenitore della “seconda rivoluzione” incarnata, a suo dire, dall’attuale governo e quella dello sheikh Mohamed Abdel-Maksoud che inveisce contro gli impuri sciiti (sic). In mancanza di argomenti si cercano capri espiatori. E risale la tensione interreligiosa, riprendono attacchi a preti copti e assalti nelle zone di Minya e Assiut, Al- Zawahiri parla di complotto anti Mursi. Ciascuno recita la sua parte, ma l’Egitto odierno sembra mancare di statisti autonomi, interessati del bene nazionale.
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