di Chiara Cruciati – Il Manifesto
La trattativa con l’Egitto per la commessa di due fregate Fremm Fincantieri al non era «tuttora in corso», come detto in parlamento due giorni fa dal
ministro degli Esteri Di Maio.
Il via libera del governo Conte 2 alla vendita non dovrebbe far dimenticare che le due fregate Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi
– e il resto del pacchetto, tra 9 e 11 miliardi di euro comprendenti,
stando alle indiscrezioni, altre quattro fregate e 20 pattugliatori
d’altura di Fincantieri, 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo,
24 caccia Eurofighter Typoon e un satellite da osservazione – vanno a rafforzare l’esercito di un paese che nel Mediterraneo ha interessi ben diversi da quelli italiani (vedi la Libia, con Roma schierata al fianco del tripolino Fayez Sarraj e Il Cairo del generale cirneaico Khalifa Haftar).
L’accordo è fatto, con un bagaglio di contraddizioni politiche ed economiche che travolge tanto l’Italia quanto l’Egitto.
Se dentro l’esecutivo giallo-rosso entrano in conflitto aperto fatti e
parole fin qui spese da esponenti di Pd, 5S e Leu, dall’altra parte del
Mediterraneo a esplodere è l’abissale gap tra il governo militare del presidente Abdel Fattah al-Sisi e una popolazione sempre più povera.
Quale sia la politica perseguita dall’ex generale golpista è chiaro: privo
di uno schieramento politico ramificato e capace di mobilitare basi
ampissime come fu per Hosni Mubarak il Partito nazionale democratico o
per Mohammed Morsi la Fratellanza Musulmana, al-Sisi ha a disposizione
l’esercito. È sulle forze armate e i servizi segreti che si fonda la legittimazione del sistema di potere instaurato dal golpe del 2013.
Non è un caso che in questi anni diverse riforme legislative abbiano
allargato i poteri dell’esercito, mentre prosperava il già radicato
oligopolio economico e commerciale – soprattutto in ambito civile –
delle aziende delle forze armate. Che producono di tutto, dalla pasta
alle televisioni, dai fertilizzati al cemento.
Controllano una fetta di Pil che
si aggira intorno al 40% su un totale di circa 250 miliardi di dollari
l’anno, grazie anche all’uso di manodopera a basso costo (decine di
migliaia di reclute pagate poche decine di dollari al mese) e alla
vincita di appalti milionari per le mega infrastrutture volute da
al-Sisi.
Che il presidente senta la necessità di
puntellare il suo rapporto con la casa madre, le forze armate, non
stupisce. Potrebbe stupire che questi acquisti miliardari vengano
ordinati da un paese costantemente sull’orlo del fallimento. L’Egitto,
tra il 2015 e il 2019, ha incrementato del 206% le importazioni di armi
rispetto al quinquennio precedente, scalando la classifica: è terzo al mondo per acquisto di materiale militare
e, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, le sue
importazioni rappresentano il 5,58% del mercato globale con 40 accordi
di vendita dal valore totale di 15 miliardi di dollari siglati negli
ultimi sei anni.
Eppure appena un mese fa Il Cairo otteneva dal Fondo
monetario internazionale un altro prestito per affrontare l’emergenza
Covid-19 che, secondo il ministro delle Finanze Mohamed Mohamed Maait, è
costato al paese 8,66 miliardi di dollari a causa del crollo
del turismo, delle rimesse dall’estero e del tasso di occupazione, oltre
a portare il sistema sanitario sull’orlo del collasso.
L’Fmi ha approvato 2,772 miliardi di dollari da fornire con il
sistema Rfi (Rapid Financing Instrument) che si aggiungono ai 12
ricevuti dal 2016, in cambio di riforme di austerity scontate dalla
popolazione. Lo ha scritto in una nota lo stesso Fmi, lo scorso 11 maggio: l’Egitto ha fatto i compiti a casa con il suo piano di riforme economiche interne.
Che non si ferma: a inizio settimana il ministero
dell’Elettricità ha annunciato l’ennesimo aumento del costo della
corrente elettrica, +19% a partire da luglio. Intanto il tasso di
povertà continua a salire: il 32,5% degli egiziani, 32 milioni di persone, vive sotto la soglia di povertà, un altro 30% poco sopra.
Chi paga dunque lo shopping militare di al-Sisi, in un paese
il cui reddito pro capite sfiora appena i 3mila dollari l’anno? In parte
gli stessi paesi che vendono. È il caso italiano, secondo indiscrezioni riportate dal sito egiziano di monitoraggio Egypt Defence Review e da quello italiano Start Magazine:
Cassa Depositi e Prestiti, controllata del ministero dell’Economia,
potrebbe fornire una garanzia di 500 milioni di euro per l’operazione
delle due fregate Fremm, dossier visionato dal cda lo scorso gennaio,
coinvolgendo la Sace e diverse banche, quali Intesa San Paolo, Bnp
Paribas e Santander.
C’è da tutelare il made in Italy. Le valutazioni politiche non le fa
Cassa Depositi e Prestiti, il cui mestiere è tutelare l’industria
italiana tra cui la cantieristica, ma chi la controlla, il governo. Che
sta operando un’enorme vendita militare a un paese non alleato e
violatore seriale di diritti umani per gli interessi economici propri e
di grandi aziende.
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