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11/02/2020

Produzione industriale in crisi

C’è un virus che non abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana. E non si tratta, per adesso, del germe cinese. Si chiama recessione e, anche se i valori delle analisi statistiche non lo accertano formalmente, in realtà agisce sotto traccia e continua a proliferare. Dopo i dati della scorsa settimana sul Pil, è di ieri un nuovo, allarmante sintomo: l’Istat ha certificato che a dicembre la produzione industriale italiana è calata del 4,3%. Una percentuale davvero considerevole.

Questa la notizia di ieri e dai media si lanciano segnali d’allarme e l’ex-ministro e presidente dell’ISTAT Giovannini afferma “l’Italia è un paese senza progetto”.

Vale allora la pena ritornare su questi (decisivi) argomenti con alcune osservazioni.

La situazione italiana può essere, ancora una volta, schematizzata in relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti.

Si tratta di argomentazioni già sostenute in varie sedi ma mai come in questo caso “repetita juvant”.

Il punto di partenza non può che essere quello degli anni ’70: la fase di avvio dello “scambio politico”, attraverso l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.

Negli anni ’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni ’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’IRI fu trasformata in s.p.a.

L’esito più grave della fase dello “scambio politico” infatti, si realizzò in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:

1) l’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;

2) la perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;

3) a fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;

4) si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio;

5) la totale acquiescenza sia ai meccanismi imposti dall’Unione Europea in ossequio ai trattati e la conseguente subalternità ai processi di globalizzazione e di nuova dimensione dello scambio a livello internazionale.

Sono questi, riassunti in una dimensione molto schematica, i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.

Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza temere di apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione, al contrario di quanto stanno facendo gli attuali partner di governo confermando reddito di cittadinanza e quota 100 così come quest’ultimo provvedimento era stato congegnato dall’alleanza Lega – M5S.

Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle prospettive dell’economia italiana.

I risultati di questi giorni ci indicano ancora una volta ci si sta muovendo in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale che arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi ricordando “meno tasse per tutti” e il solito “milione di posti di lavoro”.

Ma forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase artigianale e il peggio deve ancora arrivare.

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