Avremmo tanto da dire su quanto accaduto ieri nell’aula bunker del carcere di Lecce, cercheremo di farlo, rimanendo lucidi davanti ad un giudizio che, a nostro avviso, ha avuto un evidente indirizzo politico.
Ci troviamo qui a dover commentare ancora una volta la criminalizzazione messa in atto da un apparato repressivo che coinvolge lo Stato a diversi livelli, con la complicità di una certa stampa che, senza essere presente a nessuna delle udienze, è stata pronta a giudicare, arrivando a definire “esito finale” quello che è solo il primo grado di giudizio.
Tutto questo sembra un accanimento contro il diritto al legittimo dissenso nei confronti di un’opera inutile, dannosa e imposta, presentata come strategica, che invece di strategico ha solo il raschiare il barile dei fondi europei. È un’opera climalterante che va contro ogni sana logica di cambiamento, lontana anni luce da quella transizione energetica di cui in nostri politici si vantano tanto. Pare sempre più evidente che questo accanimento è rivolto a chi protesta contro quel sistema in cui il Tap è inserito, un sistema di sviluppo che strizza l’occhio al potere economico, abbandonando intere popolazioni alla propria sorte. Un sistema che alletta con le sue sirene ma che lascia intorno a sè distruzione, povertà e un sempre maggiore divario tra classi sociali.
Non sarà questa sentenza a farci indietreggiare, non sarà questo chiaro messaggio intimidatorio a farci desistere dal continuare a credere che siamo la parte migliore di questa brutta storia, che siamo dalla parte giusta.
Ci eravamo meravigliati quando il giudice, Presidente di una sezione penale, aveva avocato i tre processi a sé, decidendo di celebrare tutte le udienze in tempo così rapidi (3 procedimenti penali, di cui uno con 78 capi di imputazione, in appena 7 mesi – udienze pressoché settimanali – con una mole di materiale videoregistrato immenso da consultare per la difesa). Ci era sembrata del tutto fuori luogo l’esternazione del Giudice quando, nelle prime fasi dell’istruttoria, dichiarò che la testimonianza del pubblico ufficiale doveva considerarsi già di per sé veritiera. Siamo rimasti attoniti, nonostante fossimo preparati all’esito, quando il giudice leggendo i dispositivi delle sentenze ha emesso condanne che, nella maggior parte dei casi raddoppiavano, e talvolta triplicavano, le richieste del PM.
Si tratta di condanne che variano da un minimo di un mese a un massimo di 3 anni e che vedono coinvolti 86 attivisti. Pene severissime, se si pensa che molte delle imputazioni riguardano reati che vanno da oltraggio a pubblico ufficiale, a lancio di ciclamini o uova, a resistenza a pubblico ufficiale.
Ma ciò che fa più pensare, e lo hanno ribadito anche i nostri legali, sono i soli 15 giorni valutati dal Giudice come sufficienti per depositare le motivazioni delle sentenze. Il numero elevatissimo di attivisti imputati e la complessità dei contesti e dei fatti, ci aprono ad un interrogativo: ci chiediamo se il Giudice dovrà spendere giorni e nottate per fornire motivazioni soddisfacenti o se, in realtà, il tutto non lo abbia già elaborato. Ai 15 giorni ne seguiranno 30 affinché i nostri legali possano elaborare e depositare gli appelli. Tempi strettissimi che non solo limitano la possibilità di imbastire una difesa serena e priva di pressioni, ma che impongono ancora una volta un tour de force ai nostri legali.
La regia che si cela dietro all’imposizione di questo sistema ha da sempre avuto bisogno di criminalizzare chi lotta per le giustizie sociali ed ambientali, così come ha la necessità di incutere timore nelle popolazioni istituendo zone rosse e limitazioni, mostrando i muscoli e schiacciando la ragione ma, malgrado tutto questo, ci sentiamo di ribadirlo ancora più forte.
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