Con l’attentato di Tunisi è ormai chiaro che siamo tornati alla situazione del 2004-2006, quando gli attentati terroristici si susseguivano a livello mondiale (Madrid, Londra, Bali, Sharm el sheikh ecc.), con la differenza che ora, oltre con Al Quaeda, ce la dobbiamo vedere con l’Isis e con la concorrenza fra i due che spinge a moltiplicare il loro attivismo.
L’illusione di aver sconfitto Al Quaeda (e, con essa, tutto l’armatismo islamista) con l’uccisione di Osama Bin Ladin e di molti altri dirigenti dell’organizzazione, è ormai dissolta. Al Quaeda è rinata nella penisola arabica, ha ricostruito quadri operativi e gruppo dirigente e, ad essa, si è aggiunta l’Isis, il suo vecchio braccio iraqueno, scissosi.
A quanto pare, questa volta la mano è dell’Isis o di qualcosa di collegato. E la reazione dell’Occidente è la solita: la spedizione militare che dovrebbe debellare, in questo caso, l’enclave jihadista in Libia. Continuo a pensare che questa sia la peggiore bestialità che possiamo fare, ma voglio stare al gioco e ragionare sul piano dei nostri callidi strateghi. Va bene, mi avete convinto: a Tripoli!
Ma sappiamo cosa fare? Occupare il paese? Estendere ad esso la sovranità del Parlamento di Tobruk? Incoronare il generale Haftar nuovo Rais? Dividere la Libia fra Egitto, Tunisia e Algeria? Fateci sapere. In secondo luogo: se poi dovessimo trovarci di fronte una guerriglia nelle zone interne (e mi pare che noi italiani ne sappiamo qualcosa) che facciamo, ci andiamo ad impantanare in un nuovo Iraq, Mali, Afghanistan?
Il punto è che i vertici decisionali occidentali non sanno fare altro. E’ diffusa fra gli oppositori all’intervento, la convinzione che questa ostinazione sia il frutto di una diabolica macchinazione delle multinazionali produttrici di armi, per mantenere alti i profitti, altri pensano che sia una tattica americana per ribadire la propria indispensabile centralità e tenersi ben legata l’Europa, altri riconducono il tutto all’influenza israeliana e cose di questo genere. Che possa esserci un po’ una cosa ed un po’ l’altra è possibile ed, in una certa misura probabile, ma la ragione principale è un’altra: questi non sanno fare altro.
Per i comandi politico-militari, il terrorismo si affronta così e l’Occidente ha la forza militare maggiore del Mondo ed è in grado di schiacciare qualsiasi rivolta. Sfugge loro quale sia il vero pivot della situazione: le masse arabo islamiche. La storia insegna che, nella maggior parte dei casi, una guerriglia non finisce per una sconfitta militare ma per una sconfitta politica. E’ illusorio pensare di sconfiggere una guerra irregolare dando la caccia ai suoi guerrieri uno per uno o abbattendone i capi. Di solito, questo rende endemico il fenomeno e, se pure si riesce a domarlo del tutto, questo avviene in tempi lunghissimi e con costi umani ed economici assurdi. Immaginarsi ora che siamo di fronte ad un fenomeno che sta diventando una sorta di “Vietnam al cubo”. Il Vietnam fu una crisi regionale, questa è una guerriglia mondiale o quasi.
Riflettiamo su un punto: non si può dire che siano stati uccisi troppo pochi jihadisti, perché se consideriamo le guerre e le operazioni di polizia a livello mondiale, mettiamo insieme un bilancio di decine di migliaia di morti e di catturati e stiamo parlando non delle vittime in generale, ma di jihadisti militanti, stabilmente collegati a qualche organizzazione. Ed anche fra i dirigenti sono moltissimi i caduti ed i catturati. Ciò nonostante, il radicalismo armato islamico riesce sempre a risorgere, perché recluta sempre nuovi adepti e, a quanto pare, sempre più numerosi. E questo è solo un primo dato. Il secondo è il sostegno popolare che essi hanno.
Quella che è in corso non è solo una guerra fra islamici radicali e occidentali, ma anche una guerra civile interna alle società arabo-islamiche. Non c’è dubbio che gli jihadisti abbiano contro vasti settori di popolazione araba, credibilmente la maggioranza di essa, ma proprio questo fa capire che ci sono altre parti non piccole di popolazione che li sostengono. Se così non fosse, da tempo sarebbero stati sconfitti.
Quindi la domanda che dobbiamo porci è: quale è la base popolare dello jihadismo? E la seconda: come facciamo ad inaridire il loro serbatoio di reclutamento? Infine: chi sono i regimi amici dello jihadismo e come colpirli? Non ha senso fare una guerra alla Jihad se poi hai come “alleati” Pakistan, Arabia Saudita e Quatar che fanno il doppio gioco.
Ad esempio, ci siamo mai chiesti quanto pesi nelle simpatie degli arabi per la jihad l’incondizionato appoggio occidentale ad Israele? Sono un convinto sostenitore del diritto di Israele ad esistere, ma sono altrettanto convinto del diritto dei Palestinesi ad avere un loro stato. Ieri Israele si è suicidato ridando la vittoria alla destra al grido del “No allo stato Palestinese”. Ed allora, che ne dite di iniziare a parlare di sanzioni contro Israele per la sistematica disapplicazione delle risoluzioni dell’Onu? Perché non pensare alle pressioni più energiche, da parte dell’Occidente, sul governo israeliano perché receda da questa posizione demenziale? Forse questo minerebbe molte simpatie arabe per la Jihad.
Occorrerebbe, dunque, una revisione totale della strategia sin qui seguita: capire come conquistare le masse arabe intaccando la base di consenso degli jihadisti e convertendo all’opposizione attiva quanti già sono sfavorevoli. Ad esempio, più che mandare truppe occidentali, che gli arabi vedono come i “nuovi crociati” o come gli eredi del colonialismo, sarebbe opportuno dar vita e armare di tutto punto delle brigate volontarie pan arabe che combattano gli jihadisti. Poi occorrerebbe ribaltare la tradizionale impostazione occidentale che ha sempre combattuto i regimi militar-nazionalisti dell’asse turco-egiziano, privilegiando, invece, il rapporto con la parte più retriva dell’Islam e cioè l’area wahabita. L’Occidente sogna un “Islam moderato” (cioè prono ai comandi di Washington, Londra e Parigi) e non capisce che deve dialogare con l’Islam radicale ma non armatista. Chi può neutralizzare gli jihadisti non sono i camerieri dell’Occidente che ci si compiace di indicare come “moderati”, ma proprio la parte più radicale, intendendo per essa quella che rivendica indipendenza dall’Occidente e soggettività politica per il proprio mondo.
Tutto questo richiederebbe una svolta politica e culturale che le classi politiche occidentali non sono capaci, non sanno e non vogliono fare. E questo è il risultato.
Molto più forte della lobby delle armi, dell’amministrazione americana o di una qualche misteriosa loggia che qualcuno sogna annidata chissà dove, è l'ostinazione ideologica di chi decide. E l’autoinganno ideologico è sempre il peggiore.
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