Il mondo cambia. E questo cambia anche le idee. Ma prima di tutto cambiano i modi di produrre, i protagonisti, i poteri. Che hanno bisogno di idee forti, altrimenti debbono accontentarsi di “narrazioni” che durano poco.
La crisi dell’Occidente neoliberista era evidente dal 2007, quando l’esplosione della bolla dei mutui subprime – concessi, negli Usa, pure a chi non aveva lavoro, reddito o altri beni – travolse i giganti della finanza internazionale (Lehmann Brothers, la più grande).
Da allora la ripresa è stata parziale, lentissima, incerta, incompleta. La pandemia, gestita da cani feroci non disponibili a perdere neanche un giorno di produzione, ha dato un colpo di maglio a quel modello, mettendo in evidenza la maggiore efficacia e resilienza dei sistemi a dominanza pubblica, anziché privatistica. Cina in primo luogo, ma non solo.
Del resto solo un avaro imbecille poteva credere che si potesse salvare l’economia e il Pil senza pensare a salvare soprattutto la popolazione, la sua salute, le attività “meno interessanti” sul piano finanziario.
Mentre ancora non si intravede una vera via d’uscita da questo tunnel – le mutazioni del virus Covid-19 promettono un futuro fatto di vaccinazioni di massa, ripetute a distanza di pochi mesi l’una dall’altra – si individua invece con molta chiarezza il terreno su cui verrà giocata la sfida dell’egemonia globale tra l’Occidente neoliberista e la potenza emergente, la Cina del “modello misto pubblico-privato”.
Un notevole editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa fissa i termini della competizione: il passaggio da un’economia basata sugli idrocarburi come forza motrice fondamentale a un’altra fondata sulle energie rinnovabili.
Si tratta di realizzare un cambio di paradigma tecnologico, scientifico, infrastrutturale e persino culturale. Non in omaggio a una “coscienza ambientalista”, che palesemente il capitalismo mondiale non può nutrire, ma alla più fisica crisi ecologica planetaria e al rapido esaurimento delle riserve di gas e petrolio (più del secondo che del primo).
Quelle che 50 anni fa – ai tempi del Club di Roma, 1972 – erano previsioni scientifiche e discorsi da ambientalisti utopisti, ora sono variabili numeriche da inserire in equazioni che orientano gli investimenti e, soprattutto, la costruzione fisica dell’apparato industriale adatto a questo cambio di paradigma.
Quando si passa, però, dal mondo delle equazioni a quello fisico, i problemi si moltiplicano e quello che sembrava facile rischia di diventare impossibile. È facile insomma sbagliare strada, investimento, scommessa. Se poi “l’ambiente” in cui si prendono le decisioni è dominato dagli interessi privatistici di un certo numero – non immenso – di multinazionali, la probabilità di errore è più alta.
Prendiamo ad esempio la merce-pivot del ‘900 industriale: l’automobile. Per oltre un secolo – il secolo più veloce della Storia, quanto ad innovazione tecnologica – la motorizzazione è rimasta inchiodata al motore a scoppio, in versione benzina-diesel-gas.
Il futuro prossimo, quasi il presente, è l’auto a trazione elettrica. Sembra l’uovo di Colombo, ma è meno semplice (ed ecologico) di quel che sembra. L’energia elettrica da conservare nelle batterie, infatti, non esiste in natura. Va prodotta.
Ma al tempo stesso vanno chiuse e sostituite le (decine di migliaia, nel mondo) centrali elettriche che funzionano a gas-petrolio-carbone-nucleare. L’idroelettrico e il solare sono ovviamente una soluzione per quanto riguarda il rifornimento generale del sistema e l’infrastruttura. Ma si riuscirà a produrre in quel modo la quantità di energia che serve non solo per far viaggiare le auto ma tutto il sistema industriale e le infrastrutture civili? Sistemi che, va ricordato, consumano molto più delle auto...
Ma anche le automobili presentano qualche problema serio. I minerali rari per costruire le batterie adatte (litio, ecc.) sono per l’appunto rari e concentrati in poche aree del pianeta (Cile, Bolivia, Australia, Argentina, Cina). Le riserve attuali stimate – 14 milioni di tonnellate – garantiscono 165 volte il consumo di litio avvenuto nel 2018 (85.000 tonnellate). Ma se tutte le automobili (e i furgoni, i tir, ecc.) del mondo dovranno andare in elettrico, allora il consumo annuale si moltiplicherà di n volte, riducendo in proporzione gli anni in cui quelle riserve saranno utilizzabili.
Senza contare poi la problematicità, rispetto ai modelli di utilizzo normale delle quattro ruote, di dover attendere qualche ora (da 3 a 5) per fare il pieno ogni 4-500 chilometri.
Dunque già si immagina il passaggio rapido alla motorizzazione ad idrogeno. Assolutamente ecologico, certo. Anche l’idrogeno ha però il difetto di non esistere in forma libera in natura, mentre è presente quasi in ogni combinazione chimica. Dunque anche l’idrogeno va prodotto.
Fin qui, allo scopo, sono state trovate due tecniche: a) l’elettrolisi dell’acqua, b) il reforming del gas. Il secondo metodo ha il difetto, appunto, di usare ancora il gas (liberando CO2 al momento della produzione). Il primo, invece, potrebbe utilizzare l’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili.
Anche questo metodo ha però un handicap, rappresentato dal secondo principio della termodinamica: «È impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%» o, (detto grossolanamente), “ogni trasformazione di energia da uno stato all’altro avviene con perdita”.
Il cosiddetto “idrogeno verde”, insomma, implica una certa dissipazione dell’energia prodotta, ragion per cui sarebbe razionale fare un calcolo generale di costi e benefici su certe scelte (l’energia elettrica che va sprecata nella trasformazione in idrogeno potrebbe magari essere più utilmente sfruttata in altro modo).
Torniamo alla dimensione puramente economica, però.
Trasformazioni industriali di queste dimensioni richiedono non solo quantità di capitali piuttosto consistenti (e forse ci sono), ma anche una capacità-volontà di progettazione e pianificazione che fa a cazzotti con il modus operandi dell’impresa privata e dunque del sistema creato per difenderla (il neoliberismo).
Qui sta il “vantaggio strategico” del sistema cinese rispetto a quello occidentale. E non è un caso che proprio nel campo dei brevetti industriali “ecologici” si registri una assoluta prevalenza orientale.
La pratica corrente nell’Occidente, sia negli Usa che nella UE, è l’incentivo ad adottare tecnologie green. Di natura fiscale, oppure come contributo diretto, ma sempre individualizzato alla singola azienda, che resta libera di scegliere qualsiasi soluzione. Senza una coerenza di sistema.
Perciò è vero: “con il no oil, è tutto da rifare”. Ma tutto significa ragionare in termini di sistema, decidendo come ridisegnarlo e senza lasciare alcuna libertà strategica alle singole imprese. Che perseguono un solo scopo, notoriamente.
Questa crisi pone oggettivamente la necessità di una cambio di sistema, una transizione al socialismo. Non solo per una questione di “giustizia sociale”, ma di efficacia ed efficienza. Per assicurare, insomma, un futura all’umanità.
La crisi dell’Occidente neoliberista era evidente dal 2007, quando l’esplosione della bolla dei mutui subprime – concessi, negli Usa, pure a chi non aveva lavoro, reddito o altri beni – travolse i giganti della finanza internazionale (Lehmann Brothers, la più grande).
Da allora la ripresa è stata parziale, lentissima, incerta, incompleta. La pandemia, gestita da cani feroci non disponibili a perdere neanche un giorno di produzione, ha dato un colpo di maglio a quel modello, mettendo in evidenza la maggiore efficacia e resilienza dei sistemi a dominanza pubblica, anziché privatistica. Cina in primo luogo, ma non solo.
Del resto solo un avaro imbecille poteva credere che si potesse salvare l’economia e il Pil senza pensare a salvare soprattutto la popolazione, la sua salute, le attività “meno interessanti” sul piano finanziario.
Mentre ancora non si intravede una vera via d’uscita da questo tunnel – le mutazioni del virus Covid-19 promettono un futuro fatto di vaccinazioni di massa, ripetute a distanza di pochi mesi l’una dall’altra – si individua invece con molta chiarezza il terreno su cui verrà giocata la sfida dell’egemonia globale tra l’Occidente neoliberista e la potenza emergente, la Cina del “modello misto pubblico-privato”.
Un notevole editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa fissa i termini della competizione: il passaggio da un’economia basata sugli idrocarburi come forza motrice fondamentale a un’altra fondata sulle energie rinnovabili.
Si tratta di realizzare un cambio di paradigma tecnologico, scientifico, infrastrutturale e persino culturale. Non in omaggio a una “coscienza ambientalista”, che palesemente il capitalismo mondiale non può nutrire, ma alla più fisica crisi ecologica planetaria e al rapido esaurimento delle riserve di gas e petrolio (più del secondo che del primo).
Quelle che 50 anni fa – ai tempi del Club di Roma, 1972 – erano previsioni scientifiche e discorsi da ambientalisti utopisti, ora sono variabili numeriche da inserire in equazioni che orientano gli investimenti e, soprattutto, la costruzione fisica dell’apparato industriale adatto a questo cambio di paradigma.
Quando si passa, però, dal mondo delle equazioni a quello fisico, i problemi si moltiplicano e quello che sembrava facile rischia di diventare impossibile. È facile insomma sbagliare strada, investimento, scommessa. Se poi “l’ambiente” in cui si prendono le decisioni è dominato dagli interessi privatistici di un certo numero – non immenso – di multinazionali, la probabilità di errore è più alta.
Prendiamo ad esempio la merce-pivot del ‘900 industriale: l’automobile. Per oltre un secolo – il secolo più veloce della Storia, quanto ad innovazione tecnologica – la motorizzazione è rimasta inchiodata al motore a scoppio, in versione benzina-diesel-gas.
Il futuro prossimo, quasi il presente, è l’auto a trazione elettrica. Sembra l’uovo di Colombo, ma è meno semplice (ed ecologico) di quel che sembra. L’energia elettrica da conservare nelle batterie, infatti, non esiste in natura. Va prodotta.
Ma al tempo stesso vanno chiuse e sostituite le (decine di migliaia, nel mondo) centrali elettriche che funzionano a gas-petrolio-carbone-nucleare. L’idroelettrico e il solare sono ovviamente una soluzione per quanto riguarda il rifornimento generale del sistema e l’infrastruttura. Ma si riuscirà a produrre in quel modo la quantità di energia che serve non solo per far viaggiare le auto ma tutto il sistema industriale e le infrastrutture civili? Sistemi che, va ricordato, consumano molto più delle auto...
Ma anche le automobili presentano qualche problema serio. I minerali rari per costruire le batterie adatte (litio, ecc.) sono per l’appunto rari e concentrati in poche aree del pianeta (Cile, Bolivia, Australia, Argentina, Cina). Le riserve attuali stimate – 14 milioni di tonnellate – garantiscono 165 volte il consumo di litio avvenuto nel 2018 (85.000 tonnellate). Ma se tutte le automobili (e i furgoni, i tir, ecc.) del mondo dovranno andare in elettrico, allora il consumo annuale si moltiplicherà di n volte, riducendo in proporzione gli anni in cui quelle riserve saranno utilizzabili.
Senza contare poi la problematicità, rispetto ai modelli di utilizzo normale delle quattro ruote, di dover attendere qualche ora (da 3 a 5) per fare il pieno ogni 4-500 chilometri.
Dunque già si immagina il passaggio rapido alla motorizzazione ad idrogeno. Assolutamente ecologico, certo. Anche l’idrogeno ha però il difetto di non esistere in forma libera in natura, mentre è presente quasi in ogni combinazione chimica. Dunque anche l’idrogeno va prodotto.
Fin qui, allo scopo, sono state trovate due tecniche: a) l’elettrolisi dell’acqua, b) il reforming del gas. Il secondo metodo ha il difetto, appunto, di usare ancora il gas (liberando CO2 al momento della produzione). Il primo, invece, potrebbe utilizzare l’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili.
Anche questo metodo ha però un handicap, rappresentato dal secondo principio della termodinamica: «È impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%» o, (detto grossolanamente), “ogni trasformazione di energia da uno stato all’altro avviene con perdita”.
Il cosiddetto “idrogeno verde”, insomma, implica una certa dissipazione dell’energia prodotta, ragion per cui sarebbe razionale fare un calcolo generale di costi e benefici su certe scelte (l’energia elettrica che va sprecata nella trasformazione in idrogeno potrebbe magari essere più utilmente sfruttata in altro modo).
Torniamo alla dimensione puramente economica, però.
Trasformazioni industriali di queste dimensioni richiedono non solo quantità di capitali piuttosto consistenti (e forse ci sono), ma anche una capacità-volontà di progettazione e pianificazione che fa a cazzotti con il modus operandi dell’impresa privata e dunque del sistema creato per difenderla (il neoliberismo).
Qui sta il “vantaggio strategico” del sistema cinese rispetto a quello occidentale. E non è un caso che proprio nel campo dei brevetti industriali “ecologici” si registri una assoluta prevalenza orientale.
La pratica corrente nell’Occidente, sia negli Usa che nella UE, è l’incentivo ad adottare tecnologie green. Di natura fiscale, oppure come contributo diretto, ma sempre individualizzato alla singola azienda, che resta libera di scegliere qualsiasi soluzione. Senza una coerenza di sistema.
Perciò è vero: “con il no oil, è tutto da rifare”. Ma tutto significa ragionare in termini di sistema, decidendo come ridisegnarlo e senza lasciare alcuna libertà strategica alle singole imprese. Che perseguono un solo scopo, notoriamente.
Questa crisi pone oggettivamente la necessità di una cambio di sistema, una transizione al socialismo. Non solo per una questione di “giustizia sociale”, ma di efficacia ed efficienza. Per assicurare, insomma, un futura all’umanità.
Dopo il carbone, il petrolio ed Internet, è la quarta Rivoluzione industriale
Guido Salerno Aletta – Editorialista dell’Agenzia Teleborsa
L’America non ha scelta: se vuole battere la sfida della Cina e la concorrenza dell’Europa, deve cambiare ancora una volta i paradigmi della produzione ed i parametri di convenienza nella raccolta e nell’impiego dei capitali. Puntando, naturalmente, a riprendere la supremazia geopolitica globale, compromessa da decenni di guerre che l’hanno sfiancata economicamente.
Donald Trump, ritirando gli Usa dall’Accordo di Parigi sul Clima e con le sue battaglie commerciali tutte incentrate sui dazi, si era chiuso in un mondo senza futuro. Anche il suo slogan “Make America Great Again” riproponeva un modello produttivo e di competizione globale in cui l’America chiedeva un impossibile ritorno al passato, diversamente da Reagan che aveva squadernato il mondo imponendo nuovi paradigmi tecnologici e di competizione.
La chiave di tutto è la Green Economy.
Dietro la sfida della decarbonizzazione dell’economia, dietro l’abbandono dei combustibili fossili, carbone, petrolio e gas, per passare alle forme di produzione di energia pulita c’è il solito vento che soffia dalla costa americana del Pacifico.
Torna ad essere impetuoso: dietro la Tesla, dietro i finanziamenti che le sono stati concessi fin dai tempi di Obama ed il rinnovato mito dell’auto elettrica che rimpiazza i vecchi motori a benzina ed a gasolio, ci sono sempre gli stessi progetti. Dominare il mondo attraverso la definizione di nuovi paradigmi.
Quella degli ambientalisti californiani è una battaglia che va avanti da decenni: sin dagli anni Ottanta chiedevano il passaggio all’auto elettrica, il famoso ZEV (Zero Emission Vehicle) e mandavano in giro per il mondo le immagini del “buco dell’ozono” (Ozone Layer Depletion) imponendo la eliminazione dei gas CFC (Clorofluoricarburi) dalle confezioni spray e dalle ricariche dei condizionatori.
Era troppo presto per scommettere sulle tecnologie ambientali e sui motori elettrici: troppi investimenti per risultati in prospettiva assai modesti, e soprattutto nessun vantaggio strategico nella competizione con l’URSS: l’Amministrazione Reagan preferì puntare sulla sfida militare basata sullo Scudo spaziale, pompando l’ICT (Information Communication Technology).
Migliaia di miliardi di dollari furono investiti dal Pentagono su queste tecnologie, e per la prima volta il reclutamento militare si diresse agli studenti universitari delle facoltà scientifiche: di lì a poco, centinaia di start-up si affollarono nel settore di Internet, ed un nuovo indice di Borsa, il Nasdaq, fu creato a New York per dare visibilità al nuovo segmento tecnologico.
Fu il trionfo, ed anche la bolla finanziaria delle Dot-com, che esplose nei primi mesi del 2001: raccoglievano enormi quantità di capitale in giro per il mondo, ma non facevano utili.
Nonostante quel disastro di Borsa, da allora il mondo è cambiato: le tecnologie informatiche americane e le società che le hanno presidiate, da Microsoft ad Apple, fino ai nuovi colossi delle piattaforme social come Facebook ed ai sistemi di vendita in rete come Amazon ed e-Bay, per non parlare dei sistemi innovativi di fornitura di servizi come Airbnb ed Uber, hanno conquistato il mondo.
Due grossi limiti hanno caratterizzato questo sviluppo, che avrebbe dovuto rinnovare nel XXI Secolo la supremazia americana: su Internet girano dati, suoni ed immagini, ma ben pochi soldi; la manifattura dei terminali, dai personal computer agli smartphone ha preso la via dell’Oriente, come già successe a partire dagli anni Sessanta per le radio a transistor, i registratori a cassette, i lettori di Dvd, fino ai televisori a schermo piatto.
I soldi si fanno soprattutto con la produzione degli apparati terminali e non con la diffusione dei contenuti. Solo le piattaforme e-commerce, come Amazon oppure Airbnb, sono remunerative, ma sono aperte alla concorrenza agguerrita.
La bilancia commerciale americana ha mostrato così un crescente e strutturale passivo sia nei confronti delle produzioni manifatturiere tradizionali che di quelle innovative, dalle automobili alla elettronica di rete e di consumo.
Lo scandalo del Dieselgate fu il campanello d’allarme: in America, l’industria automobilistica tedesca era stata messa nel mirino.
Passare alle auto a trazione elettrica, passando per quelle ibride, abbatte il valore di un secolo di investimenti nel settore motoristico e meccanico che hanno reso le automobili tedesche famose nel mondo per affidabilità. Crea problemi immensi dal punto di vista della produzione e della distribuzione della energia elettrica per la ricarica delle batterie.
Deve essere chiaro un punto: gli Usa non si candidano affatto a divenire il nuovo e più grande produttore automobilistico del mondo. Si accingono ad erigere barriere nuove, tecniche e fiscali, alla importazione di veicoli a propulsione tradizionale. Creano una competizione che abbatte i vantaggi precedenti, imponendo investimenti colossali ai concorrenti: li sfianca, si allontana sfidandoli su un nuovo terreno invece di affrontarli sul loro, come fecero i Curiazi nella sfida con gli Orazi.
Anche il tema delle batterie elettriche che devono alimentare le auto, e soprattutto il dibattito sui materiali assai scarsi in natura che sono necessari per produrle, è un terreno di scontro solo temporaneo: in prospettiva, c’è la tecnologia delle celle a combustibile alimentate ad idrogeno. E non è un caso che il vero scontro è sulla filiera della produzione di idrogeno verde, che esclude completamente l’uso di combustibili fossili.
L’idrogeno verde verrebbe ottenuto mediante l’elettrolisi dell’acqua, usando l’energia elettrica ottenuta da fonte solare: è una soluzione ingegnosa per “accumulare” in modo stabile l’energia elettrica solare che altrimenti rischia di essere dispersa.
L’idrogeno verde è una sorta di “batteria ecologica” in cui si conserverebbe stabilmente l’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili, in vista di un suo utilizzo successivo con le celle a combustibile che a loro volta lo “ri-trasformano” in energia elettrica.
In questo modo, si supererebbe il gravissimo problema derivante dalla incertezza nel tempo e della accumulazione della energia elettrica da fonte solare: basta una nuvola, e tutto si ferma.
Limitare, sostituire, ed in prospettiva bandire la produzione di energia da fonti fossili significa ridisegnare completamente gli equilibri geopolitici:
- la Russia ed in generale i Paesi dell’Opec, per non parlare dell’Iraq e dell’Iran, che traggono la loro forza economica dalla vendita di petrolio e di gas, saranno fortemente penalizzati economicamente, e si ridurrà il loro peso politico e strategico, sia nei confronti dell’Europa che della Cina;
- gli Usa, che di recente hanno conquistato l'indipendenza energetica con lo sfruttamento dei depositi di scisto, sanno bene che si tratta di un risultato poco duraturo per via del rapido esaurimento dei pozzi e dell’elevato costo di estrazione: li usano strumentalmente, in vista dell’inevitabile abbandono;
- la Cina, che ha avuto un vantaggio competitivo utilizzando prevalentemente il carbone, a costo di livelli di inquinamento elevatissimi, perderà questa leva di prezzo. Anche il legame con la Russia tenderebbe in prospettiva ad affievolirsi.
Dal punto di vista della finanza, si apre un mondo nuovo come ai tempi di Internet: è un settore nuovo che ha bisogno di investimenti colossali, perché investe praticamente tutto il sistema di produzione e di distribuzione dell’energia. I Green Bond potrebbero diventare una forma redditizia di impiego dei capitali.
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