Visto che non ci facciamo mancare niente, ci voleva pure che il Ministero degli Esteri italiano convocasse l’Ambasciatore cinese per le diatribe Usa-Cina e Ue-Cina.
Intanto parlano i numeri, cioè i fatti. A febbraio le esportazioni italiane verso la Cina sono aumentate, su base annua del 54,2%. Ora, qualcuno potrebbe dire che lo scorso anno c’era il lockdown anche in Cina.
Ebbene, le esportazioni italiane in Cina a febbraio 2020 crollarono effettivamente del 21,6%. Nei primi due mesi dello scorso anno del 16,8%.
Ma nei primi due mesi di quest’anno sono cresciute del 41,1%. Dunque, non solo hanno recuperato, rispetto a blasonati paesi come Usa, Germania, Opec e altro, ma hanno aggiunto circa 10 punti percentuali rispetto al 2019. Se la manifattura italiana ha retto l’urto, insomma, una bella parte di merito va alla domanda cinese, che intanto ha preso a correre a livelli impossibili per l’intero Occidente.
Il peso della crescita dell’export verso Pechino è ancora più rimarchevole se si tiene conto che, complessivamente, le esportazioni nello stesso periodo sono comunque calate (-0,7%), “grazie” al tracollo degli ordinativi da Usa (-21%), paesi Opec (-20,2%).
La quota Cina sul totale delle esportazioni italiane passa dal 2,7 al 3%, ma a questo bisogna aggiungere le triangolazioni con Svizzera (farmaceutica e pelletteria) e Belgio (farmaceutica), come subfortniture per produzioni che vanno in Cina. Perché l’effetto-traino vale per tutta Europa, ovviamente, non solo per l’Italia.
C’è chi, come Michele Geraci, si è fatto i conti: se aggiungiamo queste triangolazioni con altri paesi, già oggi la Cina è il quarto partner dell’export italiano.
Nel comunicato, la stessa Istat rimarca il dato di oggi, considerando la crescita “molto sostenuta”.
È allora da considerare vergognosa la campagna dei media contro la Cina nel mentre i loro industriali – spesso proprietari dei media stessi – fanno affari d’oro con Pechino.
I numeri spingono a dire che, almeno in questo lasso di tempo, si va profilando un disaccoppiamento di parte della manifattura italiana rispetto agli antichi rapporti e legami. Con la Cina la dinamica è ora positiva e molto sostenuta, mentre con gli Usa ancora deve riprendere il ritmo che era tenuto, dal lato dell’import, nel 2019.
La Cina sta contribuendo a che l’economia italiana non sprofondi del tutto, ma – visti i chiari di luna e il comportamento politicamente indecente – a questo punto i cinesi potrebbero mandare a quel paese gli industriali italiani.
Un esempio concreto viene proprio in queste ore dalla multinazionale svedese H&M (abbigliamento pret-a-porter). Dopo che la società aveva tagliato le ordinazioni di cotone coltivato nel Xinjang – obbedendo alle pressioni Usa sulla questione degli Uiguri, popolazione di religione musulmana – H&M è stata cancellata da tutte le piattaforme di vendita online (Taobao, Tmall, JD.com, Pinduoduo, ecc). La app della multinazionale è sparita dai download permesse da Huawei e altri marchi di telefonia cinesi. Il suo marchio è sparito dagli stream di diverse “celebrità” della tv o della rete (anche i cinesi hanno i loro ferragnez...).
Praticamente ora H&M è fuori da un mercato potenziale di 1,4 miliardi di consumatori.
Chi vuol fare la stessa fine per assecondare le mattane euroatlantiche è avvisato.
Anche nei rapporti ufficiali con lo lo Stato italiano, si conferma la volontà cinese di rispettare gli accordi del Memorandum firmati nel 2019, a differenza degli sbruffoni italiani, pronti a cambiar bandiera – come di Maio – appena il padrone estero lo rimprovera.
L’ignavia delle “classi dirigenti” nostrane sta diventando un pericolo grave
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