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17/07/2014

USA: perché opporsi alla lobby israeliana non è più un suicidio politico

di Phyllis Bennis (*)

Con il fallimento di una proposta egiziana di cessate il fuoco, l’orrore dell’ultima aggressione israeliana a Gaza continua. Almeno 185 persone sono state uccise, quasi l’80 per cento di loro civili. Quasi la metà sono donne e bambini. Almeno settanta case sono state individuate come bersaglio e distrutte. Cinque strutture sanitarie, compreso un ospedale, sono state danneggiate nei raid aerei. C’è stato un attacco diretto ad un centro per persone gravemente disabili. È stato uno dei tanto decantati bombardamenti “intelligenti” di Israele, compreso il messaggio “bussa sul tetto” da parte dei bombardieri israeliani oggi così di moda – la piccola bomba che segnala l’arrivo di cose ben peggiori. Non è stato un incidente. Tre persone, due pazienti e un operatore, sono stati uccisi là. E si continua.

E il Congresso - quindi quasi tutta la Washington ufficiale - parla con una voce pressoché unica: stiamo con Israele. Israele ha il diritto di “difendersi”. Nessun Paese starebbe a guardare e permettere tutto questo. Ma c’è qualcosa di diverso stavolta. E non solo il fatto che l’aggressione sia diversa e peggiore.

La differenza è il contesto politico in cui questo attacco avviene, specialmente il contesto politico qui negli Stati Uniti. Per quelli di noi che lavorano da decenni per un cambiamento delle politiche USA in Medio Oriente, le brutte notizie ci stanno davanti tutti i giorni: cioè che la politica non è cambiata, miliardi di dollari in aiuti monetari e un sostegno politico, diplomatico e militare acritico a Israele rimangono costanti.

Ma ci sono anche buone notizie. Risulta chiaro quando riesci a guardare indietro per un istante oltre la brutta realtà di ogni giorno. Le buone notizie sono che il discorso si è spostato in modo significativo - nella copertura informativa mainstream, tra gli opinionisti, nella pop culture e altro -. È molto meglio di quanto lo sia mai stato prima. Non siamo ancora nel giusto ma le cose stanno cambiando. Dodici anni fa, durante l’assedio dell’edificio di Yasser Arafat a Ramallah e quando fu circondata la Chiesa della Natività a Betlemme, non si udirono molte voci palestinesi sulla stampa mainstream. Nel 2006, durante l’attacco israeliano a Gaza, il The New York Times e NPR non mandarono i loro reporter al campo profughi di Khan Younis o a Gaza City.

Ma la copertura si era già modificata durante Cast Lead, la guerra di tre settimane di Israele contro Gaza nel 2008-‘09, ed è stato allora che ci siamo resi conto di come i cambiamenti dei media riflettevano la modifica del discorso complessivo. Nonostante gli sforzi di Israele di escludere la stampa internazionale, Al Jazeera e altri canali arabi trasmettevano dal vivo da Gaza. Il Times aveva una tremenda giovane corrispondente, Taghreed el-Khodary, che mandava pezzi di ora in ora. Israele probabilmente non le avrebbe permesso di entrare nella Striscia, ma non sono riusciti a fermarla, lei era già lì, nata e cresciuta a Gaza e residente lì con la sua famiglia.

Cosa ancora più importante, cellulari e computer erano già dappertutto, anche nei miseri campi profughi di Gaza. Così quando arrivava l’elettricità per un’ora o due, la prima cosa che la gente faceva era caricare i telefonini in modo da poter mandare le sue fotografie, video, storie e irrompere nei cuori di tutto il mondo. Questo ha trasformato la nostra immagine di un’occupazione, di quello che rappresenta un assedio per una città, di cosa succede quando le bombe al fosforo bianco colpiscono una scuola.

Questi messaggi non hanno raggiunto tutti negli Stati Uniti, e non tutti quelli che sono stati raggiunti hanno cambiato opinione. Ma il nuovo discorso ha cambiato un numero impressionante di menti. I sondaggi hanno un valore limitato - al massimo sono uno scatto fotografico, un momento nel tempo -. Ma pensate a questo: è l’estate 2010, il Presidente Obama è in disaccordo con il Primo Ministro israeliano Netanyahu (e anche questo è un riflesso di una situazione politica che sta cambiando) sugli insediamenti nei territori occupati. La stampa scrive falsamente che gli Stati Uniti stanno premendo su Israele, il che comporta una serie di gentili richieste: per favore smettete di costruire nuovi insediamenti. Dopo che Israele disse no per alcune volte, le richieste si fermarono. In quel momento, un sondaggio Zogby chiese alla gente di scegliere una frase che esprimeva la loro visione degli insediamenti. Il 63% dei democratici - lo stesso partito del presidente Obama e fino a non molto tempo fa il principale partito a supporto di Israele - scelse la frase che diceva: “Gli insediamenti israeliani sono costruiti su terre confiscate ai Palestinesi e dovrebbero essere abbattuti e le terre restituite ai proprietari palestinesi”. Una fotografia nel tempo, forse. Ma comunque il 63%!

Organizzazioni come la US Campaign to End the Israeli Occupation e la Jewish Voice for Peace si sono entrambe avvantaggiate di questo cambiamento nel discorso e lo hanno fomentato. La vera sfida ora è come usare questo cambiamento, come usare la quasi-normalizzazione della critica a Israele per portare avanti il lavoro, impegnarsi con organizzazioni e istituzioni e - gasp! - anche membri del Congresso che non hanno mai toccato questo tema prima e che ancora pensano che sia un suicidio politico criticare Israele. Sappiamo che certamente non è così, e dobbiamo capire quale debba essere la prossima mossa, lo stadio molto più difficile di trasformare il cambiamento del discorso in un reale cambiamento politico.

C’erano delle speranze quando il Presidente Obama fu eletto per la prima volta, specialmente quando scelse l’ex senatore George Mitchell, uno dal pensiero indipendente, come inviato speciale. Ma Mitchell fu tenuto legato a un guinzaglio troppo corto, e Obama su questo tema fallì completamente. Non fu mai disponibile a utilizzare qualcosa del suo capitale politico per premere veramente su Israele per fermare gli insediamenti, mai disponibile a mettere sul tavolo i 3,1 miliardi di dollari di aiuti militari a Israele, mai disponibile ad abbandonare la protezione di Israele alle Nazioni Unite in modo che i suoi leader fossero messi sotto accusa per crimini di guerra. È così che si incomincia a premere - e finora non abbiamo visto nulla di tutto questo -.

Dobbiamo fare molta strada. In un inatteso dibattito testa a testa che ho avuto luogo nel 2011 con il consigliere di Obama, Ben Rhodes, è stato scioccante (anche se in realtà non sorprendente) vedere quanto fosse profondamente ignorante Rhodes di come si rapporta Israele verso gli Americani, in particolare gli Arabo-Americani. Ma allora come, se non a seguito di un profondo cambiamento del discorso, si poteva concepire il principale portavoce della Casa Bianca e consigliere alla sicurezza nazionale seduto lì, cercando di disimpegnarsi, mentre 300 Arabo-Americani, in maggioranza giovani donne palestinesi, lo prendevano a bersaglio per avere permesso a Israele campo libero con miliardi di aiuti finanziari e la garanzia dell’impunità?

Alcuni dei cambiamenti più importanti sono avvenuti con la comunità ebraica. J-Street ha contribuito a rompere il tabù sulla Collina; Jewish Voice for Peace ha giocato un ruolo molto più consistente e importante per le mobilitazioni, soprattutto di giovani ebrei. L’AIPAC ha ancora il denaro per minacciare i membri del Congresso, ma non può continuare a proclamare che dispone anche dei voti ebrei, perché la comunità ebraica ora per fortuna è profondamente divisa sulla questione di Israele. L’AIPAC rappresenta solo l’ala destra (e quindi, naturalmente, la maggior parte dei soldi), J Street sta al centro e Jewish Voice for Peace a sinistra. Nella comunità ebraica è proprio un giorno nuovo.

Il nostro movimento non è ancora abbastanza forte per farla finita con il beneplacito USA al massacro a Gaza - ma il cambiamento nel discorso pubblico è un primo passo cruciale -. Ora dobbiamo veramente fare un salto di qualità nel nostro lavoro per arrivare allo stadio successivo.

*****

(*) Attivista statunitense per i diritti del popolo palestinese, autrice tra gli altri dei libri Challenging Empire: How People, Governments, and the UN Defy US Power e Ending the US War in Agfghanistan: A Primer. Membro dell’Institute for Policy Studies e del Transnational Institute di Amsterdam.

Fonte: The Nation
Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo, 16 luglio 2014

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