di Michele Giorgio
«Non c’è Dio se non Allàh e
Muhammad è il suo messaggero», a migliaia scandiscono la professione di
fede. Dito indice alzato verso il cielo ad affermare il dio unico, a
passo veloce nonostante il caldo soffocante e il digiuno rituale per il
Ramadan, in un tripudio di bandiere verdi, attivisti e simpatizzanti di
Hamas sfilano per le strade strette e polverose del campo profughi di
Jabaliya. Tenendosi a distanza dalla folla, una donna con il velo
integrale segue il corteo stringendo tra la braccia un mitra
kalashnikov. La preghiera del venerdì, il primo del mese di Ramadan, è
finita da poco, come a Gerusalemme dove si tengono i funerali di
Mohammed Abu Khdeir. «Preghiamo per il nostro martire ma siamo qui anche
per dire a Israele che non abbiamo paura e che siamo pronti nel nome di
Dio a continuare la lotta fino alla morte», ci dice Abed un uomo sulla
trentina che prova con una mano a proteggersi dalla luce accecante del
sole. Per i militanti di Hamas il raduno è la celebrazione di quella che
considerano la «nuova vittoria» su Israele, costretto, spiegano, ad
accettare il cessate il fuoco e a rinunciare, in apparenza,
all’offensiva militare di cui si parla da giorni. Festeggiano quelli di
Hamas, i più felici però sono i civili che sperano di aver
definitivamente evitato una campagna di bombardamenti aerei che si
prevedeva devastante, simile a «Colonna di difesa» nel novembre 2012.
Qualcuno dice sorridendo che stasera l’iftar, la cena che interrompe il
digiuno, avrà sapori forti, più gradevoli.
In realtà nulla è certo. Esponenti di Hamas fanno sapere ai
giornalisti che, grazie alla mediazione dell’intelligence egiziana, è
stata raggiunta una intesa per sgonfiare la tensione e far ritornare la
calma: niente più raid aerei e stop al lancio dei razzi. Israele non
conferma ma l’accordo sembra esserci davvero perchè da giovedì sera i
cacciabombardieri con la stella di Davide non hanno effettuato altri
raid, nonostante qualche Qassam palestinese continui a cadere dall’altra
parte delle linee di demarcazione tra Gaza e Israele quando non è
abbattuto dal costoso sistema antimissile «Iron Dome» impiegato intorno
alla Striscia con risultato modesti. L’escalation non serve a nessuna
delle due parti. Netanyahu, dopo l’uccisione del ragazzino palestinese a
Gerusalemme Est, sa che scatenare una nuova offensiva militare vorrebbe
dire «autorizzare» Hamas a lanciare non gli artigianali Qassam bensì i
più potenti M75 verso le città israeliane, con centinaia di migliaia di
civili costretti a vivere tra casa e rifugio. Una situazione sostenibile
solo per un numero limitato di giorni, come ha dimostrato «Colonna di
Difesa» nel 2012 quando una settimana di pesanti bombardamenti aerei non
riuscì a fermare, neppure per un giorno, il lancio dei razzi che
arrivarono a lambire le periferie di Tel Aviv e Gerusalemme.
Ma la calma serve anche ad Hamas che deve fare i conti con gli esiti
della durissima campagna di arresti compiuta dall’esercito israeliano in
Cisgiordania dove è stata decapitata la leadership locale del movimento
islamico. Da queste settimane di tensione, morte, raid militari e
repressione è il presidente dell’Anp Abu Mazen ad uscirne peggio. La sua
immagine tra i palestinesi è, almeno in parte, compromessa, non solo
perché ha confermato la cooperazione di sicurezza con Israele (uno degli
obblighi del governo dell’Anp secondo gli Accordi di Oslo) ma anche per
non essersi opposto alla brutalità dell’azione dell’esercito israeliano
che, cercando i tre ragazzi ebrei scomparsi e ritrovati uccisi lunedì
scorso, ha usato il pugno di ferro arrestando oltre 600 persone – tra le
quali dirigenti e deputati di Hamas – danneggiando abitazioni e uffici e
uccidendo 7 palestinesi in Cisgiordania. Hamas appare, agli occhi dei
palestinesi, in una luce più positiva, perché vittima della repressione
israeliana. Ciò non basta a un’organizzazione politica isolata nel mondo
arabo, con scarsi margini di movimento nella «prigione» Gaza, tenuta
sotto assedio non solo da Israele ma anche dall’Egitto post-golpe. Sono
quasi inesistenti, ora, i rapporti tra la leadership islamista e Abu
Mazen, ma Hamas non può permettersi una rottura o abbandonare il governo
di consenso nazionale nato a inizio giugno.
«Dopo sette anni di contrasti laceranti, la riconciliazione tra forze
palestinesi è un traguardo eccezionale al quale non possiamo rinunciare
– dice Israa al Mudallah, la portavoce del movimento islamico – anche
se le relazioni tra le parti sono difficili. Lo scambio di accuse sui
media ha lasciato il segno. Eppure occorre andare avanti per contrastare
i progetti israeliani». Toni morbidi frutto, spiega qualcuno, delle
enormi difficoltà finanziarie di Hamas. Il disciolto governo islamista
di Gaza, rimasto in carica fino a un mese fa, si è lasciato alle spalle
circa 50mila dipendenti pubblici ora senza stipendio. E i tentativi di
far arrivare nella Striscia i fondi del Qatar sono falliti per
l’opposizione di Israele e il rifiuto delle banche arabe di autorizzarne
il trasferimento del denaro. «Noi musulmani diciamo che il Ramadan è
generoso ma per me questo è Ramadan molto difficile – si lamentoa Ahmad,
un vigile urbano di Gaza – non ho più soldi e non so come sfamare la
famiglia. Vorrei comprare i regali della festa per i miei figli ma non
sono neppure in grado di garantigli il pane». Mousa Abu Marzouk, vice
presidente dell’ufficio politico di Hamas qualche giorno fa aveva
scritto su Facebook «Temo che saremo costretti a fare marcia indietro
rispetto a quanto deciso (con Abu Mazen). Gaza vive in un limbo, non è
né sotto la competenza del vecchio governo, né del governo di unità
nazionale». Fonti del movimento islamico invece smentiscono e
ribadiscono che sulla riconciliazione non si fa retromarcia. «L’ufficio
politico ribadisce che la riconciliazione è una scelta consapevole e
strategica di Hamas che farà tutto il possibile per realiuzzarla in ogni
aspetto della vita politica e sociale». Passata la bufera, prevede il
columnist Alaa Abu Amer, il movimento islamico e Abu Mazen troveranno il
modo di andare avanti insieme e persino «Israele sarà costretto a
trattare con il nuovo governo». Un po’ di ottimismo non guasta in questi
momenti.
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