Il 25 aprile del 1971 l’obelisco innalzato
nel 1932 in onore di Benito Mussolini, monumento alla mitologia
imperiale del regime fascista e al culto della personalità, eretto
all’entrata del Foro Italico (ex Foro Mussolini) a Roma doveva saltare
in aria.
A decidere l’azione dalla fortissima portata simbolica era stato il
livello occulto di Potere operaio romano guidato da Valerio Morucci. Il
progetto – racconta Paolo Lapponi nel libro di Aldo Grandi, Insurrezione armata
(Bur Rizzoli, 2005, p. 161) – era pronto in tutti i suoi minimi
dettagli: «Due cariche cave disposte a taglio alla base della stele, che
sarebbe venuta giù tutta intera sulla corsia stradale tenuta sgombra al
momento opportuno da squadre di militanti». A ricordare l’episodio è
stato anche lo stesso Morucci in Ritratto di un terrorista da giovane,
Piemme 199, p. 81-82: «Avevo letto da qualche parte che il pezzo
superiore dell’obelisco era un monolite fatto arrivare dalle cave di
Carrara con il quale si intendeva emulare, nella consumata arte
scenografica del regime fascista, le gesta degli antichi romani che
avevano portato a Roma obelischi egizi. Poteva bastare una buona carica
alla base per farlo venir giù come una pera matura. Però, per essere
sicuri, ne preparammo due. Prendemmo delle cassette da frutta, quelle
alte e robuste, e le riempimmo di esplosivo da mina, ossia nitrato
d’ammonio, meno potente del tritolo ma pur sempre un esplosivo che
spalanca le montagne. Saranno stati una quindicina di chili. Avrebbero
sentito il botto fino a Napoli. Sul librone che mi aveva regalato
Feltrinelli, nella sezione dopo la cannabis, dedicata agli esplosivi,
avevo letto che le cariche cave erano più efficaci per arrivare in
profondità, e così al centro del nitrato d’ammonio incastrai due coni di
rame rovesciati per concentrare l’esplosione. Studiando il piano
decidiamo di arrivare all’obelisco passando dietro alla Farnesina e
costeggiando lo stadio. Poi bisognava pensare ad interrompere il
traffico, perché tutta quella roba che sarebbe crollata poteva ammazzare
qualcuno. Prendiamo delle transenne bianche e rosse che alcuni di noi
dovevano mettere sul lungotevere per deviare il traffico una volta
piazzata la carica». Purtroppo l’operazione non andò in porto «perché a
cento metri di distanza, all’Istituto di educazione fisica (Isef), era
in corso un’occupazione studentesca. Era troppo rischioso – racconta
sempre Lapponi. Aspettammo un giorno o due per vedere se l’occupazione
terminava, poi rinunciammo». E così l’obelisco che in pieno terzo
millennio proclama «Mussolini Dux», come i tetragoni blocchi di
travertino dedicati alle conquiste del regime fascista posti alle sue
spalle che – ha scritto Alessandro Portelli sul manifesto del
12 giugno scorso – stanno ancora lì, «come forche caudine (per non dire
dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i
piedi)». «L’opera colossale – declamava Il Popolo d’Italia del
5 novembre 1932 – quella che desta l’ammirazione di chi guarda è il
gigantesco monolito eretto nell’Urbe al nome di Mussolini quale
segnacolo del rinnovamento nazionale da lui voluto ed attuato. Il
candido blocco di marmo strappato ai fianchi delle montagne Apuane, ha
attraversato il mare, ha risalito il fiume, ed ora è volto verso il
cielo».
L’idea dell’obelisco era venuta al ras del fascismo carrarese Renato
Ricci, dal 1927 presidente dell’Opera Nazionale Balilla (ONB),
l’organizzazione fascista della gioventù. Ricci aveva impostato un
imponente programma di costruzione di infrastrutture, Case del Balilla,
palestre, impianti sportivi, convitti. Tra esse spiccava a Roma il Foro
Mussolini, vasto complesso di impianti sportivi iniziato nel 1928 sotto
la guida dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio. In esso avrebbe
dovuto campeggiare l’obelisco destinato a celebrare a imperitura memoria
il capo del fascismo. L’obelisco, simbolo del «fascismo di pietra»,
diventava protagonista della storia ideologica di un regime che nel
culto della personalità del suo capo cercava il momento di una
compattezza totalitaria (per una storia dell’obelisco vedi qui).
L’ira iconoclasta dei movimenti antirazzisti
L’abbattimento a Bristol, vicino Londra, nel corso di una manifestazione
antirazzista della statua del trafficante di schiavi Edward Colston e
la rimozione, sotto la spinta dei movimenti afroamericani, di quelle
erette in onore di generali e uomini politici del Sud schiavista, come
quelle del generale sudista Robert E. Lee nel centro di Charleston o
Richmond, negli Stati Uniti, dopo l’omicidio di George Floyd da parte di
un poliziotto, ha scatenato da noi molte discussioni sulla liceità di
queste azioni ritenute eccessive, un’offesa alla memoria del passato,
un’indebita censura della storia. Si è tornati a parlare anche della
statua milanese di Indro Montanelli presa di mira nuovamente dopo il
raid del 2019. Il giornalista, voce della destra storica italiana,
personaggio dalle sette vite, grande opportunista sempre pronto a tenere
i piedi in due scarpe, scaltro nel cambiare casacca all’avvicinarsi di
ogni cambio di regime e mantenere immutata la sua poltrona al sole, che
raccontò di aver acquistato durante la campagna coloniale in Etiopia del
regime fascista una giovane schiava per soddisfare le sue esigenze
sessuali.
A queste anime belle, a questi nuovi guardiani della memoria, ha
risposto Alessandro Portelli spiegando che la memoria non è un semplice
deposito del tempo passato, «ma una forza attiva nel presente». Un
monumento esiste perché chi l’ha eretto intendeva lanciare e lasciare un
messaggio. Il significato politico-ideologico del Foro Mussolini, per
esempio, fu spiegato in modo esemplare dallo stesso Ricci: «Dal punto di
vista storico-politico, un monumento che riallacciandosi alla
tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli il ricordo della
nuova civiltà fascista, legandola al nome del suo Condottiero»(1).
Come giustamente ha chiosato Portelli «Queste icone, lungi dallo
svolgere una funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su
tutte le altre, congelano la storia in un passato monumentale e negano
tutta la storia che è venuta dopo».
(1) Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937, p. 5.
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