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06/07/2014

Veleni tra Hamas e Fatah ma la riconciliazione tiene

di Michele Giorgio
«Non c’è Dio se non Allàh e Muhammad è il suo messaggero», a migliaia scandiscono la professione di fede. Dito indice alzato verso il cielo ad affermare il dio unico, a passo veloce nonostante il caldo soffocante e il digiuno rituale per il Ramadan, in un tripudio di bandiere verdi, attivisti e simpatizzanti di Hamas sfilano per le strade strette e polverose del campo profughi di Jabaliya. Tenendosi a distanza dalla folla, una donna con il velo integrale segue il corteo stringendo tra la braccia un mitra kalashnikov. La preghiera del venerdì, il primo del mese di Ramadan, è finita da poco, come a Gerusalemme dove si tengono i funerali di Mohammed Abu Khdeir. «Preghiamo per il nostro martire ma siamo qui anche per dire a Israele che non abbiamo paura e che siamo pronti nel nome di Dio a continuare la lotta fino alla morte», ci dice Abed un uomo sulla trentina che prova con una mano a proteggersi dalla luce accecante del sole. Per i militanti di Hamas il raduno è la celebrazione di quella che considerano la «nuova vittoria» su Israele, costretto, spiegano, ad accettare il cessate il fuoco e a rinunciare, in apparenza, all’offensiva militare di cui si parla da giorni. Festeggiano quelli di Hamas, i più felici però sono i civili che sperano di aver definitivamente evitato una campagna di bombardamenti aerei che si prevedeva devastante, simile a «Colonna di difesa» nel novembre 2012. Qualcuno dice sorridendo che stasera l’iftar, la cena che interrompe il digiuno, avrà sapori forti, più gradevoli.
In realtà nulla è certo. Esponenti di Hamas fanno sapere ai giornalisti che, grazie alla mediazione dell’intelligence egiziana, è stata raggiunta una intesa per sgonfiare la tensione e far ritornare la calma: niente più raid aerei e stop al lancio dei razzi. Israele non conferma ma l’accordo sembra esserci davvero perchè da giovedì sera i cacciabombardieri con la stella di Davide non hanno effettuato altri raid, nonostante qualche Qassam palestinese continui a cadere dall’altra parte delle linee di demarcazione tra Gaza e Israele quando non è abbattuto dal costoso sistema antimissile «Iron Dome» impiegato intorno alla Striscia con risultato modesti. L’escalation non serve a nessuna delle due parti. Netanyahu, dopo l’uccisione del ragazzino palestinese a Gerusalemme Est, sa che scatenare una nuova offensiva militare vorrebbe dire «autorizzare» Hamas a lanciare non gli artigianali Qassam bensì i più potenti M75 verso le città israeliane, con centinaia di migliaia di civili costretti a vivere tra casa e rifugio. Una situazione sostenibile solo per un numero limitato di giorni, come ha dimostrato «Colonna di Difesa» nel 2012 quando una settimana di pesanti bombardamenti aerei non riuscì a fermare, neppure per un giorno, il lancio dei razzi che arrivarono a lambire le periferie di Tel Aviv e Gerusalemme.
Ma la calma serve anche ad Hamas che deve fare i conti con gli esiti della durissima campagna di arresti compiuta dall’esercito israeliano in Cisgiordania dove è stata decapitata la leadership locale del movimento islamico. Da queste settimane di tensione, morte, raid militari e repressione è il presidente dell’Anp Abu Mazen ad uscirne peggio. La sua immagine tra i palestinesi è, almeno in parte, compromessa, non solo perché ha confermato la cooperazione di sicurezza con Israele (uno degli obblighi del governo dell’Anp secondo gli Accordi di Oslo) ma anche per non essersi opposto alla brutalità dell’azione dell’esercito israeliano che, cercando i tre ragazzi ebrei scomparsi e ritrovati uccisi lunedì scorso, ha usato il pugno di ferro arrestando oltre 600 persone – tra le quali dirigenti e deputati di Hamas – danneggiando abitazioni e uffici e uccidendo 7 palestinesi in Cisgiordania. Hamas appare, agli occhi dei palestinesi, in una luce più positiva, perché vittima della repressione israeliana. Ciò non basta a un’organizzazione politica isolata nel mondo arabo, con scarsi margini di movimento nella «prigione» Gaza, tenuta sotto assedio non solo da Israele ma anche dall’Egitto post-golpe. Sono quasi inesistenti, ora, i rapporti tra la leadership islamista e Abu Mazen, ma Hamas non può permettersi una rottura o abbandonare il governo di consenso nazionale nato a inizio giugno.

«Dopo sette anni di contrasti laceranti, la riconciliazione tra forze palestinesi è un traguardo eccezionale al quale non possiamo rinunciare – dice Israa al Mudallah, la portavoce del movimento islamico – anche se le relazioni tra le parti sono difficili. Lo scambio di accuse sui media ha lasciato il segno. Eppure occorre andare avanti per contrastare i progetti israeliani». Toni morbidi frutto, spiega qualcuno, delle enormi difficoltà finanziarie di Hamas. Il disciolto governo islamista di Gaza, rimasto in carica fino a un mese fa, si è lasciato alle spalle circa 50mila dipendenti pubblici ora senza stipendio. E i tentativi di far arrivare nella Striscia i fondi del Qatar sono falliti per l’opposizione di Israele e il rifiuto delle banche arabe di autorizzarne il trasferimento del denaro. «Noi musulmani diciamo che il Ramadan è generoso ma per me questo è Ramadan molto difficile – si lamentoa Ahmad, un vigile urbano di Gaza – non ho più soldi e non so come sfamare la famiglia. Vorrei comprare i regali della festa per i miei figli ma non sono neppure in grado di garantigli il pane». Mousa Abu Marzouk, vice presidente dell’ufficio politico di Hamas qualche giorno fa aveva scritto su Facebook «Temo che saremo costretti a fare marcia indietro rispetto a quanto deciso (con Abu Mazen). Gaza vive in un limbo, non è né sotto la competenza del vecchio governo, né del governo di unità nazionale». Fonti del movimento islamico invece smentiscono e ribadiscono che sulla riconciliazione non si fa retromarcia. «L’ufficio politico ribadisce che la riconciliazione è una scelta consapevole e strategica di Hamas che farà tutto il possibile per realiuzzarla in ogni aspetto della vita politica e sociale». Passata la bufera, prevede il columnist Alaa Abu Amer, il movimento islamico e Abu Mazen troveranno il modo di andare avanti insieme e persino «Israele sarà costretto a trattare con il nuovo governo». Un po’ di ottimismo non guasta in questi momenti.

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