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31/03/2021

Gli scenari aperti dalla nuova crisi di Suez

Attraverso il commercio marittimo vengono scambiati circa il 90% dei prodotti a livello mondiale.

Un decimo circa passa attraverso il Canale di Suez, con una media di cinquanta di transiti giornalieri, comunque in diminuzione rispetto al picco precedente la crisi economica del 2008.

Lloyds List stima che quasi 10 miliardi di beni passino ogni giorno attraverso il canale egiziano.

Lo attraversano navi con una capacità di carico sempre più grande; dalle 500mila tonnellate al giorno dell’inizio della seconda metà degli anni Settanta siamo passati a ben più di 3 milioni degli ultimi anni.

È l’aspetto più evidente del gigantismo navale, un processo che ha visto una manciata di attori internazionali spartirsi il business del commercio marittimo in una competizione economica sempre più simile al “furto tra ladri”, nella gara ad ordinare navi sempre più grandi, che da semplici vettori di trasporto si sono trasformate anche in strumenti di investimento finanziario, come ha documentato negli anni Sergio Bologna.

In senso stretto, sono gente della stessa pasta di quelli che hanno bellamente detto ai portuali di Genova, che oggi il lavoro è un privilegio, ma decisamente più grandi, potenti e feroci.

Per capire meglio il fenomeno basti sapere che attorno al 1980 transitavano per Suez più navi al giorno di quelle attuali – una sessantina – ma il tonnellaggio complessivo in transito era circa un terzo di quello attuale.

Stando ai dati dil febbraio 2020, le portacontainer – cioè le navi che trasportano quella scatola di ferro che ha rivoluzionato il trasporto marittimo – la fanno da padrone a Suez, circa il 50% del totale. Poco più di un quarto è rappresentato dalle navi cisterna che trasportano greggio, i carichi secchi delle portarinfuse sono poco più del 15%, e le navi che trasportano il gas liquefatto (LNG) costituiscono meno del 10% del tonnellaggio.

L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave della Evergreen – in grado di trasportare 20 mila Teu (unità equivalente a venti piedi, è la misura standard di volume nel trasporto dei container ISO, e corrisponde a circa 38 metri cubi) – è avvenuto in uno dei “punti di strozzamento” del commercio mondiale, e ha causato una congestione del commercio marittimo, con circa 400 navi in attesa del passaggio.

Come abbiamo scritto su questo giornale l’ingorgo ha rilevato le vulnerabilità dell’intero sistema.

È chiaro che lo “sbilanciamento” nella disponibilità di container, già osservato in precedenza dopo la strozzatura di Suez, contribuirà a minare il difficile equilibrio tra le necessità di trasportare beni e la reale possibilità di farlo.

Come hanno scritto gli autori di una inchiesta pubblicata sul New York Times, ad inizio mese, sulle disfunzioni del trasporto marittimo evidenziatesi con la pandemia: “ogni container che non può essere sbarcato in un posto è un container che non può essere caricato in un altro”.

Da una parte vi è una carenza di “scatole di ferro” lungo le tratte più profittevoli, dall’altra rimangono impilate vuote dove i traffici rendono di meno.

Insomma, i problemi che si manifestano in una o più punti della catena logistica, dovuti allo sbilanciamento del commercio mondiale emerso durante quest’anno, si ripercuotono su tutta la filiera mondiale.

Per ora ne hanno approfittato i big del commercio marittimo, che hanno cavalcato l’aumento delle tariffe per la spedizione e si sono concentrati sulle rotte con la domanda maggiore – specialmente dalla Cina agli USA, trascurando le altre – imbarcando tra l’altro container vuoti dopo averli scaricati da altre navi per farli tornare in Asia...

Le multinazionali del mare seguono una regola semplice, ma che complica i delicati equilibri economici: follow the money e a bagno tutto il resto.

Un mix di capacità operativa dei rimorchiatori e di fortuna ha permesso di risolvere il problema della Ever Given, ma la situazione appare lontana dal ritorno alla normalità.

Soren Skou, amministratore delegato di Ap-Moller-Maersk – la più grande compagnia di trasporto marittima di container, che gestisce un quinto del commercio marittimo mondiale – ha affermato che il blocco verificatosi a Suez causerà il cambio delle attuali catene just-in-time passando al just-in-case, un processo di ristrutturazione in corso durante la pandemia.

Si tratta della riconfigurazione complessiva della catena logistica, la cui tensione e fragilità sta affiorando in maniera sempre più palese e di cui l’intoppo a Suez è solo l’ultimo esempio.

Questo vuol dire aumentare il “polmone” logistico ed i tempi di giacenza in magazzino, e quindi i volumi che saranno dedicati allo stoccaggio.

Perché, come afferma Skou al Financial Times: “non c’è risparmio di costi dovuto al just in time che può superare l’effetto negativo della perdita delle vendite”. Il margine di profitto si sta dimostrando troppo esile rispetto alle fragilità – fonte di perdite – che si stanno riscontrando nel settore.

Un altro fenomeno è la differenziazione dei fornitori da parte delle aziende, cosa che aumenta la concorrenza, con le ricadute immaginabili in termini di aumento della produttività e livellamento verso il basso dei salari.

È certo che entra in gioco anche l’ipotesi della Rotta Artica che avvantaggerebbe non di poco la Russia, maggiormente attrezzata per questo.

Ma il segmento della catena logistica che sta più soffrendo, e che è rimasto anche in questo caso fuori dal cono di luce dei media, è quello dei marittimi, che sono diventati veri e propri forzati del mare.

Un esercito di un milione e mezzo di marinai permette al commercio mondiale di funzionare.

400 mila, a novembre dello scorso anno, erano “bloccati” sulle navi in cui lavoravano, a causa delle conseguenze del Coronavirus. Oggi sono circa la metà.

Molti di questi marinai sono di origine filippina o indiana, ed avrebbero lavorato mediamente dai quattro ai sei mesi a bordo prima di tornare a casa. Ma nell’autunno dell’anno scorso sono stati letteralmente intrappolati su una nave per circa un anno, mentre altri in attesa di essere imbarcati sono stati lasciati a terra senza stipendio.

D’altro canto, vista la situazione, si è assistito ad una difficoltà a reclutare gli equipaggi ed il costo di ingaggio è aumentato del 10% circa l’anno scorso. Perché imbarcarsi se si rischia di rimanere sulla nave senza sapere poi quando potere sbarcare e ricevere appropriata assistenza medica?

La pressione sugli equipaggi era quindi già preoccupante, e aveva sollevato il rischio di incidenti seri.

Come scriveva in una inchiesta del 1 novembre scorso il Financial Times: “le conseguenze ambientali di un incidente che coinvolga una di queste navi, che imbarcano più di 250.000 tonnellate di carico, potrebbero essere devastanti”.

E qui ci siamo andati vicino.

L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave, facendola incagliare, è uno dei tanti tasselli che mostrano la debolezza, per certi versi la vera e propria follia, dell’attuale modo di produzione e delle sue catene logistiche.

Il capitalismo stavolta non è morto di trombosi, ma è chiaro che sta andando alla deriva e l’ammutinamento torna ad essere l’unica opzione storica praticabile per non affondare con lui.

Buona lettura.

*****

Gamal Abdel Nasser starà sicuramente spassandosela in questo momento. 65 anni dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del presidente egiziano, che provocò l’invasione del paese da parte di Regno Unito, Francia e Israele, il Canale mantiene tuttora una fortissima influenza sul commercio globale.

Questa settimana, una nave, che comunque è lunga quanto l’Empire State Building, ha causato un effetto domino a livello globale quando ha bloccato l’entrata a sud del canale dopo essersi incagliata.

I prezzi del petrolio grezzo sono schizzati, petroliere e navi da container sono bloccate nel traffico e fornitori di qualsiasi cosa, dal petrolio alle televisioni, stanno seriamente pensando di trasportare le proprie merci circumnavigando il Capo di Buona Speranza, aggiungendo una settimana ai tempi di consegna dei prodotti, nonché costi aggiuntivi.

Venerdì, i soccorritori stavano ancora cercando di rimettere in carreggiata la nave da 220mila tonnellate, la Ever Given, ma hanno avvertito che ci avrebbero messo più tempo perché ciò accadesse. Un secolo e mezzo dopo che il Canale è stato completato nel 1869, più del 10% del commercio marittimo globale e del petrolio grezzo passa attraverso la sottile linea d’acqua di 120 miglia, che collega un’Asia in ascesa con un’Europa benestante.

L’incidente di Suez, che limita la possibilità di scambi per 9,6 miliardi di dollari al giorno, ha evidenziato la fragilità delle sempre più compresse filiere produttive globali, già sconvolte dalla pandemia e in un’era in cui i riferimenti filosofici del commercio globale stanno cambiando.

Gli strascichi del Covid-19, con la sua iniziale scarsità di materiale protettivo personale e il suo continuare a raschiare il barile alla ricerca di forniture limitate di vaccino, hanno esposto i problemi nel sistema del commercio mondiale. Quelle difficoltà potrebbero plausibilmente spingere governi e imprese a ripensare un modello di filiere produttive just-in-time che ha evidentemente spremuto tutto per l’efficienza a costo di eliminare la resilienza.

“La filiera di consumo dell’industria è lunga diversi chilometri, ma è profonda a malapena 3 centimetri”, afferma Ted Mabley, consulente di PolarixPartner a Detroit.

Nonostante le incredibili paure l’anno scorso riguardo possibili scarsità, il sistema di commercio globale è riuscito a rimanere in piedi incredibilmente bene durante la pandemia. “Se si osserva cosa sta succedendo obiettivamente, si nota che le catene di consumo sono state abbastanza resilienti” dice Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

Come spiega Adam Tooze, professore di storia alla Columbia University, questo avviene parzialmente grazie a un esercito di un milione e mezzo di marinai, molti dei quali “sono rimasti incastrati sul mare per mesi senza prospettive”, e anche grazie a modelli di spedizione quali quelli di Amazon e Alibaba e da una complessa rete di imprese di trasporto e logistica.

Durante la pandemia, i consumatori in paesi benestanti hanno trovato i loro supermercati pieni, i benzinai riforniti e hanno sempre sentito il proprio campanello suonare per le consegne online. Ma ci sono strascichi ovunque.

Il blocco del Canale di Suez segue una serie di eventi che hanno messo a rischio il tranquillo corso del commercio globale. Appena cinque giorni prima che la Ever Given si incagliasse, un incendio alla Renesas Electronics, nel nord del Giappone, ha quasi messo in crisi un’industria, come quella dei semiconduttori, già di per sé colpita da scarsità.

La chiusura, che dovrebbe durare un mese, la colpisce dopo che i rivali NXP e la tedesca Infineon sono stati costretti a chiudere le proprie fabbriche, dove costruivano chip, ad Austin, in Texas, dopo essere state colpite dalla perturbazione artica, che ha causato un gigantesco blackout nello stato americano. Solo di recente sono riuscite a riaprire.

Lo stesso freddo ha fatto sospendere quattro quinti della produzione petrolchimica texana, congelando forniture di polietilene, polipropilene e polivinilcloruro, tre dei più importanti polimeri. Il che, a sua volta, ha colpito i costruttori di macchine, creando caos nelle forniture di airbag e altri componenti.

“Sfortunatamente, l’incendio è divampato in un momento in cui non c’è più capacità residua nell’intera industria”, rivela Hidetoshi Shibata, capo esecutivo della Renesas, parlando di un incidente che ha fatto rivivere le sensazioni di Fukushima nel 2011. Allora, la perdita della produzione in una oscura centrale fece fermare l’industria automobilistica fino agli USA.

Questa volta, Shibata parla di un altro potenziale “impatto violento” sulla filiera globale di microchip. La pandemia stessa stava già esponendo faglie nelle filiere produttive globali.

I tassi di trasporto su mare con container sono più che triplicati da quando le compagnie che controllano le linee di navigazione hanno tagliato sulla capacità aspettandosi una diminuzione di domanda. Ora costa quasi 4000 dollari trasportare un container di 12 metri dall’Asia orientale alla Costa Ovest degli Stati Uniti, in crescita rispetto all’inizio del 2020, quando costava 1500 dollari.

“La nostra filiera produttiva è basata su scenari prevedibili”, dice Ashwani Gupta, direttore operativo della Nissan. “Quel che non abbiamo anticipato è una situazione estrema come quella della crisi senza precedenti del Covid e quel che ci sta costringendo a fare”.

Se questo non fosse abbastanza, le pressioni politiche stanno spingendo contro la globalizzazione e le lunghe e tempestose catene di consumo di cui è alla base. Ngaire Wood, professore di governance economica globale ad Oxford, dice che “le filiere produttive globali stanno producendo tre diverse pressioni che necessitano di essere studiate”.

Una è la spinta, meglio articolata dall’ex presidente americano Donald Trump, a riportare i posti di lavoro a casa. La seconda, esposta dal Covid-19, è la dipendenza strategica da altri paesi per equipaggiamento medico e più ampiamente per beni essenziali e tecnologie civili e militari di base. “Questo riguarda di più la resilienza nazionale: ‘Dobbiamo essere sicuri di poter produrre i nostri vaccini, il nostro equipaggiamento, il nostro cibo’. È un discorso di sicurezza, più che una retorica nazionalista”, afferma Woods.

La terza è la richiesta, da parte di investitori istituzionali e consumatori, alle grandi aziende di avere maggior mordente sulle filiere, imponendo costi maggiori mentre le imprese vengono persuase nel controllo delle emissioni di carbonio e delle pratiche di lavoro nelle catene più periferiche.

Nonostante queste pressioni, la verità riguardo il commercio globale è che la sua morte è stata ripetutamente esagerata. “Alcuni dicono che si sta andando dalla globalizzazione alla deglobalizzazione”, dice Okonjo-Iweala. “Ma non la penso così. Penso invece che si sta andando verso un processo di riorganizzazione della globalizzazione”.

Tra la fine degli anni '90 e l’inizio degli anni 2000, il commercio globale cresceva il doppio perché grandi economia come Cina, India ed Est Europa erano state integrate nel sistema globale. Ora che sono state più o meno assorbite, è normale che le cose stiano rallentando, ma non vuol dire che siamo arrivati al culmine, sostiene Okonjo-Iweala.

“Penso che dovremmo soffermarci sul fatto che molte regioni nel pianeta non sono mai state realmente integrate. L’Africa pesa il 2-3% del commercio globale. Quindi ci sono tante possibilità di integrare i paesi africani ed altri paesi poveri nel sistema”, sostiene.

Parag Khanna, fondatore e partner di FutureMap, una società di consulenza strategica, afferma che, lontane dall’essere definite come fragili, le filiere produttive hanno saputo ripetutamente rispondere a storture temporanee e cambiamenti strutturali. Cita l’industria energetica come evidenza che le filiere sono più, non meno, robuste.

Quando, nel 1990, Saddam Hussein invase il Kuwait, i prezzi del petrolio raddoppiarono in due mesi. Oggi questo non accadrebbe, spiega, perché “le forniture si sono espanse, le forniture sono globali. C’è una connettività tra mercati. Diversi tipi di terminali di petrolio e raffinerie e la flessibilità delle raffinerie di processare diversi tipi di petrolio”.

Internet si rivela essere il modo perfetto per aggirare le cose, permettendo a milioni di persone di connettersi digitalmente invece di dover viaggiare per acquistare merci. Quando una crisi colpisce, i produttori fanno le cose più estreme per salvare la produzione.

Quando un incendio divampò in una fabbrica che costruiva parti per i pick up della Ford nel 2018, i costruttori mandarono un team nella fabbrica che cadeva a pezzi per estrarre gli strumenti per costruire le parti. Le diciannove macchine, inclusa una che pesava 44 tonnellate, furono portate in Ohio e poi messe su un cargo jet russo che le spedì direttamente nel Regno Unito, dove la produzione poté ricominciare. L’intera operazione durò 30 ore.

È difficile per i consumatori capire la complessità delle reti che portano beni ai loro negozi o alle loro porte. “Non sono sicuro che ai consumatori interessino i dettagli eccetto quando non lavorano”, dice John Butler, presidente del World Shipping Council.

Khanna dice che questa complessità rivela quanto sia ingenua la retorica politica riguardo le operazioni di reinternalizzazione. “Persino una filiera produttiva ha una sua filiera produttiva”, dice. Una singola dose del vaccino BioNTech/Pfizer ha bisogno di 280 componenti provenienti da paesi diversi, come rivelato dalla compagnia. L’idea di spostarsi da quello che Ikonjo-Iweala chiama “da just in time a just in case” è più difficile di quel che sembra.

Comunque, Marc Levinson, uno storico che si è occupato della rivoluzione che i container hanno apportato al trasporto su mare delle merci, afferma che qualche cambiamento è sicuramente all’ordine del giorno.

“In termini di fiducia nella catena del valore, credo nella necessità della resilienza”, dice. “Penso sia come investire in un’assicurazione”. Queste domande sono lontane dalle menti del team olandese e giapponese che sta tentando di rimuovere la nave incagliata che blocca una delle arterie commerciali più importanti al mondo.

Il Capitano Karan Vir Bathia, attualmente in Egitto per aspettare il risultato del test del coronavirus per poi essere rispedito in India, capisce meglio di chiunque altro lo stress nel manovrare navi gigantesche. L’anno scorso, aveva fatto sbattere una petroliera ad una conca di navigazione nel Canale di Panama. Nonostante questo non avesse creato un incidente internazionale, Bathia dovette rimanere sveglio per 36 ore.

“È un lavoro stressante per il capitano e la sua ciurma”, dice. “Non è una macchina, è un’isola di 230 metri che si muove”. A causa delle restrizioni nei confini dovute al Covid, Bathia è stato costretto a rimanere sulla nave per 10 mesi, assieme ai 400mila marinai chiusi sul mare oltre il proprio contratto. Metà di loro rimane tuttora in mare oggi.

“A riva”, dice, riferendosi ai miliardi di consumatori totalmente privi di conoscenza su come funzioni il sistema di navigazione globale e come i loro beni preferiti arrivino a loro, “le persone sono totalmente all’oscuro di questo settore”.

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