La sempre più sgangherata automobile dell’imperialismo statunitense prosegue la sua folle corsa verso l’autodistruzione. Non è, in effetti, cambiando l’autista che si risolvono i gravi problemi relativi al motore, alla carrozzeria, ecc.
Ci eravamo illusi che la sconfitta di Trump potesse determinare un nuovo indirizzo delle politiche statunitensi sul piano internazionale, ma tutto lascia intendere come, a poco più di due mesi dall’insediamento di Biden, il deep State continui a mantenere un saldo controllo delle scelte di fondo.
Al di là dell’alternanza fra democratici e repubblicani, anche se questi ultimi tendono sempre più ad assumere sembianze eversive ed apertamente fasciste e razziste, esiste un’identità permanente degli Stati Uniti che si può riassumere nella pervicace volontà di mantenere ad ogni costo il proprio primato, che è sempre più in discussione per effetto di processi oggettivi ed inarrestabili.
Varie sono le prove di questa triste affermazione. In primo luogo, se non altro per l’eco che ha provocato, la sciagurata intervista di Biden che non si è peritato di definire Vladimir Putin un “assassino”.
Accusa non dimostrata e certamente inopportuna, specie da parte dell’attuale rappresentante di una potenza che all’assassinio selettivo, ma anche alla strage indifferenziata degli innocenti, ha fatto ricorso innumerevoli volte.
Quale il senso di questo insulto a freddo, per di più nei confronti di un interlocutore indispensabile cui poco tempo fa era stato richiesto di rilanciare determinati accordi in materia di disarmo?
È probabile che, come solitamente accade, il presidente statunitense di turno faccia la voce grossa sul piano internazionale, e riproponga il nemico esterno, perché si trova di fronte a una preoccupante crisi di potere e di autorevolezza sul piano interno, in un Paese tuttora più o meno spaccato a metà.
E perché questa frattura e il calo di autorevolezza che essa determina si ripercuotono inevitabilmente sul piano globale, mettendo fra l’altro in discussione la più inutile, costosa e pericolosa organizzazione internazionale dei nostri giorni, che è la NATO, al cui interno si manifestano numerose crepe e dissensi, specie per quanto riguarda proprio il rapporto con la Russia (vedi South Stream ed altro).
Prosegue poi, nonostante qualche chiacchiera inconsistente in contrario, la politica di strangolamento, mediante le cosiddette misure unilaterali coercitive (o sanzioni) contro gli Stati che secondo gli Stati Uniti rappresentano una qualche minaccia. Ciò vale in particolar modo per l’area latinoamericana, che per Washington è sempre più vitale, anche perché la sua popolazione presenta una percentuale sempre più elevata di cosiddetti “ispanici”.
Di fronte alla crisi del capitalismo statunitense, che non sarà certo risanata dalle prodezze di Pfizer & Co. che stanno lucrando enormi profitti coi vaccini ed altro, appare più che mai necessario togliere di mezzo gli esempi di un’alternativa che sta ricominciando a riproporsi su tutto il continente americano.
Ecco perché si colpiscono duramente, nonostante la pandemia e anzi approfittando della stessa, Cuba, Nicaragua e Venezuela. Ciò spiega la decisione del governo bolivariano e chavista di mandare avanti la denuncia contro gli Stati Uniti per crimini contro l’umanità di fronte alla Corte penale internazionale.
Terzo elemento, il perdurante appoggio ad Israele, nonostante le politiche di aperto razzismo ed apartheid antipalestinese che il governo Netanyahu sta portando avanti in modo esasperato, reprimendo brutalmente chiunque, anche i bambini di dieci o undici anni.
Ne fa testimonianza, fra l’altro la reazione della vicepresidente Kamala Harris, che secondo qualcuno è un elemento “indiscutibilmente progressista”, alla decisione della Corte penale internazionale di procedere nelle indagini contro Israele.
Per non essere da meno, la zoppicante Unione europea, tenta di uscire a sua volta dal marasma in cui l’ha gettata la pandemia e l’insipienza dei suoi governanti neoliberisti fino alla morte (dei loro cittadini o forse sarebbe meglio dire sudditi), applicando sanzioni nei confronti della Cina per la repressione nel Sinkiang.
Il continente che nel corso della storia si è macchiato dei peggiori crimini colonialisti ed imperialisti continua ad ostinarsi a voler dare lezioni di buon comportamento e rispetto dei diritti umani agli altri.
Non è certamente questa la strada per ottenere che i diritti umani non siano più violati, ma in tal modo si determina invece la riduzione degli stessi a strumento di bassa lega cui si ricorre per perpetuare le proprie politiche di potenza.
Una strada senza uscita che le potenze occidentali stanno percorrendo da troppo tempo, avvalendosi a seconda delle circostanze dell’intervento militare o delle sanzioni. Ma una strada, anzi un vicolo, e cieco per giunta, che porta solo all’aggravamento dei problemi e delle contraddizioni e che i popoli, anche quelli europei e quello statunitense, dovrebbero essere in grado di rifiutare con decisione una volta per tutte.
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