Cambiare totalmente analisi, ma non ammettere neanche morti di aver sbagliato tutto da sempre…
Romano Prodi, oggi su Il Messaggero, di fatto sconfessa le sue stesse teorie, la sua storia, la sua Accademia, la sua stessa politica economica portata avanti da decenni. Una politica volta alla guerra al salario, al proletariato, alla frantumazione produttiva, allo smantellamento dei colossi pubblici. Su tutto questo, silenzio assoluto.
Ma oggi dice chiaramente che nel mondo si va verso l’integrazione della catena del valore e che l’Europa su questo, rispetto a Usa e Cina è notevolmente in ritardo. Perciò occorre(rebbe) un forte intervento pubblico, nonché misure di restrizione al commercio mondiale, principalmente nei confronti della Cina. In una dinamica di competizione, ovvio; mai che si ragioni in termini di cooperazione o approccio win-win...
L’integrazione della catena del valore è il modello asiatico, mutuato da Schumpeter, di cui lo stesso Marx ne aveva scritto. Non devi avere solo il controllo del capitale, ma della catena, se vuoi stare sul mercato mondiale.
Prodi, a suo tempo teorico dei “distretti industriali”, e dunque della esternalizzazione produttiva, iniziata nei primi anni Settanta come risposta padronale all’”autunno caldo” (gliela dovevano far pagare a quei cafoni che si erano ribellati) – ma teorizzata ancora oggi dai bocconiani – è una via opposta a quella seguita dalle multinazionali mondiali, tutte, da anni. Le quali stanno integrando la catena del valore, e dunque internalizzando, con qualche fatica vista la sbornia precedente (la delocalizzaione produttiva grazie alla globalizzazione).
Il fallimento teorico e storico di questo personaggio – a suo tempo incensato quasi quanto, di questi tempi, Draghi – è oggi visibile nel suo editoriale, a cui si associa la teoria economica del suo maestro Beniamino Andreatta (il regista del “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, che innescò la dinamica esplosiva del debito pubblico, invece di ridurlo) e il loro delfino, l’inutile Letta.
Commentando tale editoriale, un manager di una multinazionale asiatica mi ha così scritto: “Hanno frantumato la conoscenza operaia del ciclo. E ora non hanno la forza, né economica né del sapere, per stare nel mercato mondiale. Hanno venduto a deficienti. Teorizzando nello stesso tempo il ‘piccolo è bello’. L’impresa dal volto umano... con i soldi degli altri“.
“Hanno venduto a deficienti” è la diagnosi forse più scientifica del processo di privatizzazione del patrimonio industriale pubblico, da Telecom all’Italsider (poi Ilva e ora ArcelorMittal), dalla Sme all’Alitalia, ecc.
L’attacco al proletariato italiano nel 2021 si mostra per quello che è: una sconfitta del ruolo storico della borghesia italiana, che verrà travolta dagli eventi internazionali.
Dunque si tratta, certo, di cambiare paradigma e ritornare all’intervento pubblico, ma per creare colossi pubblici, come li avevamo, non per “politiche dell’offerta”.
Confindustria, Draghi, Franco, sono inchiodati ad un paradigma (e interessi concreti) ormai definitivamente perdente. Non hanno il senso della Storia che muta.
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