Premessa generale. La contrapposizione ideologica tra “violenza” e “non violenza” – che verte anche sulla necessità/opportunità del loro utilizzo come strumento di lotta e/o sulla superiorità e/o sull’efficacia etica e/o politica dell’una rispetto all’altra – mi sembra fuorviante e parecchio teorica, poiché in noi (inteso come umanità, società, gruppi sociali, persone, individui ed esseri viventi per giunta complessi) come in generale nella realtà in ogni suo aspetto vi sono (di fatto, legittimamente e nella medesima ragione) sia l’una che l’altra.
Negare, ignorare o anche reprimerne una sarebbe come negare l’istinto naturale di sopravvivenza, quello di autodifesa e di affermazione del sé e il principio stesso del piacere che (insieme alla soddisfazione dei bisogni, individuali e sociali, materiali e immateriali) ci spinge verso condizioni di vita sempre migliori.
Come – citando Franco Basaglia – “In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione”.
La questione è per me identica. La non violenza non esclude necessariamente la violenza e viceversa. Anzi, se riuscissimo a combinarle proficuamente, a farle funzionare insieme, a integrarle e allearle in maniera intelligente e reciprocamente utile saremmo per me molto più efficaci nel perseguire quelle giuste cause per cui siamo qui a confrontarci. Come quando nei processi creativi, estetici o ludici l’artista o il bambino che gioca attivano in totale armonia le funzioni sia dell’emisfero destro che di quello sinistro, sia l’aggressività e la forza che la tenerezza, sia elementi immaginari e di fantasia che elementi di realtà.
Poi invece si diventa adulti, rigidi, ideologici, se non addirittura moralisti e poco creativi, finendo per disimparare a mettere in relazione e a connettere pensieri e pratiche che spesso sono in contraddizione solo in apparenza.
Per chiarire e restringere il campo della questione, mi riferisco a quelle forme di violenza e di lotta e a quel ricorso alla forza finalizzati all’affermazione e al riconoscimento di diritti legittimi (umani, sociali e politici) sanciti fra l’altro dagli ordinamenti nazionali e internazionali – come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, le Costituzioni nazionali – e dai princìpi generali dell’etica (parlo di quella laica ovviamente). Tutte leggi, norme, buone intenzioni e princìpi che di per sé restano scritti, à la carte, come opzioni di un menù: dichiarazioni puramente formali, che come ben si sa vengono assai poco applicate se non per nulla rispettate; e (ahi noi!) a ogni livello e latitudine, in ogni campo delle attività umane e indipendentemente dal grado di democraticità delle società, dei governi e dei regimi, che puntualmente li disattendono in nome del profitto privato, del controllo sociale e di interessi economici geopolitici, nazionali e sovranazionali.
Mi riferisco perciò a quelle forme d’uso della forza commisurate e corrispondenti alle circostanze storiche, sociali e politiche, impiegate per cause legittime, laddove ogni altra forma di istanza e confronto non violento non sortisca effetto; dunque non parlo di “violenza sconsiderata”, fine a se stessa, immotivata o frutto dell’esaltazione.
Certo al punto dell’evoluzione e dell’emancipazione cui siamo giunti, ci si aspetterebbe (almeno da parte di chi ha coscienza) un livello di consapevolezza sociale, politica e ambientale tali da sperare che non si debba ricorrere ad alcun tipo di violenza. Purtroppo ciò vale solo in linea teorica e per una minoranza umana davvero esigua; e certamente non per chi esercita potere, di qualunque tipo, piccolo o grande che sia.
Tant’è che il potere, i gruppi che lo esercitano, i fatti e la storia se ne sbattono alla grande di valori, princìpi, diritti, etica, giustizia e coscienze; e se ne sbattono delle belle idee e opinioni. Semplicemente perché, di fatto, la storia procede e continua a essere un incessante confronto di rapporti di forza tra interessi costituiti e visioni della società, anche in termini di capacità di forte pressione e di ricatto.
Si spererebbe diversamente, se solo si potesse. Ma sperare nella miracolosa conversione (quanto meno democratica) dei dominatori del presente, dei CdA delle Mutinazionali, dei signori della guerra, degli sfruttatori aguzzini dei popoli, delle forze neonaziste e razziste, dei dittatori e dei Trump, dei Bolsonaro e dei Salvini di turno (giusto per citarne qualcuno a caso) mi sembra una vana speranza e una grossa ingenuità. La violenza infatti è in primo luogo esercitata da Stati e governi (nazionali e sovranazionali), dalla Legge (che sancisce la proprietà privata delle risorse), da eserciti regolari o milizie irregolari a servizio delle lobby, dalle forze dell’ordine, dalla criminalità organizzata, da chi in generale riveste ruoli di potere o semplicemente dal più forte... e spesso tanto più la si esercita quanto più le popolazioni e gli individui sono deboli, disorganizzati e inermi.
Naturalmente credo anch’io che bisogna fare tutto il possibile – e anche un po’ l’impossibile – per incidere sulla realtà e per attivare un cambiamento concreto e radicale della società con la forza delle idee e delle argomentazioni; con le buone pratiche, con corrette relazioni umane, con l’impegno quotidiano e con l’esempio dei comportamenti; con la ricerca della verità; con l’informazione e la denuncia dell’ingiustizia e dei soprusi; con la diffusione dell’istruzione, della cultura e di condizioni di vita dignitose per tutti; con lo sviluppo di una nuova consapevolezza umana fondata sulla condivisione, sulla convivenza pacifica, sul rispetto della persona, dei diritti, delle diversità, delle culture, eccetera.
Ma talora la storia procede per strappi, per crisi, rotture e conflitti violenti. Perché – come dimostrato nei millenni e anche dai fatti degli ultimi decenni – despoti, dittatori, uomini, gruppi di potere e di interesse lasciano trono, poltrone, privilegi e le loro aberranti concezioni di vita solo se costretti, e spesso solo a costo della morte, della guerra e di epiloghi catastrofici. La libertà, la democrazia e i diritti sono valori che si conquistano giorno dopo giorno, con la vigilanza, la lotta e tenendo viva consapevolezza e coscienze. Anche quando li abbiamo raggiunti, niente e nessuno può garantire che non vengano nuovamente messi in discussione. Il pericolo che qualcuno possa attentarli per imporre la sua legge (magari con le bombe, e credo che anche noi italiani ne sappiamo tristemente qualcosa) è e sarà sempre presente. Faccio alcuni esempi storici, giusto per tener viva la memoria...
Per abolire la schiavitù e la tratta degli schiavi ci sono volute lotte e mobilitazioni violente, ribellioni, guerre, cannonate e ammutinamenti con tanto di sgozzamento dei negrieri: sia fra schiavi e padroni che fra quegli Stati che l’avevano legalmente già messa al bando sotto la forte pressione pubblica e quegli altri che la mantenevano. L’isola di Gorée (da cui partirono per le Americhe milioni di africani in catene) fu liberata dagli ultimi schiavi a cannonate.
Per imporre l’abolizione della schiavitù agli Stati del Sud e affermare (almeno formalmente) uguali diritti fra neri e bianchi, il governo Federale degli Stati Uniti ha dovuto ricorrere a una guerra civile sanguinosissima; anche se sappiamo che razzismo e schiavitù persistono sotto molte e differenti forme, e in certi luoghi alla stessa maniera di prima.
Razzismo e schiavitù infatti non sono ancora sconfitti. I nuovi negrieri, i trafficanti di uomini e donne, il razzismo organizzato neonazista, il ringalluzzito suprematismo bianco e le violenze delle forze dell’ordine a esso legato non si fermeranno certo con le buone, come dimostra il fatto che solo dopo le rivolte e le dure proteste del movimento I can’t breathe seguite all’omicidio di George Floyd a Minneapolis si è passati seriamente a inquisire, arrestare e condannare i poliziotti responsabili di delitti razzisti. E la questione è ancora aperta.
Certo si può dire (e a ragione) che la liberazione degli schiavi tornava per certi versi comunque utile al nuovo sviluppo del capitalismo e del libero mercato del lavoro su scala globale, ma sono altrettanto certo che nessuno di noi avrebbe preferito arrivare in catene in una piantagione del Brasile o del Missouri.
È lecito prevedere che il capitalismo – causa prima della catastrofe umana, sociale e ambientale in cui versano l’umanità e il pianeta – e coloro che ne traggono profitto, vantaggio, privilegi e potere non si lasceranno facilmente convincere a lasciare il campo a un altro modello di società solo ascoltando gli accorati appelli delle nuove coscienze, dei consapevoli e degli scienziati, né le analisi puntuali dell’attivismo mondiale e neppure le coraggiose e giuste filippiche dell’eroica Greta Tumberg.
Per liberare l’Europa (e altre aree del mondo) dal nazifascismo, dal razzismo, dal sogno di dominio totalitario del Terzo Reich e di un ridicolo imperatore italico, dalla superiorità della razza ariana e dal genocidio di ebrei, comunisti, ribelli, Rom e disabili è stata necessaria una guerra mondiale. Per liberarsene una parte significativa delle popolazioni civili europee ha dovuto organizzarsi militarmente, imbracciare le armi, sacrificare la giovinezza, rischiare la vita e sparare. Io (voglio sperare di non essere solo) sono e sarò grato per sempre ai partigiani e alle partigiane, perché hanno fatto la cosa giusta, e sottolineo giusta: eticamente, umanamente, politicamente giusta. Certo questo ha portato anche a un mondo diviso in sfere d’influenza e all’affermazione della superpotenza degli Stati Uniti con tutto quello che ne è conseguito; ma credo che nessuno avrebbe preferito restare in balia di un Hitler e di un Mussolini chi sa per quanti anni ancora...
A loro volta i Paesi degli altri Continenti (Africa, le altre Americhe e Asia) invasi e occupati militarmente dalle potenze europee – e non solo – hanno dovuto fare altrettanto (in fasi e circostanze storiche diverse e contro oppressori locali e stranieri o tra loro in combutta) per liberarsi dal giogo coloniale e da feroci e sanguinarie oppressioni.
Anche in questi casi (pure se possiamo fare finta che la cosa ci riguardi di meno) se io fossi stato un etiope, un algerino, un mediorientale, un messicano, un cileno o un indiano, non avrei avuto dubbi a imbracciare il fucile, nonostante tutto il peso che questo comporta.
Ho detto anche indiano apposta, perché l’India ha ottenuto l’indipendenza dall’Impero Britannico (almeno quella formale, in realtà ha continuato a subire lo sfruttamento inglese come colonia commerciale per molto altro tempo) non solo per l’azione non violenta guidata da Gandhi, ma grazie alle insurrezioni e agli scontri in armi, alle bombe, agli attentati e al costante sabotaggio di aziende inglesi, linee ferroviarie e quant’altro messi in atto in tutto il Paese e lungo tutto il processo di liberazione, che resero l’India un territorio ostile e poco sicuro per le imprese commerciali della Corona. Fu quindi la combinazione delle due forme di lotta violenta e non violenta che spinse gli inglesi ad abbandonare, almeno militarmente e non prima di repressioni sanguinarie, la loro redditizia colonia. Dunque insurrezioni e guerre che si sono susseguite dalla Prima Guerra d’Indipendenza Indiana del 1857 (nota come la Rivolta dei Sepoy) fino alla sconfitta degli inglesi nel 1947.
Si potrebbero poi citare le innumerevoli guerre di liberazione dall’occupante di turno, come il Vietnam e la Rivoluzione Cubana (che liberò l’isola dal dittatore Batista e dallo sfruttamento coloniale mafioso-statunitense). Mi riesce difficile pensare che quei popoli si sarebbero potuti liberare solo con dichiarazioni di principio, soprattutto se registro che neppure decine e decine di risoluzioni dell’ONU hanno convinto i governi d’Israele (che anzi continuano ad annettere altre aree) a liberare i territori occupati della Palestina, il cui popolo subisce un indegno apartheid e una disumana oppressione in casa propria che ormai sta assumendo le caratteristiche di un genocidio. Nonostante questo ci s’indigna ipocritamente per i lanci di razzi e di pietre da parte palestinese e non per l’illegale e sanguinosa occupazione israeliana, formalmente condannata ma nei fatti tollerata dalla Comunità e dal Diritto internazionale, dagli USA e dalle democrazie occidentali. Un crimine contro l’umanità che ha raggiunto un numero di morti davvero impressionante, non risparmiando bambini, donne, anziani e civili inermi, case, scuole, alberi e ospedali.
La domanda è sempre quella: cosa faremmo noi al loro posto, vedendo i nostri cari ammazzati, ridotti alla fame, obbligati a subire un quotidiano sopruso, davanti ai campi e alle case distrutte, senza uno straccio di speranza?
Queste le mie considerazioni su larga scala.
Anche su piccola scala i fattori non cambiano, e farò alcuni esempi.
Ma prima un’altra riflessione legata alla premessa iniziale, alla nostra personalità e dimensione psicologica, al valore che ciascuno dà alla dignità umana e personale.
La scelta fra la non violenza e la violenza dipende anche da un altro fattore, che va al di là dell’opportunità e/o necessità e/o efficacia sociale e politica dell’azione. Si tratta di un fattore del tutto soggettivo, spesso incontrollabile, molto difficile da valutare, giudicare e misurare, che si può definire grado di sopportazione, per il quale esistono limiti oggettivi e limiti soggettivi, che possono sommarsi. Cioè fino a che punto un individuo, una persona, un gruppo o soggetto sociale o un popolo può sopportare la reiterata violenza subita, le ingiustizie, le angherie e forme inaccettabili di oppressione e sopruso senza reagire, difendersi o ribellarsi? Chi giudica questo? Chi può valutarlo? Chi potrebbe pretendere dagli altri una sopportazione infinita, senza limiti? Chi può imporre – per legge morale, fede religiosa o altra convinzione o infatuazione ideologica – di porgere sempre l’altra guancia? Forse un fondamentalista cristiano che crede fermamente nell’al di là e nel Paradiso Celeste, un Gesù, un santo votato a un passivo martirio; chi altri?
Ovviamente ognuno sceglie per sé, ma nessuno può giudicare chi non ne può più e non ha altra speranza di far sentire le proprie ragioni.
Mi viene in mente l’opera teatrale «I Dieci Comandamenti» del grande drammaturgo Raffaele Viviani di Castellammare di Stabia, mia città natale. Non lo cito a caso. L’opera è costruita in quadri. Ogni quadro è dedicato a un comandamento. Un giovane disoccupato di un quartiere degradato e “difficile” (nonostante tutto animato da buoni princìpi) cerca in ogni modo di rispettare le leggi delle tavole divine consegnate a Mosè (si dice) da Dio in persona. Ma alla prova dei fatti... le circostanze, il contesto in cui si dibatte e le necessità lo portano a trasgredirle.
Resosi conto che molto difficilmente un povero nelle sue condizioni avrebbe potuto rispettarle, quel disoccupato si rivolge a Dio chiedendo per quali persone avesse mai scritto i Comandamenti..... forse per i ricchi: gli unici nelle condizioni di poterli concretamente rispettare, eppure i primi a trasgredirli.
Passando dalla rappresentazione alla realtà alla realtà e dalla larga scala a quella piccola, racconto due aneddoti, sempre intorno al nodo della violenza e non violenza.
Anche io sono nato e cresciuto in miseria nei quartieri spagnoli di Stabia. Per aiutare la famiglia, sfamare i miei numerosi fratelli e gente del quartiere ancora più disperata ho svuotato “Stande” e salumerie, e non ne provo colpa né vergogna. Così per difendere altri dalle prepotenze dei potenti ho dovuto affrontare i violenti nei modi che le circostanze richiedevano. Posso assicurare che non c’era alternativa, se non quella di subire...
Non ci ho messo molto a impegnarmi politicamente e nel sociale, partecipando alle lotte per i diritti, per la casa e il lavoro e allo stesso tempo utilizzando il teatro e la scrittura come strumenti di emancipazione e di liberazione.
Insieme a tante altre persone, compagne e compagni abbiamo (con la forza che ci voleva per farci sentire e rispettare) accusato e messo all’indice uomini e gruppi di potere contestando le quotidiane scelte amministrative e politiche: rischiando ritorsioni della criminalità a loro affiliata, alzando barricate, resistendo alle cariche della polizia, contrastando la violenza fascista e razzista, occupando case, assaltando Municipi e altre sedi istituzionali. E sono certo che in quei momenti abbiamo fatto la cosa giusta per giuste ragioni.
Primo aneddoto. Sulle colline di Castellammare era sito l’Istituto Tropeano che accoglieva circa quaranta bambini “diversamente abili” o con disagio psichico, occupando un bel gruppo di operatori sociosanitari fra inservienti, logopedisti, assistenti sociali e psicologi. Morto il titolare, la moglie non trovò di meglio che mandare a casa i bambini e licenziare i dipendenti; i quali – insieme alle famiglie dei bambini (molto numerose) – chiesero una mano ai comitati di lotta del territorio, in quegli anni molto forti e organizzati. La struttura fu quindi occupata e difesa per sei lunghi mesi dai ripetuti tentativi di sgombero; mentre all’interno proseguivano le attività con bambini e familiari. La cosa attirò perfino l’interesse di Sergio Piro, lo psichiatra che aveva fondato al Frullone di Napoli la seconda Comunità terapeutica basagliana in Italia. Spiegammo pubblicamente i motivi della lotta ottenendo la solidarietà di gran parte della popolazione e degli operai delle numerose fabbriche della città. Una nutrita parte di quel movimento di occupazione scendeva in città ogni tre o quattro giorni e senza preavviso per occupare ora la Circumvesuviana, ora la Ferrovia di Stato, ora l’entrata dei Cantieri Navali, ora l’accesso all’autostrada e così via, costringendo le autorità a richiedere l’intervento della Celere. Più volte assaltammo il Municipio prendendo in ostaggio sindaco e assessori. Non mancarono scontri molto violenti. Con noi avevamo un grosso calendario tatzebao con i giorni delle lotte... che prometteva azioni sempre più dure. La città divenne ingovernabile. Messo alle corde dall’irriducibilità della lotta il Comune propose alla vedova Tropeano di riaprire la struttura in cambio di un ragionevole affitto e dell’assunzione pubblica di tutti i dipendenti, tutt’ora nei ranghi del Comune. Così l’Istituto riaprì diventando un’importante struttura di assistenza pubblica al disagio.
Secondo aneddoto. In quegli anni la Democrazia Cristiana assegnava case popolari alle famiglie dei galoppini che assicuravano un certo numero di tessere e voti facendo campagna elettorale per “il partito di Dio”. Solo l’occupazione di quei lotti con la forza e poi la resistenza organizzata agli sgomberi garantì le case a chi ne aveva realmente bisogno e diritto. A seguito di duri scontri, il Comune ha dovuto rivedere le sue graduatorie e assegnarle finalmente a chi spettavano. Nessun giudice aveva indagato sulle assegnazioni clientelari e nessun partito aveva preso di petto la questione, ma noi del “movimento” agendo contra legem avevamo fatto giustizia. E qui cito un racconto di Cory Doctorow nell’antologia «Radicalized»: «Chi dice che con la violenza non si risolve mai niente?».
Tornando su larga scala, mi vengono in mente (che siano miti o persone reali poco importa) i ribelli indigeni delle Americhe che hanno resistito con dignità e fino all’ultimo ai conquistatori: Zorro, Pancho Villa, Zapata. Ma anche Spartaco, Robin Hood, i nostri partigiani, Che Guevara, le rivolte nere e Malcom X, il Comandante Marcos con tutti quelli e tutte quelle che dicono ribellarsi è giusto.
Non dimentichiamo che re, imperatori, despoti e aristocrazie sono caduti con le prese alle Bastiglie e con gli assalti ai Palazzi. Tutte le conquiste civili, sociali e politiche del movimento operaio e delle lotte per l’emancipazione sono stati ottenute solo dopo durissime lotte, ognuna delle quali purtroppo conta i suoi morti. Penso alle donne messicane di oggi che hanno deciso di addestrarsi, di armarsi e imparare a sparare per difendersi dai ripetuti sequestri da parte di uomini-mostri.
A volte si è vinto oppure ottenuto qualcosa; altre volte no. Sta nelle cose ma restano esempi che nutrono la speranza e rafforzano la reale possibilità di un cambiamento.
Lo ripeto: ciò che si conquista non è scontato una volta per tutte. Libertà, democrazia e diritti si conquistano giorno per giorno. Con i denti, come recita Malarazza di Domenico Modugno, interpretato anche dai Zezi (storico gruppo musicale operaio di Pomigliano D’Arco): «Ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastone e tira fora li denti».
Qualcuno potrebbe dire che i tempi son cambiati... Per certi versi è senz’altro così, ma il sistema che da secoli ci domina resiste, anche se spesso con “nuovi abiti”. Ho l’impressione che il più delle volte preferiamo girare intorno al problema, proprio per evitare lo scontro con il nemico reale e rischiare il meno possibile. Spesso lo facciamo in nome del “bon ton”, di un cosiddetto ed equivoco confronto civile, di una non violenza e di un pacifismo intesi come valori assoluti, quasi religiosi, dal sapore fin troppo ideologico, sempre meno aderenti allo stato delle cose e alla realtà violenta dei fatti.
Allora chiedo (io non ho risposte certe): non è che col tempo – restando seduti agli schermi, catturati e ipnotizzati dalla rete, affascinati da una affabulatoria e rassicurante critica gentile – ci siamo rammolliti? Non è che avendo trasformato manifestazioni e proteste in comode e pacifiche passeggiate non facciamo più paura a nessuno? Non è che la nostra (per me eccessiva) civile tolleranza abbia concesso al nemico (che ora preferiamo chiamare rispettosamente avversario) fin troppo terreno? E che le belle parole, da sole, non modificano di una virgola i rapporti di forza nei confronti delle capacità coercitive del sistema?
Personalmente credo occorra qualcos’altro (su cui è necessario ricominciare a ragionare). Un certo tipo di pacifismo (talora moralistico) mi pare abbia indebolito parecchio tutti i movimenti che perseguono un cambiamento radicale, togliendo o riducendo ai minimi termini la legittimità di forme di lotta che prevedano l’uso della forza. Comprendo benissimo che non tutti possano essere disposti o capaci di usare la forza o di partecipare a forme di lotta violente, ma credo che nei movimenti – quelli davvero impegnati a cambiare il mondo reale (e non quello dei sogni) – ci debba essere una parte che nei momenti opportuni e laddove si renda necessario se ne deve assumere l’organizzazione, l’onere, il coraggio. Temo altrimenti che sarà sempre più difficile e improbabile riuscire a impensierire, a far cambiare idea e a mettere in crisi chi governa il sistema. Finché non avranno da perdere o da temere... poco o nulla cambieranno.
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