di Nello Scavo - L'Avvenire
Tangenti per far nominare il nuovo presidente. Faide tra milizie e accordi indicibili con governi esteri. Il flop dell’embargo sulle armi. Le violazioni dei diritti umani, i campi di tortura istituzionalizzati. Il contrabbando di petrolio, armi, droga ed esseri umani, da maneggiare come pedine nella partita per il potere interno, spaventando i governi europei disposti a fare arrivare un fiume di soldi pur di millantare d’essere riusciti a fermare gli scafisti. E poi i rimproveri per il memorandum d’intesa tra Roma e Tripoli.
La Libia raccontata nelle 548 pagine dell’ultimo rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite è uno Stato a pezzi, sfasciato sotto la spinta di potenze esterne, cannibalizzato dalle mafie che possono contare su referenti politici interni e padrini nei palazzi presidenziali all’estero.
Nel dossier, che riassume le investigazioni dell’ultimo anno, ci sono omissis e molti fronti lasciati aperti. I tentativi di ricomposizione tra fazioni non sono facili, e forse anche per non scoraggiare un certo ritrovato attivismo della comunità internazionale il documento si tiene alla larga da previsioni catastrofiche. Ma non vuol dire scambiare la speranza con l’ottimismo.
Prendiamo i campi di prigionia, nei quali avvengono “tortura, violenza sessuale e di genere, lavoro forzato e uccisioni”. I vertici delle Forze armate di Tripoli hanno spiegato all’Onu che quelle galere “sono una necessità della politica migratoria degli stati membri dell'Unione Europea”. Cominciamo dalla fine. Dal recente negoziato per la nomina del governo unitario di transizione che dovrebbe condurre il Paese fino alle elezioni del 24 dicembre.
Scrivono gli ispettori: “Durante il round iniziale del Forum di dialogo politico libico facilitato dalle Nazioni Unite, tenutosi all’inizio di novembre 2020, il gruppo (di esperti Onu, ndr) ha stabilito che ad almeno tre partecipanti sono state offerte tangenti per votare un candidato specifico come primo ministro”.
A quanto se ne sa, “i partecipanti al forum coinvolti nell’episodio sono stati categorici nel loro rifiuto delle tangenti”, segnalate all’ufficio del procuratore generale libico, “che ha ricevuto denunce da membri del Forum e gruppi della società civile sulla questione”.
Sullo sfondo il conflitto che non è ancora cronaca del passato. “I gruppi terroristici – si legge – sono rimasti attivi in Libia, anche se con attività ridotte. I loro atti di violenza continuano ad avere un effetto dirompente sulla stabilità e sulla sicurezza del Paese”.
Di armi, del resto, non ne mancano. L’embargo del 2011 “che obbligava gli Stati membri delle Nazioni Unite a impedire la fornitura diretta o indiretta alla Libia rimane totalmente inefficace”. Non bastasse, “l’attuazione delle misure di congelamento dei beni e di divieto di viaggio per le persone indicate dall’Onu rimane inefficace”, ha aggiunto il gruppo di esperti riferendosi anche a trafficanti di uomini e petrolio che hanno spostato capitali e patrimoni fuori dal Paese.
Per comprendere in che modo i drammi dei migranti prigionieri influiscano sulle dispute interne e nelle relazioni internazionali, il “panel of experts” menziona una serie di passaggi. “Nel febbraio 2020 è stato rinnovato per tre anni il memorandum d’intesa Libia-Italia sulla migrazione”. L’accordo, i cui dettagli operativi non sono mai stati resi noti dai governi italiani, “prevede il supporto italiano alle autorità marittime libiche per intercettare le imbarcazioni e riportare i migranti in Libia. Nel luglio 2020 il parlamento italiano ha approvato la componente finanziaria dell’accordo”.
Un mese dopo il rinnovo del memorandum, nel marzo 2020, “l’Ue ha deciso di porre fine a un’operazione contro il contrabbando di migranti che coinvolgeva principalmente aerei di sorveglianza, nota come Operazione Sophia, e di schierare navi militari con il compito principale di sostenere l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, sotto il nome di Operazione Irini”.
Il risultato è stato quello di fare il solletico agli scafisti, sottrarre il Mediterraneo centrale al prevalente controllo navale italiano, e non riuscire neanche a ostacolare la consegna di armi da guerra al generale Haftar in Cirenaica e al governo centrale di Tripoli.
Nel giugno 2020 la Libia ha firmato con Malta un accordo “nel settore della lotta all’immigrazione clandestina con il quale Malta si è impegnata a finanziare due centri di coordinamento e a proporre alla Commissione europea e agli Stati membri dell’Europa l’aumento del sostegno finanziario per aiutare il governo di accordo nazionale, in particolare, nel rendere sicuri i confini meridionali della Libia e nel rafforzare le capacità di intercettazione dei migranti”. Nessun riferimento alla protezione dei diritti umani.
Nel corso dei colloqui con gli ispettori il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, riconfermato anche nel nuovo esecutivo, “ha sottolineato che meno dello 0,5% di tutti i migranti in Libia sono detenuti in centri di detenzione (vale a dire, circa 2.000 dei 574.146 migranti presenti in Libia a novembre 2020). La stragrande maggioranza era tenuta in strutture non ufficiali in condizioni di vita degradanti”.
Tra le strutture ufficiali, che dunque ricevono sostegno dal governo centrale attraverso vari progetti di finanziamento dall’Italia e dall’Ue, il luogo peggiore resta Zawyah, il centro petrolifero sulla costa, lungo la strada tra Tripoli e il confine con la Tunisia. Il campo di prigionia si chiama “Al-Nasr”, dal nome della milizia che lo gestisce da un decennio.
“Il panel ha scoperto che il suo direttore de facto, Osama al-Kuni Ibrahim (nella foto sotto, ndr), ha commesso diverse violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani”. Si tratta di un nome noto ai lettori di Avvenire. Nel settembre del 2019 per la prima volta abbiamo pubblicato le sue foto e ricostruita la sua storia, legata a doppio filo con il comandante “Bija” e i capi della potente milizia, i fratelli Kashlaf.
Negli ultimi mesi la milizia ha subito per mano del ministro dell’Interno Bashaga quello che sembra un avvertimento, con l’arresto nell’ottobre scorso dello stesso Bija “accusato di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante”. Tuttavia, viene precisato, Bija si trova in “detenzione provvisoria”.
Curiosamente, le autorità non hanno fornito agli ispettori “dettagli sull’indagine riguardo le finanze e le proprietà” riconducibili a Bija. In ogni caso “le circostanze del suo arresto nell’ottobre 2020 dimostrano gli interessi contrastanti all’interno dei servizi di sicurezza del governo di accordo nazionale, a scapito dell’applicazione della legge”.
In altre parole al-Milad ha potuto godere di protezioni interne e internazionali e, al momento, anche la sua posizione giudiziaria non è delineata, tanto da definire “provvisorio” lo stato di detenzione.
A Zawyah i migranti prigionieri “hanno raccontato di atti di rapimento a scopo di riscatto, tortura, violenza sessuale e di genere, lavoro forzato e uccisioni. Il centro è ancora in funzione, nonostante le dichiarazioni che regolarmente ne annunciano la chiusura”.
Nel report viene tracciata una mappa delle “rete di Zawyah” e dei molteplici interessi del clan al-Nasr. “La brigata al-Nasr, guidata da Mohammed Al Amin Al-Arabi Kashlaf, mantiene il controllo del complesso petrolifero di Zawiyah. Fino alla sua detenzione, Abd Al-Rahman al-Milad (Bija) era il capo de facto del distaccamento della Guardia costiera libica presso il complesso petrolifero”.
Alcune nuove e più piccole bande di contrabbandieri hanno cercato di inserirsi nel business, “aumentando le tensioni con i gruppi preesistenti”. Con scarsi risultati: “La rete Zawiyah – riassume il report – ha esercitato grandi sforzi per mantenere lo status quo in città e mantiene il suo ruolo centrale e preminente nel contrabbando di carburante”.
Contrabbandieri e trafficanti possono ancora vantare un credito nei confronti del governo centrale. Durante l’aggressione del generale Haftar, la coalizione di milizie e forze armate che sosteneva il governo centrale di Tripoli (Gna), “i contrabbandieri sono diventati molto visibili nel corso della controffensiva. Il 13 aprile 2020, un video online mostrava al-Milad (Bija) unirsi all’operazione del Gna a Sabratha”, come mostra l’immagine qui sotto: l’uomo in alto cerchiato in rosso è proprio Bija durante i giorni della battaglia a sostegno del governo centrale di Tripoli.
Il 15 aprile 2020 un altro boss, al-Fitouri, “ne ha seguito l’esempio ed è apparso in un video online in cui ha dichiarato la sua cooperazione con il Gna”.
Molte immagini di uno dei fratelli Kashlaf “sono circolate online mostrandolo presumibilmente a Sabratha o a Surman”, a riprova della “illegalità dilagante che ha avuto luogo intorno alla metà di aprile come parte dell’operazione del Gna”.
Le esportazioni illecite di petrolio sono in calo, ma a causa del Covid. Al contrario non diminuiscono le operazioni dei trafficanti di esseri umani. Che i campi di prigionia ufficiali siano ingestibili anche a causa del sovraffollamento lo ha ammesso anche il colonnello Abdallah Toumia capo della guardia costiera di Tripoli: “Ha affermato al panel che a causa del sovraffollamento dei centri di detenzione, la Guardia costiera libica è stata talvolta costretta a lasciarle andare i migranti”.
Un “rilascio” che non ha nulla a che fare con la “liberazione”. Poiché in queste circostanze, appena fuori dai porti di sbarco, i trafficanti attendono i migranti “rilasciati” per catturarli e condurli nelle prigioni clandestine. Ma a chi gli chiede il perché le gattabuie per stranieri non siano ancora state chiuse, il colonnello Mabrouk Abdelhafid, capo del Direttorato anti-immigrazione illegale, risponde “collegando la necessità dei centri di detenzione alla politica migratoria degli Stati membri dell’Unione Europea, sottolineando che il 99% dei migranti presenti nei centri di detenzione erano stati intercettati in mare e consegnati dalla Guardia Costiera libica. Mentre ha respinto l’idea di chiudere tutti i centri di detenzione, ha presentato al panel una politica di riorganizzazione, che avrebbe dovuto interrompere le reti di contrabbando e consentire un migliore controllo da parte della Direzione”.
A scaricare le responsabilità ancora una volta sui Paesi europei è proprio l’uomo forte del nuovo governo, il ministro dell’Interno Fathi Bashagha, che ha mantenuto l’incarico nell’esecutivo di transizione dopo essere uscito perdente nella corsa presidenziale.
Incontrando il “panel” delle Nazioni Unite è stato categorico “ha riconosciuto le sfide poste dalla situazione dei centri di detenzione – si legge –. Ma ha anche legato l’attività delle prigioni alla pressione esercitata da alcuni Paesi europei per impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo”. In particolare alludendo all’Italia.
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