Destino comune a tante band dell’epoca, i Buffalo Springfield sono durati molto poco. Tre anni e tre dischi, di quelli però sufficienti a consegnarti alla leggenda. A decretare la fine della band, nel 1968, furono il consumo di droghe e, non in maniera minore, il burrascoso rapporto tra le due anime creative della band, Stephen Stills e Neil Young (gli strascichi delle loro controversie avrebbero segnato anche l’esperienza del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young). Due frontman in eterno conflitto, la cui unione artistica ha dato però risultati debordanti.
In realtà i Buffalo Springfield, per entrare nella storia della musica popular, si sarebbero potuti anche fermare a un disco solo. Ossia il full length eponimo del 1966, contenente l’immensa “For What It’s Worth”, quella che in tutta probabilità potremmo chiamare la protest song più famosa di sempre. Un brano ispirato a Stills dai Sunset Strip Curfew Riot (meglio conosciuti come gli Hippie Riots), ma indissolubilmente legato alla guerra del Vietnam, il cui arpeggio solenne e doloroso riecheggerà nell’eternità di film in film, di documentario in documentario.
Il drammatico scenario di una carriera finita dopo un solo disco, i Buffalo Springfield lo hanno sfiorato per davvero. Difatti ci è mancato davvero poco affinché “Buffalo Springfield Again”, il disco più influente e importante della formazione americano-canadese, non vedesse mai la luce.
I Buffalo Springfield di “Again” erano, a conti fatti, una formazione sull’orlo dello scioglimento. Young e Stills si mal tolleravano, il bassista Bruce Palmer si era fatto arrestare per possesso di droghe ed era stato rimpatriato in Canada, mentre il cantante e chitarrista Richie Furay, che del primo disco non aveva composto o firmato alcun brano, non aveva il carisma per prendere le redini della carrozza, il batterista Dewey Martin men che meno. Difatti, poco prima dell’uscita del disco, sia Young che Palmer lasciarono ufficialmente il gruppo per una prima volta. La situazione tesa e complicata rese quindi la fase di registrazione del disco molto lenta e macchinosa: nove lunghi mesi, laddove per portare a casa il debut album erano bastate poche settimane.
Anche
se Palmer fu reintrodotto illegalmente negli Stati Uniti per prendere
parte alle registrazioni, in numerosi brani fu sostituito da disparati
turnisti. Young e Stills preferivano non lavorare insieme, così che i
brani dell’uno non videro la partecipazione (nella stessa sala di
registrazione) dell’altro, con Furay a fare suo malgrado da tramite.
L’atmosfera pesante, l’ombra del consumo di droghe, il rapporto
difficile tra due primedonne come Stills e Young e le difficoltà
logistiche fecero del disco, registrato peraltro a cavallo di ben tre
studi losangelini (Sunset Sound, Columbia Recording e Gold Star), una sorta di prova generale di "Deja Vu" di CSN&Y, altro disco leggendario sia per la sua musica che per la gestazione tutt’altro che liscia.
Prodotto
nel corso del 1967 da Furay, Stills e Young insieme a noti produttori
dell’epoca (non mancheremo di citarli di comparsa in comparsa), “Buffalo
Springfield Again” è una vera e propria pietra angolare del folk-rock
americano, che per maturità e personalità segna uno stacco netto con
buona parte del rock disimpegnato ed edonista dell’epoca. Le personalità
distinte e, come abbiamo anticipato, talvolta conflittuali dei membri
della band ne fanno un lavoro scostante, ma non per questo incoerente o
frammentario. Un mosaico armonico di brani proni a inerpicarsi nelle
angolazioni più disparate: le radici country e blues, il pop
orchestrale, il rock più duro, le inevitabili incursioni nella
dimensione psichedelica. Il disco uscì difatti in piena golden age della psichedelia californiana
e, pur spingendo il rock verso la tradizione piuttosto che verso questo
tipo di sperimentazioni, non poté che esserne decisamente influenzato.
L’operazione di fusione a freddo tra il rock e la tradizione della musica americana di “Buffalo Springfield Again” tiene sempre ben salda in mente la missione politica dei suoi membri, mutuandone l’atteggiamento da attivisti in prima linea. Le liriche del disco non vivono però soltanto di politica, attingendo sovente dalle esperienze personali e dall’interiorità dei loro autori, molto liberi e scoordinati anche dal punto di vista testuale.
Pur fermandosi alla posizione n.44 della classifica di Billboard, il disco avviò un processo di conquista del mercato discografico americano da parte del rock legato alla tradizione country e folk, che avrebbe visto il suo apice soltanto qualche anno dopo, proprio con i lavori di Crosby Stills & Nash e Crosby Stills Nash & Young. Sebbene non accreditato, David Crosby fa peraltro la sua comparsa, fortemente voluta dall’amico Stills, nel brano di quest’ultimo “Rock And Roll Woman”, del quale ha cantato i cori e co-firmato il testo.
L’inizio del disco è tutto del Loner Neil Young che con “Mr. Soul” porta i Rolling Stones in America, incorporando la British invasion nel Dna del nuovo rock americano. Il riff portante di chitarra è irresistibile, la bruciante rifinitura delle altre chitarre, che anticipano ruggiti ed effettistica di certo hard rock, travolgente; mentre il controcanto offerto a Young da Stills e Furay è puro, teatrale espressionismo e inietta nella canzone la giusta dose di follia e surrealismo necessari alla riuscita della sua narrazione.
Scritto e cantato da Young, il testo del brano è totalmente autobiografico e parla di una crisi epilettica subita dal cantautore nel corso di un concerto con la band. Molti degli astanti credettero che si trattasse di parte dello show e, rendendo il già tremendo accadimento grottesco e kafkiano, portarono il canadese a riconsiderare il suo già labile rapporto con la fama e pubblico.
Così come lo apre, “Buffalo Springfield Again”, Neil Young lo chiude anche: con “Broken Arrow”. Ben più teatrale e sperimentale dell’euforica opener, il brano si divide in tre sezioni, aperte da registrazioni di applausi o fischi, che vedono le emozioni del cantautore prendere forma in immagini surreali (come quella di un indiano che impugna l’arco rotto del titolo) e farla nuovamente da padrone. Musicalmente la canzone si presenta come una piano ballad confessionale dove la voce lamentosa del canadese cavalca all’occorrenza il pianoforte o la chitarra acustica, che ora increspano le proprie note in emozionanti crescendo (prima e seconda sezione) ora si dilettano in un jazz errabondo (ultima sezione).
Il suo prodigio più miracoloso, però,
Young lo compie alla posizione numero quattro della scaletta, quando,
alienandosi completamente dal resto della band e affidandosi invece alle
cure del leggendario produttore Jack Nietszche (uno che, tra le
tantissime e pregiatissime cose, ha prodotto i brani orchestrali di “Harvest”
dello stesso Young e preso parte alla realizzazione di numerose hit
degli Stones), piazza uno dei brani più abbaglianti della sua carriera,
"Expecting To Fly". Arrangiando la canzone per una sezione di archi e un
oboe, Nietszche offre al testo disilluso e melanconico di Young, che
assimila la fine di una relazione amorosa alla morte, uno scenario
magico e leggero, nel quale la voce del Loner sembra fluttuare
come una fievole luce nascosta nella nebbia. In parole povere: nel brano
la coppia anticipa di una buona trentina di anni il dream-pop bucolico dei Mercury Rev.
L’apporto
di Stills, che della band è il vero leader e principale motore
creativo, è più classico e rigoroso di quello di Young, ma è lui a
firmare qui almeno tre classici immortali del folk-rock statunitense.
Anzitutto c’è “Everydays”, un brano borbottato da Capitano Moltemani come avvolto tra il fumo e l’oscurità di un avveniristico live club, mentre il gruppo mescola felpati passaggi jazz (merito anche di Jim Fielder che nel brano sostituisce Palmera al basso) a velenose frecciate di chitarra blues.
Canzone d’amore atipica co-prodotta da Ahmet Ertegun (produttore che sarà cruciale per i lavori di CS&N e CSN&Y), "Bluebird" è una fenomenale piece folk-rock nella quale Stills fa susseguire chitarre blues, uno sfrenato intervento di chitarra acustica dai sentori spagnoli e, per finire, un lungo assolo di banjo (suonato da Charlie Chin). Anche in questo brano le armonizzazioni vocali, già centrali e sopraffine nel disco precedente, si rivelano un elemento avanguardistico; non più dunque mero orpello e sfoggio tecnico, ma strumento capace di attribuire profondità ai versi. Accade quando la band, recitando le semplici parole Do you think she loves you/Do you think at all come un mantra, le fa sbucare come dal vuoto, come fossero davvero parte di un dialogo interiore.
Molto più sbarazzine, ma semplicemente da manuale, sono invece le armonizzazioni della breve “Rock & Roll Woman”, un brano nel quale Crosby non appare accreditato, ma fa avvertire la sua presenza sin dal primo dudu dudu. La canzone è un vero e proprio inno hippie che, tra linee di chitarra che si affastellano e squarci d’organetto, risente dell’influsso della psichedelia californiana, ma se ne appropria con personalità e carica rinnovatrice.
Scritta da Stills, che però ne canta soltanto il ritornello (la voce della strofa è di Furay), “Hung Upside Down” non concede tregua. Le chitarre sono irte e bellicose, tra lamenti e assalti frontali non riposano un secondo, Palmer e il suo basso galoppano in un groove spazzolato con impeto e cura da Dewey Martin. L’atmosfera è così incandescente che sul finale Stills, solitamente meno sovraccarico e istrione, si concede strilletti e schiamazzi come fosse un cowboy al rodeo.
Il duello a distanza tra Stills e Young, che anche grazie alla loro competizione raggiungono (qui come in “Deja Vu”) inusitate vette di creatività e genialità, rischia di offuscare il lavoro della terza mente e penna del disco, Richie Furay. I suoi brani, certamente quelli più tradizionali (per struttura e per riferimenti) del disco, sono però, oltre che impeccabili e di cristallina bellezza, importantissimi nell’economia dell’opera, concedendole respiro e istituzionalità country-folk. Basti pensare alla languida ballad “Sad Memory”, che con la sua calma e i suoi arrangiamenti leggeri come l’aria lascia riposare i muscoli del disco dopo la scatenata “Hung Upside Down”. È di Furay anche la successiva e pimpante “Good Time Boy”, intonata però dalla voce blues di Dewey Martin e arricchita dagli scalpitanti fiati dei Memphis Horns.
Il genio di Young, la mania per la perfezione e la ricerca di Stills, la competizione tra i due, il lavoro sinergico di produttori aggiuntivi che hanno segnato il tempo (Nietszche ed Ertegun su tutti), un team di turnisti sensazionali come se ne trovavano soltanto a Los Angeles in quegli anni (James Burtojn alla dobro, Chris Sarns alla chitarra, Don Randi al piano, Jim Fielder al basso, Charlie Chin al banjo, Bobby West ancora al basso) hanno costituito le condizioni irripetibili per la realizzazione di un disco miliare in ogni suo aspetto, nell’intrinseca e assoluta bellezza delle canzoni quanto nella loro carica fondativa per il rock a venire.
Completato solo e soltanto per obblighi
contrattuali con la Atco, l’anno dopo uscì “Last Time Around”, il disco
che già dal titolo-epitaffio ufficializza la fine della formazione
losangelina. L’album vede la band suonare insieme soltanto in un brano
(“On The Way Home”) e pur contenendo titoli pregiati quali “Kind Woman”
(sicuramente la canzone più famosa di Furay), “I Am A Child” di Young e
“Questions” di Stills (un vero e proprio ponte costruito verso “Carry
On” e quindi CSN&Y), non eguaglia (e nemmeno si avvicina) al genio
del suo predecessore.
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