Iperspecializzazione, privatizzazione, semplificazione sono i nomi della formazione nell’era della precarietà.
Si tratta di percorsi in parte diversi, animati da logiche non tutte
convergenti, ma che hanno avuto e hanno tuttora un fine comune: la
produzione non tanto di manodopera con specifiche competenze, visto che
il bisogno che se ne ha sembra cambiare a ogni cambio di governo, o
meglio, al mutare degli indici di mercato, quanto di una manodopera
precaria e disposta a sostenere ulteriori dosi di precarietà lungo il
suo percorso formativo. Il mondo della formazione è soggetto a una serie di trasformazioni di lungo periodo:
l’aziendalizzazione delle università a cui si accompagna l’adeguazione
della formazione pubblica alle logiche di mercato, la progressiva
chiusura di quell’accesso alla formazione pubblica che per un periodo
aveva reso l’università una possibilità di mobilità sociale e l’inserimento di forme di lavoro gratuito nel ciclo formativo, fin dai suoi inizi.
Le riforme degli ultimi dieci anni non solo hanno assicurato l’accesso a
lavori immancabilmente precari, ma hanno anche reso il corso della
formazione a sua volta precario, un corso di precarizzazione. Proprio
perché investe tanto intensamente la formazione, si dimostra che la
precarietà non è un fatto occasionale, l’esito di una crisi, ma la
caratteristica strutturale del regime del salario. Si tratta,
quindi, di vedere come l’odierno regime del salario governi il nesso tra
formazione e lavoro nei vari spazi in cui questo si presenta, cioè come
la scomposizione del lavoro, la coazione determinata dall’occupabilità e
la produttività dell’incertezza che la caratterizza si immettano nei
differenti momenti in cui formazione e lavoro si incontrano.
Tanto nelle scuole quanto nelle
università, nelle lauree triennali e in quelle magistrali, nelle facoltà
umanistiche e in quelle scientifiche, stage e tirocini sono diventati
parte integrante del percorso formativo. Dal punto di vista di
chi chiede lavoro tirocini e stage sono lavoro gratuito che viene
immesso nel sistema produttivo modificando i rapporti di forza nei
luoghi di lavoro, creando divisioni tra i lavoratori e rendendo più
ricattabili coloro che sono assunti. Spesso gli stagisti svolgono
infatti il lavoro che prima svolgeva chi aveva un contratto e
costituiscono un bacino di lavoro sempre disponibile con cui sostituire
sia i vecchi stagisti sia gli assunti. Se si considera il regime del
salario di cui sono parte, stage e tirocini formano quell’unica strada
che sempre più spesso viene lasciata aperta per conquistarsi un salario,
se non presente, ipoteticamente futuro. Nel discorso dominante
essi rappresentano quello sforzo necessario che bisogna fare per
accaparrarsi, in regime di scarsità, i pochi posti di lavoro disponibili.
Sembra che la scarsità sia una misura che ha la ferrea necessità di una
legge naturale. La disponibilità richiesta a investire sulla propria
formazione e ad adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro viene
imposta come necessità altrettanto ferrea. Né l’una né l’altra però sono
una condizione oggettiva o naturale, come non lo erano nemmeno la
siccità o la peste. Svestita della sua veste di oggettività, la
scarsità si rivela infatti come quel rapporto di forza che domina il
regime del salario e che perciò può stabilirne le regole. Non è
un caso che, nell’ultimo anno, mentre i dati sulla produttività sono in
ascesa, quelli su disoccupazione e inoccupazione siano stabili o in
aumento. Questo mostra che uno degli effetti della crisi è stato un risparmio netto di lavoro. Dire
che il lavoro è «scarso» significa dire che si possono imporre le
condizioni, i tempi e il salario. Dire che il lavoro è «scarso» si
rivela dunque funzionale all’occupabilità, perché impone un
adattamento alle logiche di questa scarsità e rende produttiva
l’incertezza: il licenziamento, la mobilità, la precarietà diventano una
necessaria conseguenza di queste premesse. Questa scarsità però non è
oggettiva ma è funzionale alla riproduzione della posizione di dominio
in quello che è con sempre più evidenza un rapporto di forza, dominio
che è possibile solo riproducendo questo stesso regime di scarsità.
Se il lavoro è «scarso», quella
prodotta dalla formazione è una capacità di lavoro che si configura
sempre di più come merce povera e a breve scadenza. Il discorso
sulla scarsità, condiviso dal pubblico tanto quanto dal privato, ha
contribuito a incrementare l’inserimento di esperienze di lavoro
gratuito nelle scuole e nelle università. Bisogna formarsi per essere
competitivi sul mercato del lavoro e con le competenze adeguate. Se si
considera però la scarsità come effetto di quel rapporto di forza che
domina il regime del salario, allora si vede piuttosto una sconnessione
tra formazione e lavoro. Il valore della formazione non può mai essere realizzato sul mercato da chi lo possiede.
L’armonizzazione tra formazione e lavoro ha come misura il lavoro e chi
lo chiede. Per chi deve lavorare, il risultato è che si vendono le
proprie competenze a un prezzo sempre più basso: il regime del salario
pone non solo la minaccia costante dell’incertezza lavorativa ma anche la possibilità sempre presente di un’improvvisa dequalificazione di ogni competenza acquisita.
Sia la specializzazione prodotta dal carattere sempre più
professionalizzante di alcuni percorsi formativi anche di alto livello,
sia la dequalificazione delle forme di conoscenza teoriche e pratiche
non immediatamente professionalizzanti, hanno l’effetto di produrre una
manodopera anche intellettuale dequalificata e sfruttata a livelli più
bassi rispetto alla formazione acquisita. L’iperspecializzazione
e il lavoro precario generalizzato producono sia forza lavoro just in
time, sostituibile, dequalificabile, sia figure lavorative più quotate,
da inserire in segmenti strategici fino a quando sono utili. Le
competenze vengono infatti frammentate e gerarchizzate non in base ai
lavori o alla loro funzione sociale, ma alla capacità di adattarsi di
volta in volta a imperativi produttivi differenti o di rispondere a
esigenze della produzione particolarmente specifiche e tecniche. Difficilmente
allora un ingegnere e un antropologo andranno incontro allo stesso
destino, sia in termini di formazione continua sia di accesso al mercato
del lavoro. Il valore e la spendibilità delle specializzazioni
variano a seconda delle competenze e della loro adattabilità alle
esigenze di mercato. In poche parole, non è detto che la formazione
continua di sapere specialistico abbia le stesse conseguenze o produca
le stesse condizioni per tutti. Flessibilità, precarietà generalizzata,
iperspecializzazione e frammentazione delle competenze possono essere
combinati secondo formule di volta in volta diverse, valorizzando
specifiche competenze a scapito di altre, producendo differenziali di
precarietà anche molto forti. A ben guardare infatti,
all’iperspecializzazione corrisponde, in molti settori umanistici, una
genericità dei programmi e dei corsi di studio che comprime in
corsi semestrali quelli che una volta erano corsi annuali e combina
materie di studio anche molto diverse per offrire un’infarinatura
generale che a sua volta rende indispensabile la specializzazione. Così,
scienze umanistiche e scienze tecniche vengono gestite in un modo o in un altro a seconda dei diversi bisogni del ciclo produttivo e lo sfruttamento generalizzato sembra reso possibile proprio dal fatto che non tutti sono sfruttati allo stesso modo.
L’iperspecializzazione prodotta anche
dalla massiccia introduzione di tirocini e stage nei percorsi formativi
spesso si rivela, inoltre, priva della flessibilità richiesta da un
punto di vista aziendale e costringe perciò ad accettare forme
contrattuali che, sotto le mentite spoglie dell’apprendistato e della
formazione lavoro, nascondono uno sfruttamento a tempo indeterminato,
non più legato a un periodo limitato di «gavetta», ma uno sfruttamento che fa dei lavoratori dei quasi lavoratori a vita.
L’adattabilità alle esigenze del mercato del lavoro, imposta dalle
ferree leggi della scarsità del lavoro, è quindi un imperativo che
riguarda solo il basso prezzo a cui è necessario vendersi. La
specializzazione produce piuttosto in queste condizioni un bisogno
costante di formazione: questa non diventa più uno stadio preparatorio
al mondo del lavoro ma un punto di passaggio in cui non si smette mai di
tornare. La costante riproduzione dell’adattabilità risulta,
comunque, a carico degli individui in formazione. A dicembre dello scorso
anno Unioncamere Emilia-Romagna ha pubblicato dei dati, messi a punto
in collaborazione con il Ministero del Lavoro, che hanno provocato
immediatamente scandalo. Essi affermavano che nell’Italia della «crisi» e
della disoccupazione, a Bologna ben 4600 posti di lavoro sarebbero stati vacanti,
in attesa di trovare persone capaci di soddisfare i requisiti di
professionalità necessari. Il numero comprende, secondo percentuali
differenti in base al settore, figure professionali che vanno
dall’ingegnere all’operaio specializzato, dal programmatore software al
cameriere. Queste dichiarazioni hanno suscitato le proteste dei tanti
che quotidianamente si trovano ad avere a che fare con disoccupazione,
colloqui e lavori che sono sottodimensionati rispetto al loro percorso
formativo. Uno dei più accaniti contestatori di queste dichiarazioni è
stato, però, Andrea Cammelli, ossia il direttore di Alma Laurea, il
consorzio interuniversitario che si definisce un «ponte tra Università e
mondo del lavoro» e offre servizi che vanno dall’elaborazione di dati
su formazione e lavoro alla gestione di una banca dati di curriculum per
favorire l’occupabilità dei laureati. Secondo Cammelli sono le aziende
che, offrendo bassi salari rispetto alla professionalità raggiunta,
inducono molti laureati a emigrare. Ma non solo. Una delle accuse
principali del direttore di Alma Laurea rivolta alle imprese è quella di
non volersi sobbarcare i costi della formazione in entrata, la
quale, per adattarsi interamente ai bisogni aziendali, dovrebbe essere
erogata dalle aziende stesse. Mentre non si fanno carico del
percorso formativo, le imprese si impongono nella selezione contingente
delle figure che servono e di quelle che non servono e nel dettare così i
tempi e i modi di quei processi formativi. D’altra parte il
pubblico, lungi dal rappresentare l’altro polo virtuoso rispetto al
privato, si agita per trovare le strategie migliori per contribuire
all’adeguazione della formazione alle esigenze, contingenti e
imprevedibili, del mercato. Non è un caso che nelle linee guida
definite dalla conferenza Stato-regioni nel 2013 per la disciplina dei
tirocini formativi, dall’obbligo di una retribuzione comunque misera
siano esclusi i tirocini curricolari, cioè quelli offerti da Università,
istituzioni scolastiche e centri di formazione professionali. L’istruzione
non è vittima indifesa di un attacco esterno e bersaglio delle
circostanze imposte dal mercato. Esso gioca piuttosto un ruolo attivo
nel promuovere il processo di ristrutturazione di lungo periodo del
nesso tra formazione e lavoro. Non dovremmo allora pensare
tanto a come spezzare il legame di asservimento della formazione al
mercato del lavoro immaginando, per esempio, forme più giuste di quel
nesso, correndo così il rischio di riprodurne la logica, ma dovremmo pensare quel nesso a partire dai suoi paradossi (specializzazione/frammentazione, professionalizzazione/precarietà, formazione/individualizzazione) che indicano un processo più ampio e globale sul quale possiamo agire solo se ne comprendiamo la portata.
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