E la prima cosa da capire è che questa
volta è molto più diversa e pericolosa delle precedenti. Soprattutto per
Israele che è quello che ha più da perdere.
Israele è ormai prigioniero della sua
stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore. Sin
dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per
difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle
più micidiali macchine da guerra del Mondo che ha vinto quattro guerre
di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo
accerchiavano. Ma dal 1973 quella stessa macchina da guerra è diventata
del tutto controproducente.
Dopo la guerra del Kippur non si è più
formata alcuna coalizione araba, che minacciasse credibilmente
l’esistenza dello “stato degli ebrei” ed il confronto si è spostato sui
piani della rivolta popolare, della guerra irregolare e della
diplomazia, tutte cose per le quali un potente esercito serve a ben
poco. Israele, invece, è rimasto psicologicamente prigioniero del suo
passato, ed ha costantemente risposto alle sfide della guerra irregolare
mettendola sul piano dello scontro campale. Ma se hai davanti guerrieri
irregolari, carri armati ed aerei non sono affatto l’arma più indicata
ad affrontarli. L’idea perversa è quella di battere i guerriglieri
prendendo in ostaggio i civili: bombardiamo gli obiettivi civili e la
popolazione si rivolterà contro i “terroristi” che la mettono in
pericolo.
Mi pesa scriverlo, ma è una logica da
Marzabotto ed è rivoltante vedere i figli ed i nipoti delle vittime di
Auschwitz adottare la logica dei loro persecutori. Ed avere gli stessi
risultati di chi li ha preceduti, perché, alla fine, la popolazione
riconosce il proprio nemico nell’esercito aggressore.
Questo schema si è ripetuto troppe
volte, scrivendo pagine ignobili come il massacro di Sabra e Chatila, al
quale, però, il popolo di Israele seppe reagire con una manifestazione
di massa (300.000 persone in un paese di 6 milioni di abitanti) contro
il proprio esercito. Un gesto di alta civiltà di cui pochi popoli sono
stati capaci. Ma di quello spirito è restato ben poco e, dopo lo
stillicidio degli attentati suicidi, Israele si è appiattito sul più
livido e cieco odio verso il suo antagonista.
La destra di Netanyauh è il sonno della
ragione di Israele che ha imboccato un tunnel suicida. Dopo la vittoria
del 1973 e, soprattutto, con i negoziati di Camp David, la presenza di
Israele nello scenario mediorientale è stata “digerita”, come dimostra
il fatto che di coalizioni arabe anti-israeliane non ce ne sono state
più. Da quel momento Israele ha avuto la possibilità di chiudere la
partita concedendo ai palestinesi un generoso risarcimento (visto che,
se è vero che Israele ha alle spalle la Shoa, i palestinesi hanno alle
spalle la cacciata del 1948) che avrebbe chiuso la questione: terra in
cambio di sicurezza, uno slogan sempre enunciato ma sempre tradito dai
comportamenti. E di fonte alla spirale infinita di violenze che ne è
seguita, Israele ha costantemente calato la carta della sopraffazione
militare, un rimedio, oltre che odioso sul piano morale, illusorio sul
piano del realismo politico.
Israele, forte della sicurezza
offertagli dalle proprie forze armate, crede (si illude) che ci sia una
soluzione militare al conflitto. Questa soluzione non esiste: la
guerriglia continuerà endemica, anche perché la soluzione territoriale
immaginata (la miriade di bantustan circondati dal muro, con l’appendice
di Gaza) è invivibile per qualsiasi popolazione ed i primi a non
sopportarla, a parti invertite, sarebbero proprio gli israeliani.
L’unica soluzione possibile potrebbe essere semplicemente il genocidio o
la deportazione in massa del popolo palestinese: voglio augurarmi che
un simile orrore non sia preso in considerazione da nessuno, ma, nel
caso qualcuno ci pensasse, bisogna che si ricordi che la comunità
internazionale non lo permetterebbe mai.
Ora siamo all’ennesima replica dello
scenario militarista, ma questa volta è diverso dal 2006 e dal 2008: in
primo luogo tutto il mondo arabo è squassato da una rivolta che non ha
raggiunto (almeno per ora) i risultati sperati, ma che, comunque, ha
polverizzato regimi politici e stati. Libia e Sudan sono quasi dei
failed states, in Siria c’è una guerra infinita, in Irak la guerra
civile continua, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato, in Egitto
sono tornati al potere i militari ma non si capisce ancora per quanto,
l’Arabia Saudita va verso una difficilissima successione. Ma,
soprattutto, in Irak e Siria si è stesa l’ombra minacciosa del
Califfato. Non credo che realmente ci sia la possibilità di giungere al
“grande stato dei credenti”, l’umma che riunisce in un solo stato gli
islamici dal Marocco alla Bosnia all’Indonesia. Tanto per dire una sola
ragione, già mettere insieme sunniti e sciiti sembra una operazione
fuori della realtà. Però non va sottovalutato il potere mobilitante
della suggestione del califfato. Se la cosa prende piede, iniziando ad
apparire credibile alle masse islamiche (e ci vuol poco: basta
semplicemente che duri un po’ nel tempo) va messa nel conto un’ondata di
fondamentalismo da far impallidire tutte quelle precedenti messe
insieme. Pensiamo solo ai Fratelli Musulmani che hanno dimostrato di
avere un forte seguito reale soprattutto nelle campagne e che ora sono
in clandestinità, ma pronti ad insorgere ancora.
Israele, con la sua politica dei due
forni ha logorato sia Fatha che Hamas che hanno dato vita ad un governo
di unità nazionale che è una patetica unione di debolezze. L’offensiva
di questi giorni sta ponendo le premesse per spianare la strada
all’influenza del Califfato: il primo sintomo di quell’ondata
fondamentalista di cui dicevamo. E questa volta non ci sarebbero molti
interlocutori statali con cui intendersi.
Questa volta potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti. Soprattutto per Israele.
Analisi interessante, che ha il pregio di spostare il focus dai fatti e retroscena più strettamente legati al contingente.
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