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11/02/2020

Sanità: vediamo i fatti, fuori dalle chiacchiere

Fare sindacato in tempi di “sindacati complici” è certamente complicato, ma si può fare. Bisogna studiare, camminare, discutere con i lavoratori, assumere una visione d’insieme sulle politiche economiche che poi si scaricano come una “necessità imperscrutabile”, quasi divina, su un certo settore.

Questa lettera-documento dell’Usb al ministro della sanità dimostra che si possono tenere insieme diritti dei lavoratori e degli utenti – nella sanità è un criminale chi parla di “clienti” – solo assumendo quella “visione generale” che illumina fenomeni (tagli, appalti, project financing, crisi dei pronto soccorso, ecc) altrimenti inspiegabili o addirittura occasioni per creare una “guerra tra poveri”.

È una visione concretamente politica, perché entra nel merito dei problemi. È una critica feroce delle politiche di austerity e dell’Autonomia differenziata”, ma fatta attraversi numeri, singole misure, chiara identificazione dei punti critici. Fuori dalle chiacchiere e dagli slogan sempre uguali in tutte le occasioni, perché è nel concreto della lotta di classe che si fa la lotta di classe in modo consapevole.

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Il Decreto Legge 30 aprile 2019, n. 35, il cosiddetto Decreto “Calabria”, convertito il 25 giugno nella Legge 60/2019, l’intesa concernente il Patto per la Salute 2019-2021 e l’approvazione della Legge di Bilancio 2020, costituiscono, nel loro insieme, un quadro normativo e di intenti che, pur evidenziando un tentativo di invertire la tendenza al definanziamento del Fondo Sanitario Nazionale e pur contenendo misure volte al recupero parziale del personale medico, infermieristico, delle professioni tecnico-sanitarie e socio-sanitarie manifesta, alla luce del quadro attuale del SSN, palesi criticità.

Fra queste, mancati interventi per impedire lo spostamento della domanda verso il mercato privato, la mancanza di risorse vincolate per il rinnovo contrattuale, risorse alle quali dovranno provvedere le Regioni, l’espansione incontrollata dell’assistenza sanitaria integrativa e l’incertezza della esigibilità uniforme dei LEA in tutte le Regioni, specialmente in quelle interessate dai piani di rientro.

Sia la Fondazione Gimbe nel report 2019, che l’Ufficio Parlamentare di Bilancio nel Focus di dicembre su “Lo stato della sanità in Italia” attestano che il Fondo Sanitario Nazionale dal 2010 al 2019, con la scusa della sostenibilità legata al prolungarsi della crisi economica, ha subito una decurtazione della somma stanziata pari a circa 37 miliardi di euro.

L’Italia, quindi, destina alla spesa sanitaria pubblica un terzo di quello che stanziano i paesi dell’area euro avvicinandosi alla soglia, ritenuta critica, del 6,5% del PIL (un valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella di Germania 9,6% e Francia 9,5%) e destina alla prevenzione meno della metà della media europea.

Le misure volte al contenimento della spesa, sono state accompagnate e integrate da analoghe misure dirette alla riduzione del personale, blocco del turn-over, in tutta la pubblica amministrazione. In sanità la riduzione del personale ha colpito in maniera preponderante le Regioni sottoposte ai piani di rientro.

Le quali, dal 2008 al 2017, hanno visto calare di 36.700 unità i propri addetti, pari al 16%, a fronte di una riduzione totale di 42.000 unità, mentre nello stesso periodo nelle Regioni a statuto ordinario senza piano, la riduzione è stata del 2,2%.

Contestualmente, sempre con la scusante della sostenibilità del SSN, si è avviata una drammatica riduzione della rete ospedaliera e dei posti letto per acuti il cui rapporto scende a 3,7 posti letto ogni mille abitanti nel 2007 fino a 3,2 nel 2017. Questo a fronte di una media europea di 5,7 posti letto ogni mille abitanti. Media europea che vede l’Italia distante dai paesi europei avanzati, ad esempio Germania e Francia, che ne vantano rispettivamente 6 e 8.

Anche in questo caso le Regioni che hanno pagato in maniera più consistente la riduzione dei posti letto sono state quelle sottoposte ai piani di rientro. Alla riduzione della rete ospedaliera e dei posti letto per acuti, non ha fatto da contraltare lo sviluppo del Territorio e delle attività distrettuali.

Le Case della Salute e la Medicina d’Iniziativa non hanno trovato applicazione pratica, se non in alcune Regioni e solo con progetti finanziati finalizzati, mentre la continuità assistenziale e la medicina di prossimità restano concetti teorici, rimanendo la gestione e l’assistenza a carico quasi esclusivo delle famiglie.

La riduzione dei posti letto, non compensata da un sufficiente rafforzamento dei servizi territoriali, ha provocato il sovraffollamento dei Pronto Soccorso e i conseguenti sempre più frequenti episodi di aggressione nei confronti degli operatori sanitari. Non è più procrastinabile prevedere l’innalzamento del numero dei posti letto per acuti e la tutela degli ospedali e dei territori montani e periferici.

Dopo un decennio di costante sottrazione di risorse, quindi, ci ritroviamo con un sistema sanitario forse efficiente dal punto di vista economico, sempre che l’efficienza in sanità possa definirsi dal punto di vista economico, ma sicuramente carente dal punto di vista dell’accesso ai servizi, del personale, sotto finanziato e con evidenti disparità e contraddizioni fra Regioni e, all’interno delle Regioni, fra aree territoriali.

Contraddizioni e disparità che vengono ancor più enfatizzate dalla gestione, volta a principi economicistici e non di salute, delle strutture sanitarie che antepongono il rapporto risorsa/risultato a quello risultato/risorsa e dall’allontanamento dei centri decisionali dal territorio complice la riorganizzazione, anche geografica, delle AASSLL.

In questa ottica di gestione vanno inseriti anche i tentativi di introdurre varianti organizzative come l’“intensità di cure” e la “lean management” che, alla luce della cronica carenza di risorse, sembrano solo tentativi tesi a raschiare il fondo del barile e dove a “risanare” è chiamata solo una categoria, cioè i lavoratori e le lavoratrici del comparto.

Lavoratrici e lavoratori che, penalizzati da anni di blocco contrattuale hanno visto, con l’istituzione degli Ordini Professionali multi-albo, fortemente sostenuta da una incessante attività di lobby, penalizzato ulteriormente il loro reddito.

È inoltre urgente per dare risposta al bisogno di crescita, rivedere e contestualizzare la normativa sulle Professioni Infermieristiche e Tecnico-Sanitarie e di concerto con la Conferenza Stato Regioni la revisione, alla luce del reale impiego e delle mutate condizioni di lavoro, del profilo dell’Operatore Socio Sanitario e di dare attuazione alla prevista Area Socio Sanitaria.

La gestione del processo sanitario e di tutela della salute, governato e basato sull’isolamento dei centri decisionali, sulla esclusiva quadratura del bilancio ed usato esclusivamente come strumento di miglioramento della performance e dell’efficienza economica è destinato al fallimento, come dimostra la classifica dell’erogazione dei LEA che vede occupare le ultime posizioni dalle Regioni (escluse le Regioni e Provincie autonome) sottoposte a piano di rientro e commissariamento.

Riteniamo che sia di rilevante importanza cogliere il fallimento dei piani di rientro per come sono strutturati attualmente e di prevedere un dispositivo che, a fronte del risanamento dei conti, sia vincolato alla tutela e alla garanzia dell’erogazione dei servizi. Un quadro, quindi, di profonda diseguaglianza che andrebbe ad aggravarsi ulteriormente se il progetto della cosiddetta “autonomia differenziata” andasse a compimento.

È peggiorato il saldo fra mobilità attiva e passiva e, focalizzando l’attenzione sui determinanti sociali della salute e sulle differenze socio-economiche territoriali, emergono dati allarmanti sulle differenze fra Nord e Sud. Chiediamo quindi che il Ministro della Salute faccia quanto in Suo potere per impedire che la competenza sulla Sanità passi in maniera esclusiva alle Regioni che ne hanno fatto richiesta ed inoltre auspichiamo maggiori capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni a garanzia dell’erogazione dei LEA e del governo delle liste di attesa nonché, nello specifico, della norma sulle reinternalizzazioni contenute nel Decreto Calabria.

Sono milioni gli italiani che hanno difficoltà ad accedere alle cure per motivi economici e sono altrettanti quelli che per curarsi, a causa di liste di attesa interminabili, sono costretti a rivolgersi al privato o alla libera professione intramoenia, alimentando la spesa out of pocket.

Si esternalizzano servizi, siano essi cucine o manutenzione, pulizie o sterilizzazioni e si fanno convenzioni con il privato in settori sanitari rilevanti quali la riabilitazione, dove oramai la presenza pubblica risulta marginale o, come in Lombardia, si affida la gestione del paziente cronico e dell’anziano fragile al miglior offerente, sia esso pubblico o privato, mentre in altre Regioni si stanziano milioni di euro, con la scusa dell’abbattimento delle liste di attesa, per prestazioni da effettuarsi tramite il cosiddetto privato sociale.

Prolifera quindi, in maniera pervasiva e incontrollata, il fenomeno della somministrazione illecita di mano d’opera, realizzata mediante appalti di affidamento non genuini, così configurando, di fatto, un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dell’Amministrazione, assimilabile a quello con contratti flessibili che danno diritto all’accesso alle procedure di stabilizzazione.

Chiediamo quindi che la platea dei lavoratori interessati dai processi di stabilizzazione sia estesa anche a coloro che hanno lavorato per il SSN con un regime di lavoro nel quale si è prefigurata la somministrazione illecita di mano d’opera. Si foraggia inoltre il “privato convenzionato” attraverso rimborsi stabiliti da tariffe fissate nel 2012 dal Governo Monti, con una cifra stimata di circa 2 miliardi di euro all’anno.

Ad aggravare il contesto si inserisce la pratica, oramai ampiamente diffusa, della costruzione di nuove strutture sanitarie utilizzando il project financing.

Questa forma di co-finanziamento pubblico/privato, garantisce a quest’ultimo la gestione dei servizi ospedalieri non sanitari per vari decenni e va ad alimentare la compressione dei diritti e dei salari, a nutrire il sistema degli appalti e dei relativi, massicci, fenomeni corruttivi e spesso, come certificato ad esempio dalla Corte dei Conti in Toscana, l’entità delle risorse impiegate dalla componente pubblica, risulta essere anti economica.

Pur apprezzando che dalla versione licenziata del Patto per la Salute, sia sparita la formula “ricerca di tutte le forme di finanziamento” riguardo appunto l’edilizia sanitaria, pensiamo sarebbe servita più determinazione nello stabilire che gli ospedali sono pubblici e la loro costruzione e gestione lo sono altrettanto.

A fronte di tutto questo, come specificato in apertura, sono apprezzabili nel Patto per la Salute, il superamento del comma 361 della Legge 145/2018, l’aumento della percentuale di incremento per la spesa del personale dal 5% al 10% da calcolarsi sull’aumento del FSR con possibilità di portare l’incremento al 20%, la conferma del percorso di attuazione di quanto previsto dall’art. 11 comma 1 del DL 35/2019 in materia di assunzioni mediante risparmi derivanti dalla reinternalizzazione dei servizi sanitari e la possibilità, per le Regioni in equilibrio economico, di destinare alla contrattazione integrativa risorse aggiuntive nel limite del 2% del monte salari regionale rilevato nel 2018.

Come apprezzabile è, nella Legge di Bilancio 2020, la riformulazione dell’art.11 del Decreto Calabria sul tetto di spesa del personale che non può superare quello del 2018, anche se è evidente che le Regioni con piano di rientro, come visto, hanno subito una forte riduzione del numero degli addetti e quindi beneficeranno ben poco di questa variazione; la modifica alla Legge Madia sul superamento del precariato che estende la possibilità per le amministrazioni di assumere a tempo indeterminato fino al 31 dicembre 2022 ed il termine entro cui i lavoratori e le lavoratrici devono aver maturato almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, viene spostato a fine dicembre 2019 e nel Decreto “milleproroghe” attualmente in esame, è stato presentato un emendamento che porta il termine al 31 dicembre 2020, l’abolizione graduale del super ticket che però in svariate Regioni è già stato abolito e quindi non sarà una misura di impatto generale.

Mentre rimane a nostro avviso invariato l’approccio per quanto riguarda il “secondo pilastro”, cioè i fondi sanitari integrativi per i quali chiediamo di eliminare le agevolazioni fiscali

Le misure, accompagnate da un lieve incremento del FSN, sembrano sì denotare un cambio di approccio nella governance del SSN, ma risultano ampiamente insufficienti a sanare e compensare tutte le criticità che si sono palesate in anni di definanziamento e sottrazione di risorse.

USB ritiene non più procrastinabile, per tornare a garantire il SSN universale e il rispetto dell’art. 32 della Carta Costituzionale, tornare a investire massicciamente in salute, in sanità e nel personale che le garantisce e chiediamo quindi al Ministro della Salute On. Speranza di adoperarsi affinché si ottenga, nel quinquennio 2021 – 2025 il recupero dei 37 miliardi sottratti dal 2010 al 2019 al Fondo Sanitario Nazionale e l’ individuazione di una soglia minima, parametrata sugli standard europei avanzati, del rapporto spesa sanitaria/PIL, nonché la previsione di un incremento percentuale annuo costante.

Domandiamo al Ministro di adoperarsi affinché venga creata una cornice normativa mediante la quale le Regioni possano provvedere a un piano straordinario di assunzioni, subordinandola alla programmazione del proprio fabbisogno, che interessi in maniera particolare le Regioni con piano di rientro. Piano di assunzioni che, a partire dai 100.000 infermieri necessari a portare, perlomeno, il rapporto infermiere\popolazione nella media europea, comprenda tutti i profili professionali.

Chiediamo inoltre, la reinternalizzazione dei servizi in affidamento a cooperative e privato sociale, la reinternalizzazione della rete dell’Emergenza Urgenza e del 118 e una approfondita revisione normativa che impedisca alle Regioni, come sta accadendo in questi giorni nel Lazio al Policlinico Umberto I e al Sant’Andrea, di continuare a affidare interi reparti ospedalieri alla gestione privata.

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