Non
sappiamo quanto voto operaio sia andato a Matteo Renzi grazie alla sua
firma in pompa magna che ha chiuso la vicenda Electrolux. Certo è che, fin
dai suoi primi giorni di governo, il nuovo unto dal Signore ha giocato
una partita molto più sindacale di quanto possa apparire. Ed è
una partita sindacale nella quale alcuni dei suoi ministri, da quello
del lavoro Poletti a quella dello sviluppo Guidi, sono assi centrali.
La lotta all’Electrolux è durata oltre sette mesi con decine di scioperi, blocchi alle portinerie
per le merci, cortei che hanno interrotto le principali arterie
stradali intorno agli stabilimenti, discussioni nei consigli comunali. Un
nuovo spazio pubblico operaio pareva faticosamente aprirsi, sebbene le
organizzazioni sindacali abbiano scientemente cercato di circoscrivere o
addirittura occultare la vicenda, giocando sulle differenze tra i vari stabilimenti.
Il passaggio decisivo rimane quello
finale quando, dopo le tensioni tra funzionari e delegati sindacali, la
trattativa è stata risucchiata verso l’alto escludendo quanti avevano
sostenuto la lotta e sui quali ricadranno le conseguenze di
quell’accordo. La trattativa finale è stata infatti «condotta dai capi
sindacali in ristretta tenendo fuori i delegati operai», come dichiara
Cinzia Colaprico, Rsu di Forlì. Forse per questo il Ministro Poletti si è sentito subito in dovere di precisare che «questo è il metodo che adotteremo andando avanti»; una dichiarazione però in linea con quanto sostiene Maurizio Landini, il vero deus ex machina di questo accordo.
Alla stretta finale i delegati sindacali sono stati fatti accomodare
fuori dalla porta, per rientrare per la firma solo a testo completato.
Questa è la democrazia sindacale ai tempi della crisi. Questo è anche
l’effetto della denuncia ai congressi nazionali della crisi della
democrazia sindacale. Questi sono i tempi del governo Renzi.
Electrolux ha sostanzialmente ottenuto
quanto richiesto: incremento della produttività (attraverso la riduzione
delle pause, l’intensificazione dei ritmi, il taglio del 60% dei
permessi sindacali) e abbassamento del costo del lavoro (attraverso i
contratti di solidarietà Electrolux ha ottenuto per sé, e per tutte le
aziende da oggi in poi, una riduzione dei contributi da versare allo
Stato). Per le organizzazioni sindacali pare cruciale aver
ottenuto, almeno prima del voto per le europee, il mantenimento dei
quattro stabilimenti che tuttavia sono destinati a svuotarsi
progressivamente della manodopera. I 150 milioni di euro di
investimento in tre anni promessi dall’azienda sono un impegno
facilmente superabile, se si ricordano le dichiarazioni periodiche di
Sergio Marchionne su nuovi investimenti che nessuno vede mai.
Nelle
catene produttive dell’Electrolux un terzo degli operai è invalidato
più o meno seriamente da decenni di lavoro e su questi operai gravano i
limiti più pesanti dell’accordo. La multinazionale ha voluto colpire
l’organizzazione degli operai sul posto di lavoro con la riduzione dei
permessi sindacali e l’intensificazione dei ritmi, variamente modulati
nei diversi stabilimenti, perché con l’orario ridotto grazie al
contratto di solidarietà anche persone lesionate e usurate possono
ancora essere spremute produttivamente. In più, forse adesso
non è il momento migliore per avviare stabilimenti in Egitto, dove
Electrolux ha acquistato già da alcuni anni l’Olympic Group, e quindi, a
certe condizioni, mantenere a breve termine le attività in Italia
risulta economicamente conveniente, anche grazie all’ulteriore sconto
contributivo, cui si accennava sopra, inserito nel decreto sul lavoro
convertito in legge con l’ennesima fiducia.
Questo accordo di resistenza operaia
segna un armistizio molto provvisorio oltre il quale, nonostante una
prolungata mobilitazione in fabbrica e nei territori, non era dato
andare, come lo stesso esito del referendum dimostra: il 17% di
voti contrari è un’orgogliosa rivendicazione del percorso di lotta, ma
non segna certo una capacità operaia di interdire il percorso di
violenta aggressione alle condizioni di lavoro e di vita in atto
contro i lavoratori nel nostro paese. Al referendum sull’accordo tra
azienda, sindacati e governo, hanno votato 3368 lavoratori su 4.141
dipendenti tra operai ed impiegati presenti in azienda e aventi diritto a
votare (81%). A buona ragione quindi l’Ugl di Forlì segnala come l’area
del dissenso all’accordo sia piuttosto ampia, per quanto incapace di
incidere. L’incazzatura operaia è piuttosto evidente, in particolare tra
coloro che sono più sindacalizzati, e basta fare un giro per le pagine
facebook e blog vari per capire l’aria che tira.
La vicenda evidenzia come lo
Stato dato per morto sia in grado di svolgere una funzione di
innovazione, sussumendo la gestione delle forme di contrattazione
aziendale. Non a caso una delle stelle nel firmamento renziano,
Debora Serracchiani, rimproverava un tempo al ministro Zanonato lo
scarso interventismo, mentre lei da buona governatrice della Regione
Friuli Venezia-Giulia per mediare aveva messo a disposizione quattrini
oltre che una sua presenza diretta ai cancelli della fabbrica e
soprattutto nei salotti un po’ più riservati. Sembra che la vicenda
Electrolux abbia inaugurato un nuovo governo delle relazioni
industriali, nel quale lo Stato si presenta apertamente come parte della
trattativa con lo scopo di rimuovere ogni ostacolo alla possibilità di
produrre. La presenza attiva dello Stato non serve a garantire
una qualche “equità” degli accordi, ma l’occasione di fare profitti che
diviene il vero interesse pubblico da tutelare.
Un’altra considerazione va fatta di
fronte all’ennesima lotta operaia che si conclude con un accordo al
ribasso. Non basta denunciare la responsabilità politica delle
organizzazioni sindacali. Si tratta di comprendere il ruolo che i sindacati sono destinati a ricoprire dopo la fine della concertazione. Avendo oramai rinunciato a costruire mediazioni sociali complessive, nella vicenda Electrolux essi si sono presentati come agenzie di risoluzione coatta dei conflitti.
Non tutti i sindacati si comportano
evidentemente allo stesso modo. Ci sono sindacati che organizzano
ostinatamente la resistenza e la lotta. Tuttavia, pur essendo vero che solo la lotta paga, spesso ci si accorge che nemmeno la lotta è sufficiente.
Di fronte a trasformazioni globali che attraversano regolarmente tutti i
luoghi di lavoro e le fabbriche in particolare, ci si deve porre il
problema di organizzare la lotta squassando tutta la catena del valore.
La resistenza del collettivo operaio non può essere l’unica arma a
disposizione. In tutte le vertenze di questo tipo la prima mossa dei
padroni è proprio quella di frantumare il collettivo operaio, ma l’errore
più grande sarebbe quello di pensare che quel collettivo possa essere
limitato a una fabbrica, a un territorio o a un singolo mercato
nazionale. Soprattutto perché è ormai evidente, che il capitale
multinazionale crea e utilizza la “concorrenza” tra i singoli spazi
produttivi nazionali per costruire e accrescere i suoi profitti globali.
Percorrere tutta la catena per spezzarne dove possibile gli anelli, va
oltre le possibilità del singolo collettivo operaio. E’ un problema
politico. Significa costruire connessioni e organizzazione che
calpestino i confini imposti alla comunicazione tra lavoratori, sia che
si tratti delle frontiere nazionali sia che si tratti delle barriere
innalzate tra le diverse produzioni.
Per questo, pur senza nutrire troppa
passione per i risultati elettorali, ci sembra che i ventimila voti
ottenuti alle elezioni europee dall’operaia che ha avuto un ruolo di
assoluta rilevanza nella lotta alla Electrolux siano parte del tentativo
di costruire un potere collettivo che vada oltre la fabbrica.
D’altra parte i risultati elettorali non dovrebbero servire per
confermare la propria superiore coscienza di classe o per celebrare
l’indifferente purezza della propria rabbia. Non si impara solo dalle
vittorie. Se qualcosa si vuole apprendere dalla vicenda Electrolux, dobbiamo apprenderlo da quella che in ultima istanza è una sconfitta.
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