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17/07/2014

Riflessioni su quel che accade in Palestina e le premesse di un disastro senza precedenti

Ha ragione Lucio Caracciolo, che ha sottotitolato così un suo pezzo sulla crisi palestinese nell’edizione on line di “Limes”:  “La storia non si ripete mai: lo scontro odierno tra Israele e Hamas è diverso da quelli precedenti, anche perché è cambiato il quadro regionale: il Medio Oriente si sta disintegrando.” In apparenza, quello che sta accadendo è l’ennesima replica dello  spettacolo che vediamo almeno dal 2005: Hamas attacca con i razzi ed Israele replica con brutalità, invadendo Gaza, massacrando la gente con bombardamenti indiscriminati ecc. Questa volta la variante è stata l’innesco: l’assassinio dei tre ragazzi israeliani, disinvoltamente attribuito ad Hamas (quando si sa bene che i colpevoli più probabili sono elementi  della tribù dei Qawasameh, che da tempo compie attentati per screditare di Hamas e scalzarla), cui ha fatto seguito l’altrettanto orribile linciaggio del ragazzino palestinese, ucciso per “rappresaglia”. Siamo alla bestialità pura, ma stigmatizzare serve a poco, occorre capire.

E la prima cosa da capire è che questa volta è molto più diversa e pericolosa delle precedenti. Soprattutto per Israele che è quello che ha più da perdere.

Israele è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore. Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del Mondo che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma dal 1973 quella stessa macchina da guerra è diventata del tutto controproducente.

Dopo la guerra del Kippur non si è più formata alcuna coalizione araba, che minacciasse credibilmente l’esistenza dello “stato degli ebrei” ed il confronto si è spostato sui piani della rivolta popolare, della guerra irregolare e della diplomazia, tutte cose per le quali un potente esercito serve a ben poco. Israele, invece, è rimasto psicologicamente prigioniero del suo passato, ed ha costantemente risposto alle sfide della guerra irregolare mettendola sul piano dello scontro campale. Ma se hai davanti guerrieri irregolari, carri armati ed aerei non sono affatto l’arma più indicata ad affrontarli. L’idea perversa è quella di battere i guerriglieri prendendo in ostaggio i civili: bombardiamo gli obiettivi civili e la popolazione si rivolterà contro i “terroristi” che la mettono in pericolo.

Mi pesa scriverlo, ma è una logica da Marzabotto ed è rivoltante vedere i figli ed i nipoti delle vittime di Auschwitz adottare la logica dei loro persecutori. Ed avere gli stessi risultati di chi li ha preceduti, perché, alla fine, la popolazione riconosce il proprio nemico nell’esercito aggressore.

Questo schema si è ripetuto troppe volte, scrivendo pagine ignobili come il massacro di Sabra e Chatila, al quale, però, il popolo di Israele seppe reagire con una manifestazione di massa (300.000 persone in un paese di 6 milioni di abitanti) contro il proprio esercito. Un gesto di alta civiltà di cui pochi popoli sono stati capaci. Ma di quello spirito è restato ben poco e, dopo lo stillicidio degli attentati suicidi, Israele si è appiattito sul più livido e cieco odio verso il suo antagonista.

La destra di Netanyauh è il sonno della ragione di Israele che ha imboccato un tunnel suicida. Dopo la vittoria del 1973 e, soprattutto, con i negoziati di Camp David, la presenza di Israele nello scenario mediorientale è stata “digerita”, come dimostra il fatto che di coalizioni arabe anti-israeliane non ce ne sono state più. Da quel momento Israele ha avuto la possibilità di chiudere la partita concedendo ai palestinesi un generoso risarcimento (visto che, se è vero che Israele ha alle spalle la Shoa, i palestinesi hanno alle spalle la cacciata del 1948) che avrebbe chiuso la questione: terra in cambio di sicurezza, uno slogan sempre enunciato ma sempre tradito dai comportamenti. E di fonte alla spirale infinita di violenze che ne è seguita, Israele ha costantemente calato la carta della sopraffazione militare, un rimedio, oltre che odioso sul piano morale, illusorio sul piano del realismo politico.

Israele, forte della sicurezza offertagli dalle proprie forze armate, crede (si illude) che ci sia una soluzione militare al conflitto. Questa soluzione non esiste: la guerriglia continuerà endemica, anche perché la soluzione territoriale immaginata (la miriade di bantustan circondati dal muro, con l’appendice di Gaza) è invivibile per qualsiasi popolazione ed i primi a non sopportarla, a parti invertite, sarebbero proprio gli israeliani. L’unica soluzione possibile potrebbe essere semplicemente il genocidio o la deportazione in massa del popolo palestinese: voglio augurarmi che un simile orrore non sia preso in considerazione da nessuno, ma, nel caso qualcuno ci pensasse, bisogna che si ricordi che la comunità internazionale non lo permetterebbe mai.

Ora siamo all’ennesima replica dello scenario militarista, ma questa volta è diverso dal 2006 e dal 2008: in primo luogo tutto il mondo arabo è squassato da una rivolta che non ha raggiunto (almeno per ora) i risultati sperati, ma che, comunque, ha polverizzato regimi politici e stati. Libia e Sudan sono quasi dei failed states, in Siria c’è una guerra infinita, in Irak la guerra civile continua, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato, in Egitto sono tornati al potere i militari ma non si capisce ancora per quanto, l’Arabia Saudita va verso una difficilissima successione. Ma, soprattutto, in Irak e Siria si è stesa l’ombra minacciosa del Califfato. Non credo che realmente ci sia la possibilità di giungere al “grande stato dei credenti”, l’umma che riunisce in un solo stato gli islamici dal Marocco alla Bosnia all’Indonesia. Tanto per dire una sola ragione, già mettere insieme sunniti e sciiti sembra una operazione  fuori della realtà. Però non va sottovalutato il potere mobilitante della suggestione del califfato. Se la cosa prende piede, iniziando ad apparire credibile alle masse islamiche (e ci vuol poco: basta semplicemente che duri un po’ nel tempo) va messa nel conto un’ondata di fondamentalismo da far impallidire tutte quelle precedenti messe insieme. Pensiamo solo ai Fratelli Musulmani che hanno dimostrato di avere un forte seguito reale soprattutto nelle campagne e che ora sono in clandestinità, ma pronti ad insorgere ancora.

Israele, con la sua politica dei due forni ha logorato sia Fatha che Hamas che hanno dato vita ad un governo di unità nazionale che è una patetica unione di debolezze. L’offensiva di questi giorni sta ponendo le premesse per spianare la strada all’influenza del Califfato: il primo sintomo di quell’ondata fondamentalista di cui dicevamo. E questa volta non ci sarebbero molti interlocutori statali con cui intendersi.

Questa volta potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti. Soprattutto per Israele.


Analisi interessante, che ha il pregio di spostare il focus dai fatti e retroscena più strettamente legati al contingente.

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