di Roberto Prinzi
Migliaia di yemeniti sono
scesi in piazza ieri ad Aden per protestare contro i licenziamenti del
governatore della città Aidarous al-Zubaidi e del ministro Hani ali bin
Braik, decisi, lo scorso 27 aprile, dal presidente yemenita Abed Rabbo
Mansour Hadi. Nel corso della protesta – i cui numeri sono stati
giudicati da alcuni commentatori inferiori alle attese – i manifestanti
hanno chiesto all’ex governatore di formare una “nuova leadership
nazionale che possa rappresentare il Sud”.
La motivazione dietro la mossa di Hadi è semplice: al-Zubaidi
e Hani Bin Braik – protagonisti nelle battaglie anti-houthi ad Aden e
nei territori meridionali – sono troppo vicino ai secessionisti del Sud e
agli Emirati Arabi Uniti (EAU) e pertanto rappresentano un pericolo per
il “nuovo” Yemen che nascerà una volta rimossi i ribelli
sciiti. Una dichiarazione che può lasciar basiti a prima vista dato che
l’EAU è tra i principali sostenitori della coalizione a guida saudita
che combatte proprio per Hadi e fa parte di una commissione di
coordinamento con il governo yemenita formata a Riyadh con la
benedizione di re Salman.
Ma la meraviglia iniziale deve cedere subito il passo ad un’analisi più attenta degli obiettivi delle forze presenti in campo. Il legame conflittuale tra il presidente yemenita in esilio e Abu Dhabi va avanti infatti da tempo. Il
primo, accusa il secondo di violare la sovranità del Paese e di offrire
appoggio politico ai secessionisti meridionali che aspirano a riportare
in vita quel che fu tra il 1971 e il 1990 lo Yemen del sud. Due giorni fa il portale Middle East Eye
ha riferito che il presidente Hadi ha accusato personalmente Mohammed
bin Zayed (il principe ereditario di Abu Dhabi e comandante supremo
delle forze armate emiratine) di comportarsi in Yemen come un occupante
piuttosto che come un liberatore. Secondo fonti vicine ad Hadi citate
sempre dal sito statunitense, la rottura era stata sancita alla fine di
febbraio quando il presidente era volato negli Emirati per poter
appianare le differenze con l’alleato. In particolare sul controllo
dell’aeroporto della “capitale provvisoria” Aden, una questione
fondamentale sia per lo spostamento e il rifornimento delle truppe
emiratine che per lo stesso presidente che vive in esilio.
L’incontro, raccontano però le fonti, sarebbe andato malissimo:
durato solo 10 minuti in una stanza laterale del palazzo (non come negli
incontri ufficiali), sarebbe finito con uno scambio violento di accuse
con Hadi che avrebbe dato dell’occupante a bin Zayed mandandolo su tutte
le furie. A ricomporre la rottura tra i due “alleati” ci avrebbero
provato in almeno due occasioni i sauditi. Ma, più brava con le sciabole
contro infedeli, spacciatori e “stregoni” che nelle arti discorsive,
Riyadh non è riuscita nel suo intento di calmare le acque: il
licenziamento dei due uomini filo-emiratini ne è la prova più evidente.
Al di là delle indiscrezioni e dei racconti di fonti (di parte) che
possono contenere al loro interno molti elementi romanzeschi, il
dato certo è che l’alleanza saudita anti-youthi sia un’armata
raffazzonata, formata da gruppi molti diversi, con intenzioni, piani e
visioni politiche ancora più differenti riguardo al futuro del Paese,
quando lo Yemen sarà “liberato”. Queste divergenze, un tempo
attutite dai facili entusiasmi illusori della “guerra lampo” anti-houthi
venduta da Riyadh ai suoi alleati, appaiono sempre più evidenti man
mano che passa il tempo e il territorio yemenita si sta trasformando in
un sanguinoso (e costoso) pantano. E così, nella situazione di totale
stallo politico-militare, con il blocco sunnita che non riesce a
sfondare a nord e a riconquistare la capitale Sana’a, appare sempre più
evidente come ciascun gruppo provi a studiare nuove strade (o meglio, ad
imboccare le vecchie) per accaparrarsi quel che resta della torta
yemenita. Ecco, dunque, che la “leadership nazionale” sudista richiesta
ieri a gran voce ad al-Zubaydi – sebbene appaia per ora un tentativo
piuttosto velleitario di raggiungere l’agognata secessione – è una spia
di un malessere profondo e reale che serpeggia nella coalizione
Brancaleone benedetta da Riyadh. In questo scenario, bisogna capire come
si muoverà al-Qa’eda che dalla guerra yemenita ha ricavato enormi
vantaggi territoriali (e non solo quelli).
Qualche giorno fa Qasim al-Rimi, il super ricercato leader
del ramo yemenita dell’organizzazione jihadista (Aqap), ha di fatto
confermato per la prima volta ciò che tutti (anche in Occidente) sapevano da tempo, ma che pochi, per imbarazzo, avrebbero osato dire: i suoi uomini hanno combattuto “spesso” a fianco delle fazioni governative yemenite contro i ribelli houthi.
Non sappiamo cosa al-Rimi abbia voluto dire con quel “affianco” (con
che modalità e dove?) ma il dato importante è che l’Aqap (“il ramo più
pericoloso di al-Qaeda” secondo gli Usa), i Fratelli musulmani locali, i
salafiti, Hadi e i suoi mecenati in Arabia Saudita e negli Emirati
collaborano insieme da almeno due anni (da quando è iniziata la mattanza
nel Paese).
Questo elemento, tuttora taciuto colpevolmente dai media mainstream, è
imbarazzante prima di tutto per gli Stati Uniti d’America che da anni,
in modo tragicamente ironico, bombardano le postazioni qa’ediste (uccidendo qui e lì civili per cui non piange la comunità internazionale). Né figura migliore fa la stessa Europa che appoggia il governo Hadi in ossequioso rispetto per Riyadh.
Con le dovute differenze, una situazione del genere ricorda in qualche
modo quanto accade in Siria dove l’Occidente ha di fatto sdoganato i
qa’edisti di al-Nusra e le sue sorelle quando servono contro i nemici di
turno (lì al-Asad, qui houthi), salvo poi ricordarsi che sono spietati
“terroristi” quando presunti suoi affiliati o gli stessi barbuti che
hanno combattuto in Siria mietono vittime nel territorio “civilizzato”
europeo.
Lontana dai trastulli ambigui della diplomazia internazionale, sul
terreno le forze jihadiste stanno approfittando della lotta anti-houthi
per estendere la loro legge dell’orrore: Aqap si è di fatti allargata
nei territori del sud del Paese arrivando addirittura a conquistare
Mukalla, la capitale della provincia di Hadramawt (anche se poi l’ha
persa l’anno successivo).
E così, mentre l’armata Brancaleone si divide internamente e
la politica resta al palo ad aspettare chi sa cosa ormai, nel Paese i
combattimenti continuano a mietere vittime. Non passa una
settimana che un rappresentante di una ong locale o internazionale non
denunci la catastrofe umanitaria in corso nello Yemen. L’ultimo,
in ordine di tempo, è Jan Egeland, il direttore del Norwegian Refugee
Council: “Siamo di fronte ad una carestia di proporzioni bibliche
– ha detto mercoledì usando parole durissime per il fallimento degli
“uomini con la pistola e il potere in Yemen, nelle capitali della
regione e in quelle internazionali” di porre fine a “questa crisi
prodotta dall’uomo”. “Tutti i nostri sforzi attraverso il Programma
alimentare mondiale hanno raggiunto solo 3,1 milioni di persone dei 7
che sono sul punto di morire di fame. Ciò significa che altri 4 milioni
non hanno avuto niente ad aprile”. Le conclusioni si possono facilmente
trarre da sole.
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