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15/06/2020

Il ruolo delle banche centrali in crisi

È a suo modo un paradosso: le banche centrali sono padrone della moneta – la stampano, la controllano, sorvegliano (in teoria) le banche private perché non assumano rischi incontrollabili, ecc. Che siano o no “prestatori di ultima istanza” (praticamente tutte, meno la Bce), non sembrano istituzioni che possano andare in crisi per ragioni economiche.

Il loro ruolo, infatti, è quello di tirar fuori gli altri – gli Stati e le banche – dalla crisi.

Ma quando incontriamo un paradosso, ci spiega la filosofia migliore, significa che stiamo sbattendo contro una contraddizione reale. Qualcosa che insomma non riguarda “il linguaggio” o “il ragionamento”, ma direttamente “le cose”, la realtà materiale... Le parole sbattono le une contro le altre cercando di descrivere le traiettorie dei fenomeni.

Quello che è entrato in crisi, più precisamente, è (anche) il ruolo delle banche centrali. Di fatto, non riescono più a tirar fuori dai guai i soggetti per la cui protezione sono nate (Stati e banche).

Nelle crisi più recenti (dall’esplosione della net economy, all’alba del 2000, alla crisi dei mutui subprime e post-fallimento di Lehmann Brothers, 2007-2008) c’erano invece riuscite. Ma proprio il modo in cui hanno affrontato e risolto quelle crisi – il quantitative easing, ossia l’immissione di liquidità nel sistema finanziario, in dosi mostruose – ha creato le condizioni per la propria stessa crisi.

Continuano a “stampare denaro” a rotta di collo, comprando titoli di Stato e privati dal valore spesso dubbio (o nullo), eppure non riescono più a far uscire dalla palude l’economia reale. L’espressione è antica, ma sempreverde: l‘acqua c’è, e pure troppa, ma il cavallo non beve.

La ragione è stata spiegata molto bene qualche giorno fa da Maurizio Novelli, gestore di un fondo di investimento svizzero (Lemanik): i dirigenti delle banche centrali, così come la quasi totalità degli “investitori professionali” occidentali (non quelli cinesi, per molte ragioni), si è formato negli ultimi 40 anni nutrendosi di “pensiero unico”, neoliberista e monetarista.

Un’ideologia come altre, ma caratterizzata dal fatto che ogni fenomeno o problema viene ridotto a “già noto”, affrontabile con strumenti ben rodati e formule matematiche adattate alla bisogna. Un’ideologia che, come tutte le altre, funziona benissimo finché le cose vanno bene.

Quando vanno male, e bisogna chiedersi “perché?”, vanno in loop. Prescrivendo una dose maggiore delle stesse sostanze tossiche che hanno provocato la crisi. Un tossicodipendente, o un medico che lo ha in cura, vi può spiegare il meccanismo molto bene.

Questa teoria non distingue tra liquidità e solvibilità. Chi prende decisioni con questo schema in testa semplicemente “non vede” – non ha gli occhiali giusti – che la liquidità creata in dosi massicce non produce i risultati attesi. Se non per metà (tiene in piedi il sistema finanziario, ma non rianima l’economia reale).

E le due metà sono, com’è ovvio, due facce dello stesso problema. La liquidità non si trasforma infatti in disponibilità di credito per imprese e famiglie (quindi investimenti e consumi), per una ragione così semplice da non richiedere alcuno studio economico elevato. Una banca privata non concede prestiti a chi non può garantire – in misura credibile, salvo catastrofi – la restituzione. Insomma, a chi non è solvibile.

Al contrario, banche e varie altre società finanziarie private possono da vent’anni o quasi fare qualsiasi follia con la quasi certezza che, sull’orlo del baratro, verranno salvate. Dagli Stati, naturalmente; e/o dalle banche centrali. Basta che siano considerate “troppo grandi per fallire” (guardate Deutsche Bank e tremate...).

L’unica eccezione rilevante a questa regola è stato il fallimento di Lehmann Brothers, e le conseguenze ancora vengono ricordate con terrore.

Questa asimmetria tra attività economiche reali, dove il rischio fallimento è la regola, e le attività speculative (dove invece è l’eccezione) è forse una delle prove più chiare dell’impazzimento del sistema capitalistico maturato con la cosiddetta “globalizzazione”.

Non solo, infatti, i tempi di rientro di un investimento finanziario sono enormemente più rapidi (e remunerativi) di qualsiasi investimento industriale, ma per i primi esiste ormai una “garanzia di salvataggio” che non si dà per le seconde.

Il risultato è noto, nei suoi termini generali. Le industrie, ossessionate dai risultati trimestrali per sostenere le proprie quotazioni azionarie in borsa, investono i profitti soprattutto in attività finanziarie (tipico il fenomeno del buyback, l’acquisto di azioni proprie per tenerne elevato il prezzo o incrementare i profitti). Riducendo invece quelli produttivi.

Il circolo è infernale, più che vizioso. Ma non è “riformabile”, perché nessun “regolatore” (uno Stato o un insieme di Stati in alleanza) ha la forza finanziaria per sostenere l’impatto dell’esplosione di questo generatore di “bolle speculative”.

Così, lentamente, nell’arco di 20 anni, le banche centrali si sono trasformate in “compratori di ultima istanza”. Il contrario della ragione strutturale per cui erano nate (mantenere in equilibrio i tassi di profitto tra attività industriali e attività finanziarie, agendo sulla leva dei tassi di interesse; proteggendo così il buon funzionamento dell’economia nel suo complesso e un certo grado di coesione sociale nonostante la ferocia dello sfruttamento).

Comprando di tutto, di fatto le banche centrali – e massimamente la Bce, unica a non finanziare almeno potenzialmente le spese di uno Stato – concretizzano due movimenti distruttivi.

Per un verso, “scaricano tutto il peso della crisi sugli Stati: comprano titoli pubblici a manetta, perché agli Stati spetta indebitarsi per salvare il sistema. Saranno gli Stati a dover ripagare tutto”.

Per un altro, i continui salvataggi a botte di “iniezioni di liquidità” hanno convinto gli operatori finanziari che questa fosse la nuova normalità: “La commistione che si è creata tra Banche Centrali, Asset Managers, Banche e grandi gruppi di Private Equity ha portato alla costruzione di un sistema che crede che il rischio non esista più per chiunque”.

Abbiamo insomma un “sistema” in cui ogni problema finanziario ed economico può e deve essere risolto con i soldi che lo Stato (qualunque Stato) può mettere; ma al tempo stesso quello Stato, banca centrale compresa, deve star lontano dall’economia, non chiedere tasse alle imprese, spendere sempre meno, pagare interessi sul debito il più alti possibile. Garantire tutto a tutti e non chiedere nulla a nessuno.

Troppa grazia, santantonio...

Il problema sociale, e dunque politico, non è che questo sistema alla lunga “non può reggere”. Non ha retto, non sta reggendo, si incarta in una nuova crisi prima ancora di aver finito di lenire i guasti della precedente.

Il problema vero è che non si può riformare. Troppo grandi gli interessi in campo (“troppo grandi per fallire” significa aver esternalizzato il rischio sugli altri attori in campo), troppo interconnesse le relazioni, troppo da perdere per chiunque abbia il potere e la potenza per decidere.

Questo sistema può solo provare a sopravvivere a discapito di tutto (umanità, natura, clima, risorse). Il rovesciamento del ruolo delle banche centrali è uno dei segnali di una rottura in via di maturazione.

Ma una rottura a questo livello, una crisi sistemica, può evolvere in molte direzioni, anche opposte tra loro. È un’occasione di cambiamento, o la certezza della barbarie.

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