La pandemia continua ad infuriare e mietere vittime, al ritmo di 500 al giorno. Le prospettive economiche sono fosche a dir poco, con la disoccupazione pronta ad esplodere non appena il blocco dei licenziamenti sarà mandato in soffitta, dopo un 2020 che ha già prodotto 500 mila occupati in meno, e un fantasmagorico piano europeo di supporto alla ripresa fatto di poche risorse e molte condizioni capestro. In questo contesto drammatico, l’attenzione generale, la nostra attenzione, è rivolta comprensibilmente all’immediato, al domani, alla prossima settimana, a come provare ad uscire integri da un anno tragico, tutelando la propria salute e navigando a vista nel mare in tempesta della crisi economica che morde. Mentre però lavoratori, studenti e pensionati stringono i denti e aspettano tempi migliori, il nemico si organizza e pianifica già il futuro post-pandemia. Ci sono buoni motivi per ritenere che il Governo Draghi sia pronto a porre le basi per un ulteriore attacco ai residui di stato sociale che hanno resistito a quattro decenni di controrivoluzione neoliberista, e le attuali discussioni sulla prossima riforma degli ammortizzatori sociali ne sono un chiaro esempio.
Le parti sociali sono impegnate, da alcune settimane, in un tavolo presso il Ministero del Lavoro. Una parola chiave incombe e ricorre come un mantra, un coro inquietante che accomuna il ministro Orlando e i vertici di Confindustria: lavorare ad una riforma degli ammortizzatori sociali il cui corollario principale siano le politiche attive. Si tratterebbe di uno scambio tra l’estensione della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali e la riduzione dell’entità dei trasferimenti, il tutto condito da clausole che condizionino il diritto alla ricezione del sussidio alla partecipazione a percorsi di formazione, dunque, alle politiche attive.
Ma di cosa si parla quando si fa riferimento alle politiche attive?
Fondamentalmente, si tratta di una serie di misure che dovrebbero riqualificare e formare chi ha perso un lavoro, per trasformare il disoccupato da un catorcio non più al passo con i tempi in un’appetibile e aggiornata risorsa per uno dei tanti imprenditori che non aspettano altro che trovare i lavoratori ‘giusti’ per ritornare ad assumere a tutto spiano. Un approccio che deriva dalla teoria economica dominante e che trasuda odio di classe, oltrechè mediocrità argomentativa e nessuna evidenza empirica: se l’Italia sperimenta da anni una disoccupazione a due cifre, infatti, la colpa è delle decennali politiche di austerità, dei tagli alla spesa e del blocco degli aumenti salari, non certo dei disoccupati stessi, colpevoli di essere svogliati nella ricerca o poco appetibili per le imprese a causa di una formazione troppo naif. Non vi è, dunque, un problema di frizioni che impedirebbero l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il punto, come vedremo, è che non v’è domanda di lavoro tale da assorbire i disoccupati: in altri termini, non vi sono imprese che cercano lavoratori.
Il disegno politico che sottende alla retorica delle politiche attive, tuttavia, va preso sul serio e destrutturato, perché è un veleno potente che circola con una frequenza sempre maggiore, fino quasi ad assurgere a nuovo senso comune, a verità acquisita. Un disegno politico che si inserisce perfettamente nella ritirata dello Stato dalla gestione dell’economia imposta dalla dottrina neoliberista, per lasciare mani libere e potere di decidere della sorte di milioni di lavoratori a un padronato sempre più aggressivo. Il compito dello Stato, secondo questa visione del mondo, non è più e non potrà essere mai più quello di creare direttamente lavoro tramite la spesa pubblica. Si vuole inceve che esso limiti a tal punto la sua azione da non difendere più neanche i posti di lavoro, ma semplicemente formando e fornendo la manodopera qualificata desiderata dal padronato, senza che quest’ultimo debba neanche farsi carico degli oneri.
Come spesso accade, questo progetto trova copertura e legittimazione in uno dei postulati cardine della teoria economica dominante. Una sintesi perfetta al riguardo è fornita, verosimilmente in maniera inconsapevole, dalla presidentessa del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, Marina Calderone: “è fondamentale pensare ad una ripresa organica dell’occupazione e, di conseguenza, dell’economia”. La gerarchia dei mercati, quindi, dovrebbe funzionare così: la disoccupazione si risolve nel mercato del lavoro, creando più occupazione. Se si crea più occupazione, ne conseguirà una maggiore produzione. Con il corollario che spetta quindi al lavoratore risolvere le sue grane, offrendosi o a un salario più basso o rendendosi maggiormente produttivo. Da più di 80 anni, tuttavia, cioè dalla pubblicazione della Teoria Generale di Keynes, è assodato che le cose funzionano in maniera esattamente contraria: per aumentare l’occupazione, è necessario aumentare prima la produzione, e l’unica maniera per farlo passa per un livello sostenuto e crescente di spesa pubblica, salari alti che finanziano i consumi e lavori stabili che mettono il lavoratore al riparo dal ricatto della disoccupazione. Non serve addentrarsi in dotte disquisizioni accademiche per capire questo punto, è sufficiente guardare pochi numeri impietosi: alla fine del 2020 nell’industria e nei servizi c’erano in Italia appena 175 mila posti vacanti, un valore prossimo a quello di ben 3 anni prima. Lo stesso vale anche per la somma di occupati e posti vacanti, quindi complessivamente per il numero di persone che lavorano o potrebbero lavorare: il balzo indietro arriva fino al primo trimestre del 2016. Come abbiamo avuto modo di mostrare in varie occasioni, questo dato sui posti vacanti rappresenta una buona approssimazione della domanda di lavoro non soddisfatta e allo stesso tempo fornisce una via efficace e immediata per smontare la retorica dominate. A fronte di quasi 3 milioni di disoccupati, la domanda di lavoro in questo Paese è drammaticamente insufficiente. Il lavoro, semplicemente, non c’è, e la responsabilità non è né dei né lavoratori né dei disoccupati. La causa ultima va ricercata in decenni di tagli della spesa pubblica e nella precarietà che rovina l’esistenza a milioni di sfruttati, ne riduce i salari e impedisce loro di pianificare il futuro e affrontare spese che vadano oltre la sussistenza sociale.
Tutele ‘universali’ e minime
Per provare a sviare l’attenzione, il ministro Orlando va ripetendo che le tutele vanno ‘universalizzate’ per tutti i lavoratori, a prescindere dalla condizione occupazionale. Una proposizione infida, perché richiama concetti apparentemente meritevoli e di natura progressista. Ma nessuna politica di questo stampo vi è all’orizzonte: se l’obiettivo è tutelare i lavoratori, l’unico modo è sostenere la domanda aggregata al fine di aumentare la capacità occupazionale del sistema. Una volta inserite nel progetto complessivo, fatto di austerità e precarietà, la sostanza di questo tipo di dichiarazioni emerge con chiarezza. Tutele minime uguali per tutti, che si declinano in un sostegno al reddito di chi magari ha perso un lavoro – senza che lo Stato faccia nulla né per evitare la perdita del lavoro né per crearne uno nuovo – per evitare un crollo troppo drammatico dei consumi e quindi delle vendite. Anche qui, uno Stato minimo, con il compito unico di provare a mitigare gli effetti più drammatici delle crisi e niente più.
La pandemia, prima o poi, finirà e si tornerà a una vita normale o quasi. Il capitalismo però non finirà, almeno non da solo. Dalla pandemia quindi non solo non usciremo migliori, ma rischiamo di uscirne più sfruttati. Il nemico non aspetta tempi migliori per preparare la sua offensiva, non possiamo farlo neanche noi se non vogliamo farci trovare impreparati. Che lo Stato torni al centro dell’azione economica, che si riprendano politiche di buona e piena occupazione è e deve essere la parola d’ordine di chi vuole invertire la rotta e uscire fuori dalla drammatica situazioni in cui sono cacciati i lavoratori e le lavoratrici del Paese.
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