Lo spaesamento provocato dalla visione della serie tv ucronica L’uomo nell’alto castello suggerisce punti di contatto tra realtà storiche apparentemente lontanissime. Le forzature suggerite da quest’opera di fanta-storia lasciano spazio all’inquietudine di fronte alle recenti frontiere della ricerca storica e sociologica.
Dopo la lettura di Modernità e Olocausto del sociologo Zygmunt Bauman e Liberi di Obbedire: Management e Nazismo, dello storico Johann Chapoutot, è più difficile guardarsi allo specchio.
Lo studio del Nazismo e dell’Olocausto ha permesso di cogliere dei messaggi sulla natura umana e sul mondo di oggi che restano ancora inascoltati. Questi autori si sono spinti oltre la considerazione che si sia trattato di un incidente di percorso, di una barbara ma temporanea deviazione dal cammino della civilizzazione, concludendo invece che si tratti di fenomeni insiti e possibili nella società moderna.
Occorre considerarlo, dice Bauman, come un «laboratorio sociologico», «un test delle possibilità occulte insite nella società moderna […] della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze».
Attribuire al Nazismo scelleratezza e irrazionalità serve a negare un’opposta spaventosa evidenza: l’essere umano moderno è capace di qualsiasi atrocità proprio perché è razionale. Troppo razionale.
La modernità, intesa come emancipazione della ragione dall’emozione e dell’efficienza dall’etica, ha evocato dei mostri dagli inferi che «l’uomo-mago», diceva Marx, non riesce più a controllare. Per Bauman la civiltà si dimostrò incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa creato.
Solitamente i nazisti vengono riesumati dall’angolo buio della nostra memoria collettiva, o strumentalizzati come jolly per disarcionare avversari politici in una dialettica che prende il nome di Legge di Godwin. Bauman invece mostra che il loro prodotto più brutale, la Shoah, svela «la fragilità della natura umana di fronte all’efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista».
Lo scientismo, ovvero l’atteggiamento di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, è diventato un dogma perché si è riconosciuto alla scienza e alla tecnica il potere di autolegittimarsi grazie alle vittorie produttiviste della rivoluzione industriale.
Il darwinismo sociale ed economico, inteso come applicazione delle leggi della selezione naturale ai campi della società e dell’economia, è stata alla base dell’azione nazista e, pur senza facile riduzionismo, è possibile rintracciarne degli elementi sopravvissuti nell’ideologia neoliberista odierna.
Chiaramente lo sterminio degli ebrei è stato alimentato da un’ideologia razzista che non è nei programmi dei governi occidentali di oggi. Ma quello che Bauman dimostra è che la Shoah rappresentava il culmine della scienza moderna e dei progetti di ingegneria sociale che, per il direttore del Dipartimento di igiene del Ministero dell’interno, consisteva nella «propagazione della stirpe sana», non avendo dubbi che fossero conformi con le ricerche di Koch, Lister, Pasteur e altri famosi scienziati.
Si trattava quindi di un compito scientificamente fondato mirante all’istituzione di un nuovo e migliore ordine poiché la cultura moderna ricca di metafore vitalistiche e biologiche proponeva come obiettivi le nozioni di «normalità», «salute», «igiene», «autodepurazione», di uomo-giardiniere in vista del giardino perfetto.
Già nel 1919 Hitler puntava sull’«antisemitismo della ragione», l’unico in grado di garantire l’eliminazione degli ebrei, rispetto a un «antisemitismo emozionale» utile solo alla riuscita di qualche pogrom. Joseph Goebbels nel 1941 salutava l’adozione della stella ebraica come «misura di profilassi igienica».
Questi moderni concetti scientifici venivano coadiuvati da un metodo burocratico e manageriale di gestione delle masse umane che rendevano fondamentale l’efficienza e la riduzione dei costi. Non è un caso che a occuparsi del genocidio fu l’Ufficio economico-amministrativo del più grande Ufficio centrale per la sicurezza del Reich.
Illuminante è a tal proposito Johann Chapoutot che studia l’emblematica figura e le teorie di Reinhard Höhn, membro delle SS, giurista e accademico, che propose dal 1941 al 1943 una riflessione sul trattamento del management amministrativo. Durante lo sforzo bellico ed espansionistico, il Terzo Reich si trovava a dover far fronte a un aumento spaventoso del lavoro, e una diminuzione di funzionari tedeschi chiamati alle armi.
Come fare di più con meno uomini? Occorreva fare meglio! Anzitutto occorreva applicare le teorie aziendali all’amministrazione pubblica. Metodo che avrà ampio successo a partire dagli anni Ottanta in tutta Europa con il New Public Management. Si diffusero così innovative teorie di Menschenführung (Management), le nozioni di Leistungsfähig (performante, produttivo), flessibilità, elasticità, e la strategia di lavorare per missione e per obiettivi.
Höhn è convinto che il capo dell’azienda o dell’amministrazione deve assegnare gli obiettivi e lasciare liberi i «collaboratori» di scegliere i mezzi attraverso cui raggiungerli. Questa tecnica manageriale era il modo di lavorare di tutto il sistema nazista. Ian Kershaw, massimo specialista di Hitler, parla infatti di «lavorare nel senso della volontà del Führer».
Secondo la storiografia «funzionalista» Hitler fissò l’obiettivo della «questione ebraica» senza specificare come dovesse essere raggiunto. Gli esperti analizzavano i costi delle scelte alternative, secondo logiche di problem-solving.
La storiografia recente cerca di dirci che l’antisemitismo e il potere gerarchico non sono stati condizioni sufficienti, per quanto necessarie, alla fredda realizzazione di queste atrocità. Per lo psicologo Herbert C. Kelman, le inibizioni morali che impediscono di commettere atrocità violente tendono a essere erose in presenza di tre condizioni: quando la violenza è «autorizzata» (da ordini ufficiali di un’autorità legale), quando le azioni violente sono «routinizzate» (da pratiche rispondenti a norme e ruoli) e quando le vittime vengono «disumanizzate».
Queste tre condizioni, sono molto più presenti nella realtà moderna di quello che pensiamo perché la modernità corre attraverso gli assi della tecnica e della burocrazia.
La sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica
L’idea che la divisione funzionale del lavoro permetta una maggiore produttività era parallelamente sviluppata dall’americano Henry Ford che, oltre che grande ammiratore del Reich, era un fervente taylorista. Non sono però stati abbastanza studiati gli effetti della segmentazione del lavoro rispetto al tema delle responsabilità.
Da un lato l’operaio perde il peso della responsabilità morale degli effetti delle proprie azioni mentre, dall’altro, si carica di quella del raggiungimento degli obiettivi. Il funzionario o l’operaio, che ha a che fare con il segmento di lavoro affidatogli, non ha rapporto diretto con l’effetto delle proprie azioni. L’operaio che deve montare una parte di una mitragliatrice è lontano dal sangue che essa provocherà. Non è affar suo, e può continuare tranquillo.
Il carattere morale dell’azione risulta così invisibile o occultato dalla concatenazione tra le proprie azioni da scrivania o da fabbrica e gli effetti concreti. La «mediazione dell’azione» secondo il sociologo John Lachs è un aspetto tipico della società moderna e crea un «vuoto morale» che permette all’essere umano di compiere cose inimmaginabili.
La soluzione delle camere a gas, oltre a rappresentare in un’ottica efficientista la migliore soluzione costi-benefici, permetteva di rendere distante e invisibile la vittima. Inoltre, agli esecutori (nazisti o contemporanei) non si chiede di valutare il significato delle loro azioni, che è determinato invece da altri che quantificano il successo attraverso numeri o grafici.
Ogni membro dell’ingranaggio si concentra sull’esecuzione del compito e sul successo tecnico dell’operazione, non sulla norma morale.
La delega di responsabilità
Le concezioni di comando e management sviluppati da Höhn si rivelarono straordinariamente congruenti con lo spirito dei tempi nuovi. In una Repubblica Federale Tedesca vetrina del blocco atlantico e del libero mercato, dopo la legge di amnistia e qualche anno di falsa identità, Höhn diffuse con successo presso l’«Accademia per dirigenti di impresa» a Bad Harzburg dal 1956 al 1969 le teorie produttiviste che contribuirono al nuovo miracolo tedesco.
Il management «per delega di responsabilità» prevede che l’esecutore debba riuscire, perché è libero di usare i mezzi a disposizione. Così facendo la direzione si libera della responsabilità del fallimento. L’impiegato più che la libertà trova l’alienazione generatrice di fenomeni di burn out.
2.440 aziende come Opel, Ford, Colgate, Hewlett-Packard, Thyssen, Esso, inviarono circa 200.000 quadri in quei 13 anni di ripresa tedesca «a scuola dai nazisti» per imparare come si dirige un’impresa. Nel 1971 una serie di inchieste chiarirono il passato di Reinhard Höhn e dagli anni Ottanta la sua scuola dovette cedere il passo ai metodi americani di Peter Ducker.
La disumanizzazione
Se la burocratizzazione permetteva di vincere le sfide di una gestione delle risorse umane e di una società di massa, essa contribuiva a eliminare la «pietà istintiva animale» che, secondo Hannah Arendt, ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza degli altri. Questo è stato possibile sicuramente attraverso l’ideologia. Ma secondo la storiografia recente un contributo importante è stato dato dall’isolamento sociale, dall’emarginazione, dall’industria, dalla scienza e dalla tecnologia.
Per Milgram «quanto più razionale è l’organizzazione dell’azione, tanto più facile è causare la sofferenza». Prima tramite le leggi si è operata la definizione e l’espropriazione di una società su base razziale, poi il concentramento ha completato quel processo di distanziamento che ha facilitato l’indifferenza morale e le inibizioni morali.
Milgram e Zimbardo negli anni Sessanta e Settanta realizzarono due esperimenti che rilevarono come la disumanità sia una funzione della distanza sociale. È molto facile essere crudeli verso qualcuno che non vediamo né udiamo. L’organizzazione burocratica nel suo complesso diventa uno strumento per l’apparente cancellazione della responsabilità.
Tutti questi studi non affermano nemmeno lontanamente l’innocenza dei nazisti obbedienti a ordini superiori bensì affermano che l’apporto scientifico permise a vaghe volontà antisemite di diventare lucida realizzazione di un genocidio.
La bugia che viene permanentemente raccontata nel valutare quei fenomeni così lontani, ma anche altri più vicini a noi, è che la tecnica sia neutra e adattabile a scopi crudeli come filantropici. La macchina burocratica in realtà, scrive Bauman, ha «vita propria», sia «perché cerca l’optimum tra efficienza e riduzione dei costi», sia per la tendenza patologica di sostituire i fini con i mezzi.
L’opinione pubblica infatti ritiene che la scienza, più di ogni altra autorità, possa adottare il principio, altrimenti odioso, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ad approfondire il senso di non responsabilità è il ruolo dell’autorità scientifica, che interviene non per coloro che sono interposti nella scala gerarchica, ma per chi deve concretamente «premere il grilletto».
Nel celebre esperimento Milgram i soggetti più refrattari all’invio della scossa elettrica mettevano da parte i loro dilemmi morali quando l’autorità scientifica giustificava l’atto coi fini della ricerca scientifica. Distanza dalla vittima e ruolo della scienza sono capaci di facilitare la creazione di quel vuoto morale che determina comportamenti immorali.
Il linguaggio manageriale
L’idea nazista dell’essere umano considerato come «risorsa umana», strumento della produzione, non può non richiamare il linguaggio dell’odierno settore aziendale che si occupa di gestire il «capitale umano».
Il linguaggio ha un ruolo centrale. Poiché il management intende dirigere le persone, qualsiasi conflitto, lotta di classe, deve essere prevenuta sul nascere. Nell’idea augustea della società nazista, ma anche in quella della Germania federale, l’obiettivo era l’integrazione delle masse tramite la partecipazione e la cogestione, per evitare la lotta di classe e lo scivolamento verso il bolscevismo.
Per favorire tale processo alcune parole chiave di questo newspeak orwelliano permettono di pacificare semanticamente ruoli e conflitti.
L’antropologo e psicologo del lavoro Michel Feynie ha redatto un inventario di dispositivi di comunicazione che va dalle semplici sostituzioni, come collaboratrice per segretaria, salariato per operaio, governance anziché direzione, allo straripante uso di anglicismi e acronimi come debriefing, packaging, feedback, consulting; passando per il frequente ricorso alla metafora empatica sportiva, militare o scolastica per sottolineare la necessità di competizione contro altre aziende; l’uso costante di parole chiave come efficienza, competenza, eccellenza, performance.
Nemici dello Stato e della società
Rovesciando una massima del sociologo Émile Durkheim secondo cui «l’uomo è un essere morale solo perché vive nella società», cosa succede se si realizza l’idea thatcheriana di una «società che non esiste» ed «esistono solo individui»? L’attuale società neoliberale tende a creare distanza sociale e la dissoluzione delle costruzioni sociali che possono ostacolare le libertà economiche e la competizione.
Contrariamente a un cliché scolastico, i nazisti non volevano uno stato forte, bensì uno stato strumento della razza e del partito. Lo stato era considerato un’invenzione del diritto romano tardo, l’amministrazione come una garanzia del potere assolutistico del XVII secolo e la legge un’invenzione ebraica (popolo della Legge per eccellenza). Rivendicavano al loro posto l’idea di «comunità di popolo», di tribù e di diritto germanico delle origini considerato come istinto, pulsione vitale, libertà germanica.
Il Terzo Reich è stato definito una policrazia, un regime in preda a una concorrenza amministrativa spietata e spontanea, in cui ministeri, dipartimenti, agenzie, lottavano per raggiungere gli obiettivi designati dal Führer in un costante accavallamento di competenze.
La visione nazista dello stato riprendeva il darwinismo sociale del filosofo liberale Herbert Spencer affermando che con la redistribuzione della ricchezza e la sicurezza sociale lo Stato assicurasse innaturalmente la sopravvivenza di chi non è valido e sostenibile. Disoccupati, handicappati e «fannulloni» erano stati fino a quel momento protetti mentre le «famiglie sane del popolo» vivevano nella miseria. Lo stato doveva avere un valore pro-selettivo, e facilitare il compito della natura.
Höhn sia prima del 1945 che dopo (tolta allora la componente razziale), ha avuto successo riutilizzando le stesse idee manageriali, combattuto lo stesso nemico (il bolscevismo), partecipato alla stessa visione della società. La libertà germanica è diventata la libertà economica o la libertà tout-court, l’antisemitismo è stato messo da parte, ma non la visione della vita come guerra e competizione in un’insaziabile corsa alla produzione e al dominio.
L’idea di una società solidale propugnata dalle Costituzioni del secondo dopoguerra è stata progressivamente smantellata dal potere finanziario che considera quelle stesse Costituzioni degli ostacoli burocratico-amministrativi al dispiegarsi delle energie creatrici del mercato.
Denis Kessler, amministratore delegato del gruppo Scor ed ex vicepresidente del Medef (la Confindustria Francese) nel 2007 ha dichiarato che occorre distruggere quanto fatto dal Cnr, ovvero il Consiglio Nazionale della Resistenza, che nel suo programma aveva gettato le basi dello stato sociale francese dopo l’esperienza collaborazionista di Vichy.
JPMorgan il 28 Maggio 2013 denunciò la presenza nelle Costituzioni dell’Europa meridionale «adottate in seguito alla caduta del fascismo, […] di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea»: «esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».
Si tratta degli stessi obiettivi dei nostri scienziati economici, e dei tecnici, cui con grande serenità ci affidiamo negli ultimi anni.
L’idolatria del «tecnico» si manifesta oggi come un rituale purificante che permette di affidare alla divina ratio le scelte politiche che le nostre società sono incapaci di compiere. Lo vediamo con la scelta di affidarci alla «naturale» predisposizione del libero mercato ad allocare le risorse e con quella di affidare in piena crisi sanitaria i governi a task force composte da manager aziendali o a banchieri quando c’è da distruggere lo stato sociale iscritto nel dettato costituzionale.
I nazisti ci appaiono quindi come l’immagine deformata e rivelatrice di una modernità folle che creò o perfezionò certe idee che oggi continuano ad avere successo. Parafrasando Chapoutot, pur essendo apparentemente lontani da quel modello di società le pratiche del management selvaggio, del capitalismo predatorio e dell’alienazione dell’essere umano ridotto a «risorsa umana», si sono ambientate nella nostra società sotto pretesto della necessità di essere competitivi nella «lotta vitale» della mondializzazione.
Höhn non poteva prevedere quanto questa necessità potesse rimanere attuale ottant’anni dopo. Eppure sconvolge quanto possano servire oggi al neoliberismo europeista germanocentrico i metodi di colui che aveva cercato di riscattare il suo paese nei due dopoguerra tentando di renderlo un gigante economico, sognando «uno spazio economico unificato nel Grossraum germanico».
I freddi numeri dei bilanci aziendali in una tabella excel, la «banalità del male» con cui è nato il vincolo del 3% del deficit, la paura di non placare le ire degli spread, gli algoritmi che gestiscono i nostri bisogni indotti sono forse delle scelte razionali cui condizionare le nostre vite oppure sintomi di un irrazionale e immorale «trionfo della volontà» di immolare l’essere umano sull’altare del capitalismo?
da Jacobin Italia
di Tobia Savoca, palermitano, è laureato in Giurisprudenza in Italia dove si è abilitato alla pratica forense, e laureato in Storia in Francia, dove attualmente insegna. Scrive di storia, politica, società ed educazione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento