Devoti al buon costume e alla pudicizia in via Solferino, il Corriere della Sera in un intervista pubblicata qualche giorno fa a una giovane studentessa fuorisede di Milano, sex worker, non si fa mancare un gergo vittimizzante nei confronti dell’intervistata: quelle della giovane donna sono “parole tristi” e “scioccanti” e la normalità con cui se ne parla diventa “calcolo”, perché quando una donna non accetta la vittimizzazione eterodiretta allora è una criminale.
Nessuna parola ne riflessione sui motivi che portano una giovane donna a scegliere il sex working per pagarsi gli studi, un affitto e magari qualche sfizio.
Criminalizzazione e vittimizzazione sono fenomeni che colpiscono le sex worker, o lavoratrici sessuali. Sia chiaro: nessun tipo di sfruttamento, “protezione”, riduzione in schiavitù o tratta di esseri umani siano essi uomini o donne, può essere considerato una libera scelta ed è necessario che le vittime possano avere accesso a percorsi di fuoriuscita dalla violenza ed emanciparsi. È così per la lotta di genere, sia per la lotta di classe, il cui confine a volte – in fondo – non esiste.
I ragazzi e le ragazze intervistate dall’articolo raccontano esattamente questo: hanno deciso di fare un lavoro altamente remunerativo sfruttando un mondo maschilista in cui possono vendere la loro compagnia giovane e bellissima a uomini ricchi. Lo fanno per vivere comodamente in centro, per pagarsi le tasse universitarie (e chissà se la scelta sarebbe stata davvero questa se l’università fosse davvero accessibile a tutti), ma, nonostante le accortezze e una “clientela” selezionata, raccontano anche di episodi di violenza ai quali sono sopravvissute.
Il sex work, pur essendo lavoro, è un tipo di lavoro dove il rischio di violenza è alto, perché senza alcuna tutela. Si tratta di lavoratrici in balia dell’illegalità e del desiderio insito alle società patriarcali di poter esercitare il potere di possesso nei confronti di un altro essere umano. In cambio di denaro.
I problemi che un lavoro illegale comporta sono tantissimi: dall’affittare un appartamento, alle visite mediche e i controlli sanitari, all’impossibilità di sindacalizzarsi, di denunciare le violenze subite, l’impossibilità di rivendicare qualsiasi diritto.
La violenza non è solo quella fisica e sessuale, ma anche quella economica e istituzionale. La prima è stata resa palese dalla pandemia in corso, a causa della quale molte donne già economicamente fragili si sono trovate ad affrontare la povertà estrema; invece la violenza istituzionale è quella che si è consumata con l’ennesimo episodio di violenta repressione poliziesca, successo pochi giorni fa a San Berillo, a Catania.
Nel quartiere etneo la polizia, durante un’incursione, ha massacrato con i manganelli alcune sex worker, infierendo in gruppo su una donna trans già a terra e fermando tutti coloro che avevano provato a filmare i fatti (leggi qui); un raid indegno di un Paese che si dica democratico, ma che non fa così scandalo fra i perbenisti. Ed infatti i maggiori media non ne hanno neppure accennato.
La decriminalizzazione che alcuni collettivi di sex worker chiedono per la propria professione porterebbe all’emersione di questo fenomeno, permettendo di iniziare un lavoro di decostruzione dello stigma e superamento della condizione di marginalizzazione in cui le lavoratrici sono relegate, garantendo loro salute, diritti, un lavoro sicuro e libero dalla violenza.
A volte, basta proprio poco per riconoscere il confine tra il gossip e l’informazione, soprattutto nel panorama giornalistico italiano.
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